EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Sapevo che mia madre sarebbe morta, conoscevo il finale del mio racconto. Intervista a Mathieu Simonet

di Gianfranco Brevetto

(ITA/FRA versione originale in fondo)

Mathieu Simonet, avvocato e scrittore francese, ci offre un libro che Ăš molto di piĂč di una testimonianza o la descrizione di un evento. La malattia e la morte della madre tappe di un percorso che lo porta a scoprire la scrittura e la narrazione. Il suo libro, La MaternitĂ©, Ăš frutto di testimonianze diverse, un’opera collettiva degli attori, volontari o involontari, di quell’evento. Un testo che meriterebbe di essere tradotto e reso disponibile al pubblico italiano.

– Il suo libro non Ăš solo un diario, un ricordo, una semplice descrizione. PerchĂ© scrivere e descrivere della morte di una madre, di sua madre?

-Scrivere sulla morte della madre Ăš, nello stesso tempo, confortante e vertiginoso. Quasi osceno.  Nelle settimane che precedettero la morte di Pascale (non sono abituato a chiamarla con il suo vero nome; dopo dieci anni dalla morte mi sento autorizzato a farlo), sapevo che stavo scrivendo della sua agonia. Le mie motivazioni erano oscure. Uno stato di necessitĂ . Un dubbio sulla legittimitĂ  di quanto stavo facendo. Una metafora fisica. Scrivere per passare attraverso la finestra, insieme a mia madre. Un ritorno all’infanzia. Una decostruzione della realtĂ . Scrivere nei giorni che hanno preceduto la sua morte era una evidenza ed un condensato di contraddizioni. Le mie motivazioni non erano razionali. Non facevo che obbedire a qualcosa che era sopra di me: il dispiacere, il blocco, il dovere, la caduta. Scrivere era una forma di caduta. Un’arte della caduta. PoichĂ© tutto sembrava crollare, occorreva imparare a cadere. Mi ricordo della grande confusione nel momento in cui ho iniziato a scrivere La MaternitĂ©. Non ho descritto la sua morte, mai veramente; ho descritto i giorni, le settimane, gli anni che hanno preceduto la sua morte. Sono sempre stato affascinato dai rapporti causa-effetto. Da questo gioco di specchi. PerchĂ© questo evento Ăš accaduto davvero? Quale Ăš stato il suo punto di partenza? Si tratta di una storia infinita  che mi interessa dal punto di vista letterario.

PerchĂ© ho scritto sulla morte di mia madre? Riflettendoci ci sono state diverse fasi di scrittura, ad ognuna Ăš associata una spiegazione. In un primo tempo le ragioni erano quasi esoteriche; ero sopraffatto: non avevo scelta; mi sentivo colpevole. Con quale diritto potevo scrivere sulla morte ( l’agonia e il periodo che la precede) quando mia madre non era ancora deceduta? La scrittura, mi dicevo a volte, finirĂ  con spingerla verso la morte. La mia scrittura, in modo delicato, cercava questo punctum[1], questa fine. Avevo anche scritto (per me un sacrilegio supremo), la prima frase del testo che avrei letto ai suoi funerali. Tutto, dunque, Ăš iniziato nel caos. Poi, ho scritto per consolarmi, per un mese intero, non potevo fare null’altro. Mi sentivo legittimato, in quanto scrittore, a raccontare la morte di mia madre. Uscito dalla confusione, mi sentivo scrittore in tutto e per tutto. Ero nel  cuore della scrittura, con le  comete che ci fanno sentire senza peso. Mi ricordo molto bene di questo secondo periodo, l’estate del 2009. Scrivevo perchĂ© ero scrittore (mentre qualche settimana dopo, avrei scritto perchĂ© ero suo figlio). Uno spostamento di motivazione accaduto nel corso di qualche settimana che ha avuto un impatto concreto sulla mia scrittura. Di lĂŹ sono entrato in una terza fase. Quella dell’artigiano. Scrivevo per dare un manoscritto al mio editore. Con la volontĂ  di realizzare un bel libro. Di fare un lavoro soddisfacente. Cesellavo le mie frasi, ritagliavo i paragrafi. Non ero piĂč un figlio, non ero piĂč uno scrittore. Ero solo uno che voleva piacere al proprio editore, RenĂ© de Ceccatty. Lui mi ha incoraggiato dall’inizio: mi ha indicato la strada, Ăš qualcosa di cui io ho intimamente coscienza. Ha fatto di me uno scrittore, mi ha aiutato a costruire un’opera, in maniera piĂč o meno microscopica. E poi, c’ù stata la quarta fase: scrivere per i propri lettori. Non per creare interesse, per dar loro voglia di leggermi. No, no, la mia ambizione era piĂč vasta. Avrei voluto che questo libro parlasse loro della loro madre. Per questo motivo ho proposto, a tutti quelli che lo desiderassero, di inviarmi un testo sulla propria madre. PiĂč di duecento persone hanno partecipato a questo progetto che Ăš tutt’ora in corso, tutti i testi sono pubblicati su un blog, non vi Ăš alcuna selezione, si puĂČ scrivere in francese o in qualsiasi lingua, non ci sono condizioni preliminari: la madre puĂČ essere ancora vivente; avere con lei un rapporto semplice o complesso; piĂč o meno armonioso. Ho scritto questo libro ( me ne sono reso conto troppo tardi) per motivare gli altri a scrivere sulla propria madre. E questo ha avuto, a volte, delle conseguenze incredibili; il libro ha permesso ad alcuni di modificare la relazione con la propria madre. Ne sono stato sconvolto. Io credo che non si sa mai  perchĂ© si scrive un libro; lo si scopre pian piano. È un percorso iniziatico che non si riesce ad anticipare. Nei mesi seguenti la pubblicazione de La MaternitĂ©, ho compreso la quinta ( e forse ultima ) ragione: questo libro aveva per ambizione di scuotere i medici. Descrivere l’agonia di mai madre, voleva offrir loro un’illuminazione. Aiutarli, in parte,  a comprendere la dimensione simbolica che Ăš singolare e universale. Ne ho preso coscienza quando ho avuto l’opportunitĂ  di presentare il mio libro nella sua dimensione letteraria e medica, all’ospedale della PitiĂ©-SalpȇtriĂšre. Mi ricordo di un attore, che aveva letto davanti a medici e studenti, la pagina del mio libro che narra di una scena molto dura nella quale mamma si lamentava dei dolori all’ano. Bisognava darle una pomata; un infermiere si dirigeva verso al sua camera. Mi ero opposto perchĂš occorreva far venire un’infermiera donna. Impossibile. Non si puĂČ scegliere il sesso di chi cura, mi aveva detto. Ero sconvolto. Mi ricordo che i medici, dopo aver ascoltato l’attore leggere questo testo, avevano cambiato opinione: la maggior parte sostenevano che, nell’immediato, avrebbero avuto la stessa reazione dell’infermiere (chi se ne frega del sesso della mano che va a spalmare la pomata sull’ano di vostra madre!). Poi, leggendo il mio testo, con la voce di un attore, hanno capito che forse non si trattava solo di un mio capriccio. Paradossalmente, in questo luogo strategico, diventa importante il sesso di colui o colei che lenisce il dolore,.

– PerchĂ© questo titolo: La MaternitĂ©?

– Le edizioni Du Seuil non hanno accettato subito questo titolo; per me, era invece evidente. Il giorno in cui Ăš morta mia madre, ho scoperto che il centro di cure palliative, in cui lei era arrivata quindici giorni prima, era stato un reparto di maternitĂ  alcuni decenni fa. Me ne sono reso conto per caso, quando passeggiavo nel parco del centro stesso. Ero attento a dettagli che non avevo mai osservato prima. In particolare l’iscrizione su un muro, vestigia dell’epoca in cui lo stesso luogo era stato un reparto maternitĂ . Vi era un legame simbolico tra nascita  e morte  che mi appariva davanti. Giorni dopo, una delle mie amiche ( con la quale avrei poi avuto un figlio) ha iniziato la sua gravidanza nel momento preciso in cui le ceneri di mai madre sono state deposte nel loculo famigliare. Il caso, la concomitanza mi hanno affascinato. Una volontaria del centro di cure palliative mi aveva, allo stesso tempo, parlato di questo legame tra il parto e la morte: si pensa che sia impossibile. Poi, vi Ăš un momento in cui il corpo si rilassa. L’impossibile diventa concreto (ma queste sono solo cose che io ho sentito dire, non ho ancora vissuto in concreto nessuna di queste esperienze. NĂ© il parto. NĂ© la morte).

In seguito, quando il libro Ăš uscito, ho a volte avvertito un certo malessere quando le donne incinte si precipitavano per sfogliarlo in libreria, le guardavo che voltavano il libro per leggere la quarta di copertina. In un primo tempo reagivano dicendo piĂč o meno tutte la stessa cosa: di solito un uomo non scrive sulla maternitĂ ! Guardavo il loro ventre e non osavo dir loro: lasciate questo libro, non vorrei ferirvi. Ci ho pensato spesso, ma non ho mai osato dirlo. Vedevo ogni volta il momento in cui avrebbero smesso di scherzare, in cui si sarebbero sentite a disagio. Di fronte a me, tra di loro. Ogni volta c’era bisogno che trovassero la forza, senza fretta, di posare il libro lascindo cadere qualche frase, per poi andar via. Erano sempre parole pesanti. Non so se sono contento di questo titolo. Infine credo che sia troppo austero, troppo concettuale. Ma esiste in me, con tutta la sua storia.

– All’inizio sua madre racconta la sua prima malattia. Quali sono le sue difficoltĂ  legate al pensiero della narrazione del dopo?

– Una delle origini di questo libro Ăš la storia della malattia (non quella della morte): volevo scrivere questo libro perchĂ© mia madre aveva avuto un tumore che era in fase di remissione. Ma non sapevo che questa remissione fosse solo provvisoria. Erano gli inizi degli anni 2000. Volevo farle scrivere (spesso la mia scrittura Ăš solo un motore per invogliare gli altri a fare ugualmente), dunque spingevo mia madre a scrivere. Ero affascinato dalla sua storia famigliare. Mi sentivo tagliato fuori dalle mie radici. Volevo che raccontasse, per lei e per me. Le avevo dato carta bianca: poteva scrivere ciĂČ che voleva. Ero convinto che avrebbe parlato della sua infanzia, della sua giovinezza. Mi sbagliavo: voleva parlare della difficoltĂ  di non essere piĂč malata. Mi inviava dei testi regolarmente. Avevano per titolo “cancro” con un numero. Mamma era distaccata. La narrazione aveva preso il sopravvento sulla sua malattia: il cancro era sotto chiave, dominato. Mamma ne parlava con nostalgia. Poi, colpo di scena: il primo aprile 2003 (ero appena andato a vivere da solo), mamma scopre di avere un cancro alle ossa; senza speranza di guarigione. Da allora non ha piĂč scritto un solo rigo. La scrittura era bloccata. Il cancro aveva ripreso il sopravvento. Il dopo malattia mi evoca questi ricordi. Questa pagina bianca di mia madre quando la malattia ha ripreso piede.

– Nel suo libro lei ha condotto un’inchiesta utilizzando i racconti incrociati di alcuni personaggi che hanno circondato sua madre durante la sua malattia. PerchĂ© questa scelta?

– Dopo il mio primo romanzo (Les Carnets blanc, Seuil, 2010), prediligo la forma orale: mi piace far ascoltare piĂč voci. Come se il lettore fosse uno spettatore in una sala teatrale. O davanti a un film. Per me, lo scrittore, Ăš un direttore d’orchestra. Non un oratore. Non so perchĂ© questa cosa mi tocchi cosĂŹ tanto. Ho cominciato a lavorare in questo modo nel 1992; avevo vent’anni, tornavo da un viaggio nei paesi dell’Est. Ero partito da solo, avevo annotato molte cose di cui nutrire i miei personaggi, Avevo in testa una scena di teatro, con uomini e donne allineati, che alternavano i loro monologhi senza ascoltare gli altri. Volevo che ognuno avanzasse sulla linea, come fanno i nuotatori, Volevo egualmente che da questo caos potesse venir fuori una unitĂ . PiĂč precisamente un’armonia. Non so se Ăš legato al fatto che mio mio padre soffre di problemi psichiatrici, al mio desiderio di trovare una coerenza di fronte alla malattia mentale, ho pensato lungamente (e puĂČ essere un caso) che la scrittura potesse essere un argine alla follia. O piĂč precisamente  un’ambasciata per accogliere la pazzia. Per farne uno spazio comune. Velocemente, testando questa forma di scrittura, questo defilĂ© di monologhi, ho rivoltato, sul piano estetico, con la moltitudine di voci,  la loro capacitĂ  di arricchirsi quando tutto li oppone, A volte comparo questo spazio-tempo alla musica: perchĂ© questi testi non hanno nulla vedere gli uni con gli altri (un rapporto amministrativo, la testimonianza di un medico, le annotazione del mio diario, ecc.)  perchĂ© non collocati nello stesso luogo, la loro coesistenza genera un’emozione supplementare. È questa fusione che mi sfugge che cerco nella scrittura.

– Qual Ăš per lei la relazione tra narrazione e malattia?

– Credo che non si sa mai cosa accadrĂ . Quando si scrive un libro. Quando un parente Ăš malato. Almeno, nel momento in cui scrivo queste righe, non lo so. Ne ho un’intuizione, certo. Ho il presentimento se finirĂ  bene o male. Sapevo, per esempio, che mia madre sarebbe morta; sapevo che il libro stava in piedi. Avevo il finale: ( mia madre moriva quandi stavo per finire il libro) ma non sapevo attraverso cosa sarei passato, quali sarebbero state le conseguenze; non sapevo quanto tempo sarebbe durato. In tutti i casi si tratta di una forma di esperienza. Il corpo dello scrittore, il corpo del figlio. Nelle due ipotesi, il corpo  Ú psichicamente implicato. MI sentivo un automa. Qualcosa mi superava. Un’autoritĂ  giocvaa con la malattia, con i miei fili narrativi. Ero il giocattolo pronto a cadere nel burrone, poi fortunatemente un cartello stradale. Ero salvo.

– Cosa significa raccontare la morte e come questa narrazione puĂČ esser utile all’elaborazione del lutto?

– Non credo che si racconti la morte. In tutti i casi, io non ho raccontato la morte di mia madre. Non ero presente quando Ăš deceduta. Ero lĂŹ qualche momento prima e poi dopo. Ma non al momento esatto. Non ho scritto della sua morte. Sul momento della sua scomparsa. Raccontare la morte Ăš come guardare fisso il sole. Un’esperienza impossibile intorno alla quale gira tutto. Pertanto, quando mi chiedono di descrivere La MaternitĂ©, spesso rispondo: ho scritto sulla morte di mia madre. Ma Ăš falso.. Ho scritto sulla malattia, sull’agonia (sul tempo che prepara alla morte, di queste due settimana passate in un centro di cure palliative), ho scritto sul lutto, i giorni, le settimane, i mesi che seguono. Raccontare la morte, significa scrivere del momento in cui la morte Ăš presente. La morte di mia madre Ăš stata onnipresente nella scrittura de La MaternitĂ©. Ma non Ăš la stessa cosa. Questa narrazione ha facilitato il mio lutto? Quello degli altri? Mi sembra che questo libro sia stato dentro e fuori il lutto. Dentro, perchĂ© scrivere mi ha dato molta serenitĂ , un quadro, un orizzonte, una zattera di salvezza. Ma Ăš la scrittura che ha questa caratteristica, non la scrittura di questo libro in particolare. Fuori, perchĂ© avevo l’impressione di recitar un ruolo, di essere in perfetta discrepanza con questo libro. Scrivevo, avevo una sensazione di potenza o di appagamento solo quando la mia scrittura appariva autonoma in rapporto al mio lutto. Il lutto, credo, ha sempre avuto una lunghezza di vantaggio sulla mia scrittura. Una frase mi aveva colpito. Quella di una dottoressa (che si era molto risentita del mio libro mentre io credevo fosse per lei un sostegno letterario); questo medico mi aveva parlato delle varie stagioni: “ Il primo anno sarĂ  difficile perchĂ© vivrete quotidianamente un anniversario. Il primo natale senza sua madre, la prima neve senza sua madre. Il primo compleanno senza sua madre. Questo vi farĂ  piangere”. Aveva ragione. Il primo anno dopo la morte di mia madre, ogni giorno era un’eco della sua assenza. Dopo un anno ho iniziato a soffrire di meno. Oggi non soffro piĂč. Resistere per un anno Ăš il segreto che suggerisco a tutte quelle e tutti quelli che mi dicono di aver perduto la propria madre o il proprio padre. È una formula magica. Una lettrice mi ha detto che questo l’ha aiutata. Come me, lei si era data questo orizzonte, un anno. Questi 365 giorni durante i quali la morte sembra essersi introdotta in noi. Come se la morte di una madre potesse frapporre un vetro tra noi e la vita. Mi sono spesso chiesto se il mio libro potesse accompagnare il lutto di un lettore. Credo di sĂŹ, si diventa degli iniziati quando muore la propria madre. La MaternitĂ© Ăš la testimonianza di un cerchio d’iniziati al quale accederemo quasi tutti.

– Albert Camus ha iniziato una della sue opere piĂč celebri, Lo Straniero, con : “Oggi mia madre Ăš morta.” Qual Ăš per lei, in quanto scrittore, questa stretta relazione tra la letteratura il sentimento della morte materna?

– Brucio le tappe. Ho l’impressione che le mie risposte travalichino le sue domande. Che le mie risposte debordino. Non parliamo la stessa lingua ed Ăš possibile che ci siano contraddizioni e malintesi. Volete che io risponda veramente alla sua domanda? Cosa vi attendete dalle mie risposte? Io credo che la letteratura sia una sorta di trance. Vi Ăš qualcosa di indicibile. Ci si mette in gioco. Si sa che questo rende la veritĂ  molteplice. La morte di mia madre ha qualche relazione con la letteratura? Con la mia scrittura? SĂŹ, credo. Non avrei certamente osato scrivere questo libro se mia madre vivesse ancora. Non avrei certamente osato raccontare i ricordi d’infanzia o di ragazza di mia madre. Quantomeno li avrei edulcorati. Avrei inclinato la mia scrittura in funzione del potenziale giudizio di mia madre. La morte di mia madre  mi ha liberato come scrittore.  Non Ăš certamente un caso il fatto che il mio primo libro sia stato pubblicato qualche mese dopo la sua morte. Ho potuto riappropriarmi della mia identitĂ . Del mio nome alla nascita. A quindici anni mia madre volle che io aggiungessi il suo cognome al mio. Ero divenuto Mathieu AndrĂ©-Simonet. Ho atteso la morte di mia madre (a 37 anni) per avere il coraggio di cancellare il suo nome: AndrĂ©. La pubblicazione del mio primo libro mi ha permesso di utilizzare il mio  nuovo cognome, che si Ăš in seguito diffuso in tutte le altre attivitĂ , in primo luogo al mio mestiere d’avvocato (era complicato, quasi fastidioso, spiegare a degli sconosciuti, a dei clienti che non conoscevano nulla della mia storia, che cambiavo cognome perchĂ© mia madre era morta). Si trattava per me di un ritorno identitario.

Mi ricordo di uno dei primi testi che ho scritto, una novella ispirata da mio padre. La cloque en feu, non avevo un pc. Mamma mi aveva autorizzato a lavorare sul suo, in ufficio. Lei era passata dietro di me, c’era una parola che l’aveva scioccata (sperma? masturbazione? eiaculazione?… un vocabolo del genere): si trattava di una metafora. Ero influenzato da Georges Bataille: la scrittura, il sesso, la morte si incrociavano nel mio cervello; credevo di aver scritto una frase molto significativa, non qualcosa di scioccante o volgare. Mamma era furiosa. Sentivo un abisso tra di noi. Forse con la sua morte, questo abisso si Ăš chiuso. Mia madre ha avuto una grande influenza sulla mia scrittura. Mi ha dato il gusto del reale. Delle storie intime che esistono in ognuno di noi. In ogni famiglia. Lei mi diceva: “Non si puĂČ essere sempre fieri, ma occorre sempre tenere la testa alta. Per me la letteratura segue questo principio: sempre, qualsiasi cosa arrivi, occorre tenere alta la testa, soprattutto se si evocano scene delle quali ci si puĂČ vergognare. E’ a questa condizione che la vita diventa romanzesca, sensibile, universale: materna.

Mathieu Simonet

La Maternité

Editions du Seuil , 2012

***

– M. Simonet, votre ouvrage est plus qu’un tĂ©moignage ou un souvenir. Pourquoi Ă©crire et dĂ©crire la mort d’une mĂšre, de votre mĂšre ?

Ecrire sur la mort de sa mĂšre ; cela est Ă  la fois rĂ©confortant et vertigineux, presque obscĂšne. Dans les semaines qui ont prĂ©cĂ©dĂ© la mort de Pascale (je ne suis pas habituĂ© Ă  donner son vrai prĂ©nom ; dix ans aprĂšs sa mort, je me sens autorisĂ© Ă  le faire), j’ai su que j’allais Ă©crire sur son agonie. Mes motivations Ă©taient troubles. Un Ă©tat de nĂ©cessitĂ©. Un doute sur la lĂ©gitimitĂ© de ma dĂ©marche. Une mĂ©taphore physique. Ecrire pour passer Ă  travers la fenĂȘtre en mĂȘme temps que maman. Un retour en enfance. Une dĂ©construction de la rĂ©alitĂ©. Ecrire dans les jours qui ont prĂ©cĂ©dĂ© sa mort Ă©tait une Ă©vidence et un condensĂ© de contradictions. Mes motivations n’étaient pas rationnelles. Je ne faisais qu’obĂ©ir Ă  quelque chose qui me dĂ©passait : le chagrin, la sidĂ©ration, le devoir, la chute. Ecrire Ă©tait une forme de chute. Un art de la chute. Puisque tout allait s’écrouler, il fallait que j’apprenne Ă  tomber. Je me souviens d’une grande confusion au moment oĂč j’ai commencĂ© Ă  Ă©crire La MaternitĂ©. Je n’ai pas dĂ©crit sa mort, pas vraiment ; j’ai dĂ©crit les jours, les semaines, les annĂ©es qui ont prĂ©cĂ©dĂ© sa mort. J’ai Ă©crit l’explication de sa mort. J’ai toujours Ă©tĂ© fascinĂ© par les rapports de cause Ă  effet. Ce jeu de miroirs. Pourquoi tel Ă©vĂšnement-a-t-il vraiment eu lieu ? Quel est son point de dĂ©part ? C’est une histoire sans fin qui m’intĂ©resse sur un plan littĂ©raire.

Pourquoi avoir Ă©crit sur la « mort » de ma mĂšre ? A la rĂ©flexion, il y a eu plusieurs phases d’écriture ; Ă  chacune est associĂ©e une explication. Dans un premier temps, les raisons Ă©taient presque Ă©sotĂ©riques ; cela me dĂ©passait : je n’avais pas le choix ; je culpabilisais. De quel droit pouvais-je Ă©crire sur la « mort » (l’agonie, l’avant-agonie) alors que maman n’était pas encore morte ? L’écriture, je me disais parfois, va la pousser vers la mort. Mon Ă©criture, de maniĂšre morbide, cherche ce punctum, cette fin. J’avais mĂȘme Ă©crit (ce qui pour moi Ă©tait le sacrilĂšge suprĂȘme), la premiĂšre phrase du texte que j’allais lire Ă  ses obsĂšques. Tout a donc commencĂ© dans le chaos. Puis, j’ai Ă©crit pour me consoler, pendant un mois, parce que je ne pouvais rien faire d’autre. Parce que je me sentais lĂ©gitime en tant qu’écrivain Ă  raconter la mort de ma mĂšre. A ce moment-lĂ , je n’étais plus dans le chaos, j’étais l’écrivain. Au cƓur de l’écriture, avec ses comĂštes qui nous mettent en apesanteur. Je me souviens trĂšs bien de cette deuxiĂšme pĂ©riode, l’étĂ© 2009. J’écrivais parce que j’étais Ă©crivain (alors que quelques semaines plus tĂŽt, j’écrivais parce que j’étais son fils). Il y a eu un dĂ©placement de motivations qui s’est opĂ©rĂ© en quelques semaines. Et cela a eu un impact concret sur mon Ă©criture. Je suis ensuite entrĂ© dans une troisiĂšme phase. Celle de l’artisan. J’écrivais pour rendre un manuscrit Ă  mon Ă©diteur. Avec la volontĂ© de rĂ©aliser un beau livre. De faire un travail « satisfaisant ». Je ciselais mes phrases ; je dĂ©coupais les paragraphes. Je n’étais plus le fils, je n’étais plus l’écrivain. J’étais d’abord celui qui voulait plaire Ă  son Ă©diteur, RenĂ© de Ceccatty, qui m’encourage depuis l’origine : il me montre la voie ; c’est quelque chose dont j’ai intimement conscience. Il fait de moi un Ă©crivain. Il m’aide Ă  construire une Ɠuvre, de maniĂšre microscopique ou pas. Et puis, il y a eu la quatriĂšme phase : Ă©crire pour les lecteurs. Pas simplement pour les intĂ©resser, pour leur donner envie de me lire. Non, mon ambition Ă©tait plus vaste. Je voulais que ce livre leur parle de leur propre mĂšre. C’est pourquoi j’ai proposĂ© Ă  tous ceux qui le souhaitaient de m’envoyer un texte sur leur mĂšre (plus de deux cents personnes ont participĂ© Ă  ce projet qui est toujours en cours, tous les textes sont publiĂ©s sur un blog, il n’y a aucune sĂ©lection, on peut m’écrire en français ou dans une autre langue, il n’y a pas de conditions Ă  remplir : votre mĂšre peut ĂȘtre vivante ou pas ; vous pouvez avoir un rapport simple ou compliquĂ© avec elle ; harmonieux ou pas). J’ai Ă©crit ce livre (je m’en suis rendu compte aprĂšs coup) pour donner envie aux autres d’écrire sur leur propre mĂšre. Et cela a parfois eu des consĂ©quences incroyables ; mon livre a permis Ă  certains de modifier la relation qu’ils entretenaient avec leur mĂšre. Cela m’a bouleversĂ©. Je crois qu’on ne sait jamais pourquoi on Ă©crit un livre ; on le dĂ©couvre au fur Ă  mesure. C’est un parcours initiatique qu’on ne peut jamais anticiper. Dans les mois qui ont suivi la publication de La MaternitĂ©, j’ai compris la cinquiĂšme (et peut-ĂȘtre derniĂšre) raison : ce livre avait pour ambition de bousculer les mĂ©decins. DĂ©crire l’agonie de ma mĂšre, c’était leur offrir un Ă©clairage. Les aider en partie Ă  comprendre une dimension symbolique qui est singuliĂšre et universelle. J’en ai pris conscience lorsque j’ai eu l’opportunitĂ© de prĂ©senter mon livre dans sa dimension littĂ©raire et mĂ©dicale, notamment Ă  la PitiĂ©-SalpĂȘtriĂšre. Je me souviens d’un comĂ©dien qui avait lu devant des mĂ©decins et des Ă©tudiants une scĂšne assez dure dans laquelle maman se plaint de douleurs Ă  l’anus, il fallait lui administrer une pommade ; un infirmier se dirigeait vers sa chambre. Je m’y Ă©tais opposĂ© : il fallait faire venir une infirmiĂšre. Impossible. On ne peut pas choisir le sexe des soignants. J’étais dĂ©vastĂ©. Je me souviens que les mĂ©decins, aprĂšs avoir entendu le comĂ©dien lire ce texte, avaient « changĂ© » d’avis : la plupart disaient que dans l’action, ils auraient eu la mĂȘme rĂ©action que celle de cet infirmer (On s’en fout du sexe de la main de celui qui va poser une pommade sur l’anus de votre mĂšre !). Et puis, en lisant mon texte, avec la voix du comĂ©dien, ils ont compris que ce n’était peut-ĂȘtre pas un caprice de ma part. Ils ont compris que c’était paradoxalement important : le sexe de celui ou celle qui apaise. A cet endroit stratĂ©gique.

– Pourquoi ce titre : La MaternitĂ© ? 

Les Ă©ditions du Seuil n’ont pas tout de suite acceptĂ© ce titre ; pour moi, il Ă©tait Ă©vident. Le jour de la mort de ma mĂšre, j’ai dĂ©couvert que le centre de soins palliatifs oĂč elle Ă©tait arrivĂ©e quinze jours auparavant avait Ă©tĂ© une maternitĂ© des dĂ©cennies plus tĂŽt. Je m’en suis rendu compte par hasard, alors que je marchais dans le parc du centre de soins palliatifs. J’étais attentif Ă  des dĂ©tails que je n’avais jamais vus jusqu’à ce jour. Notamment une inscription sur un mur, vestige de l’époque oĂč ce lieu avait Ă©tĂ© une maternitĂ©. Il y avait un lien symbolique entre la naissance et la mort qui surgissait devant moi. Quelques jours plus tard, une de mes amies (avec laquelle je devais avoir un enfant) est tombĂ©e enceinte au moment prĂ©cis oĂč les cendres de maman ont Ă©tĂ© dĂ©posĂ©es dans le caveau familial ; ce hasard m’a fascinĂ©. Une bĂ©nĂ©vole du centre de soins palliatifs m’avait Ă©galement rĂ©vĂ©lĂ© ce lien entre l’accouchement et la mort : on pense que c’est impossible ; et puis il y a un moment oĂč le corps se relĂąche. L’impossible devient concret (Je ne fais que rĂ©pĂ©ter ce que j’ai entendu, puisque je n’ai vĂ©cu aucune de ces expĂ©riences. Ni la mort. Ni l’accouchement).

Par la suite, lorsque mon livre est sorti, j’ai parfois senti un certain malaise lorsque des femmes enceintes se prĂ©cipitaient sur mon livre. Je les regardais retourner le livre pour dĂ©couvrir la quatriĂšme de couverture. D’abord, elles fanfaronnaient, disaient presque toujours la mĂȘme chose : « Ce n’est pas commun, un homme qui Ă©crit sur la maternitĂ© ! ». Je regardais leur ventre ; je n’osais pas leur murmurer : « Posez ce livre. J’ai peur de vous blesser. » J’ai souvent pensĂ© Ă  ça, sans jamais le dire. Je voyais Ă  chaque fois ce moment oĂč elles cessaient de jouer, oĂč je les sentais mal Ă  l’aise. Vis-Ă -vis de moi. Vis-Ă -vis d’elles. Il fallait maintenant qu’elles trouvent la force, sans ĂȘtre trop brusque, de reposer le livre, de dire quelque chose d’anodin, puis de repartir. C’étaient toujours des moments pĂ©nibles. Je ne sais pas si je suis content de ce titre. Il est finalement peut-ĂȘtre trop austĂšre ; trop conceptuel. Il existe en moi ; avec toute son histoire.

– Au dĂ©but, votre mĂšre se raconte. Quelles sont les difficultĂ©s liĂ©es Ă  la narration de l’aprĂšs maladie ?

Une des origines de ce livre, c’est l’histoire de la maladie (et non celle de la mort) : je voulais Ă©crire ce livre parce que ma mĂšre avait eu un cancer et qu’elle Ă©tait en rĂ©mission. Je ne savais pas que cette rĂ©mission Ă©tait provisoire. C’était au dĂ©but des annĂ©es 2000. Je voulais la faire Ă©crire (mon Ă©criture a souvent pour moteur l’envie de faire Ă©crire les autres) ; je poussais donc maman Ă  Ă©crire. Car son histoire familiale me fascinait. Parce que je me sentais coupĂ© de mes racines. Je voulais qu’elle raconte, pour elle et pour moi. Je lui avais donnĂ© carte blanche : elle pouvait Ă©crire ce qu’elle souhaitait. J’étais persuadĂ© qu’elle allait parler de son enfance, de sa jeunesse. Je me trompais : elle voulait parler de la difficultĂ© de ne plus ĂȘtre malade. Elle m’envoyait des textes rĂ©guliĂšrement. Ils avaient pour titre « cancer » avec un numĂ©ro. Maman avait du recul. La narration avait pris le pouvoir sur la maladie ; le cancer Ă©tait sous cloche. Maman en parlait avec nostalgie. Et puis, coup de thĂ©Ăątre : le 1er avril 2003 (je venais de m’installer Ă  mon compte), maman dĂ©couvre qu’elle a un cancer des os ; elle ne pourra pas guĂ©rir. Ensuite, elle n’a plus jamais Ă©crit une ligne. L’écriture Ă©tait sous cloche. Le cancer avait repris le pouvoir. Je ne sais pas si j’ai rĂ©pondu Ă  la question. Je ne sais pas si je l’ai comprise. L’aprĂšs-maladie m’évoque ce souvenir. Cette page blanche de maman lorsque la maladie a repris du galon.

– Dans votre livre vous avez mis en place une enquĂȘte en utilisant les rĂ©cits croisĂ©s de plusieurs personnages qui ont entourĂ© votre mĂšre dans sa maladie. Pourquoi ce choix ?

Depuis mon premier roman (Les Carnets blancs, Seuil, 2010), je privilĂ©gie la forme chorale : j’aime faire entendre plusieurs voix. Comme si le lecteur Ă©tait un spectateur dans une salle de thĂ©Ăątre. Ou devant un film. J’aime, dans un texte, qu’il n’y ait pas que la voix de l’auteur. L’écrivain, pour moi, est un chef d’orchestre. Pas un orateur. Je ne sais pas pourquoi cela me touche autant. J’avais commencĂ© Ă  travailler ainsi en 1992 ; j’avais vingt ans. Je revenais d’un voyage dans les pays de l’Est. J’étais parti seul. J’avais pris des notes pour nourrir mes personnages. Et j’avais en tĂȘte une scĂšne de thĂ©Ăątre, avec des hommes et des femmes en ligne, qui balanceraient leur monologue sans Ă©couter les autres. Je voulais que chacun avance sur sa propre ligne, comme le feraient des nageurs. Et je voulais Ă©galement que de ce chaos puisse surgir une unitĂ©. Ou plus prĂ©cisĂ©ment une harmonie. Je ne sais pas si c’est liĂ© Ă  mon pĂšre qui a des problĂšmes psychiatriques, Ă  mon dĂ©sir de trouver une cohĂ©rence face Ă  la folie. J’ai longtemps pensĂ© (et c’est peut-ĂȘtre le cas) que l’écriture est un rempart contre la folie. Ou plus prĂ©cisĂ©ment une ambassade pour accueillir la folie. Pour en faire un espace commun. Et assez vite, en testant cette forme d’écriture, ce dĂ©filĂ© de monologues, j’ai Ă©tĂ© bouleversĂ©, sur un plan esthĂ©tique, par la multitude des voix, par leur capacitĂ© Ă  s’enrichir lorsque tout les oppose. Je compare parfois cet espace-temps Ă  de la musique : parce que ces textes n’ont rien Ă  voir les uns avec les autres (un rapport administratif, le tĂ©moignage d’un mĂ©decin, les notes dans mon journal, etc.) parce qu’ils ne devraient pas ĂȘtre classĂ©s au mĂȘme endroit, leur coexistence gĂ©nĂšre une Ă©motion supplĂ©mentaire. C’est cette fusion qui m’échappe que je cherche dans l’écriture.

– Quelle est pour vous la relation entre la narration et la maladie ?

Je crois qu’on ne sait jamais ce qui va se passer. Quand on Ă©crit un livre. Quand un proche est malade. Du moins, Ă  l’heure oĂč j’écris ces lignes, je ne le sais pas. J’ai une intuition bien sĂ»r. Je pressens si ça va bien se passer ou pas. Je savais par exemple que ma mĂšre allait mourir ; je savais Ă©galement que je « tenais » un livre. J’avais la fin (ma mĂšre va mourir ; je vais terminer un livre), mais je ne savais pas par oĂč je passerai, quels seraient les rebondissements ; je ne savais pas combien de temps cela durerait. Dans les deux cas, c’est une forme d’expĂ©rience. Le corps de l’écrivain, le corps du fils. Dans les deux hypothĂšses, le corps est physiquement impliquĂ©. Je suis comme un automate. Quelque chose me dĂ©passe. Une autoritĂ© joue avec la maladie, avec mes fils narratifs. Je suis le jouet qui pourrait se jeter de la falaise. Et je tombe toujours dans le panneau. C’est ce qui me sauve.

– Qu’est-ce que veut dire raconter la mort et comment cette narration peut-elle ĂȘtre utile pour l’élaboration du deuil ?

Je ne crois pas qu’on raconte la mort. En tout cas, moi, je n’ai pas racontĂ© la mort de ma mĂšre. Je n’étais pas prĂ©sent quand elle est dĂ©cĂ©dĂ©e. J’étais lĂ  quelques minutes avant, quelques minutes aprĂšs. Mais pas au moment « t ». Je n’ai pas Ă©crit sur la mort. Sur le moment de la disparition. Raconter la mort c’est comme regarder le soleil dans les yeux. Une expĂ©rience impossible autour de laquelle on tourne tous. Pourtant, lorsqu’on me demande de dĂ©crire La MaternitĂ©, je dis souvent : J’ai Ă©crit sur la mort de ma mĂšre. C’est faux. J’ai Ă©crit sur la maladie, sur « l’agonie » (sur le temps qui prĂ©pare Ă  la mort, notamment ces deux semaines dans un centre de soins palliatifs), j’ai Ă©crit sur le deuil, les jours, les semaines, les mois qui suivent. Raconter la mort, ça veut dire Ă©crire Ă  un moment oĂč la mort est prĂ©sente. La mort de maman Ă©tait omniprĂ©sente dans l’écriture de La MaternitĂ©. Mais ce n’est pas pareil qu’écrire sur la mort. Cette narration a-t-elle facilitĂ© mon deuil ? Celui des autres ? Il me semble que ce livre Ă©tait Ă  l’intĂ©rieur et Ă  l’extĂ©rieur du deuil. A l’intĂ©rieur, car Ă©crire m’a apportĂ© beaucoup de douceur, un cadre, un horizon, une planche de salut. Mais c’est l’écriture qui a eu ce statut, pas l’écriture de ce livre en particulier. Et Ă  l’extĂ©rieur, parce que j’avais l’impression de jouer un rĂŽle, d’ĂȘtre en parfait dĂ©calage avec ce livre. Je n’écrivais, je ne ressentais une forme de puissance et de douceur, que lorsque mon Ă©criture Ă©tait autonome par rapport Ă  mon deuil. Le deuil, je crois, a toujours eu une longueur d’avance sur mon Ă©criture. Une phrase m’avait marquĂ©. Celle d’une mĂ©decin (qui a Ă©tĂ© trĂšs fĂąchĂ©e par mon livre alors que je pensais qu’elle serait un soutien littĂ©raire), cette mĂ©decin m’avait parlĂ© des saisons : « La premiĂšre annĂ©e sera difficile parce que vous vivrez quotidiennement des anniversaires. Le premier noĂ«l sans votre mĂšre. Les premiĂšres neiges sans votre mĂšre. Votre premier anniversaire sans votre mĂšre. Et cela vous fera pleurer. » Et elle avait raison. La premiĂšre annĂ©e aprĂšs la mort de maman, chaque jour Ă©tait vĂ©cu en Ă©cho Ă  son absence. AprĂšs un an, j’ai commencĂ© Ă  moins souffrir. Aujourd’hui, je ne souffre plus du tout. Tenir pendant un an, c’est le secret que je glisse Ă  l’oreille Ă  toutes celles et de tous ceux qui me disent avoir perdu leur pĂšre ou leur mĂšre. C’est une formule magique. Une lectrice m’a dit que cette phrase l’avait aidĂ©e. Comme moi, elle s’était accrochĂ©e Ă  cet horizon d’un an. Ces 365 jours pendant lesquels la mort semble s’ĂȘtre introduit en nous. Comme si la mort d’une mĂšre abattait une vitre entre nos corps et la vie. Je me suis souvent demandĂ© si mon livre pouvait accompagner le deuil d’un lecteur. Je crois que oui, qu’on devient des initiĂ©s lorsque notre mĂšre meurt. La MaternitĂ©, c’est le tĂ©moignage d’un cercle d’initiĂ©s auquel nous accĂ©derons presque tous.

– Albert Camus commençait un de ses ouvrages les plus cĂ©lĂšbres, L’Etranger, avec : « Aujourd’hui, ma mĂšre est morte.» Quel est pour vous, en tant qu’écrivain, cette relation Ă©troite entre la littĂ©rature et le sentiment de mort maternelle ?

J’ai brĂ»lĂ© les Ă©tapes. J’ai l’impression que mes rĂ©ponses « mangent » sur vos questions. Que mes rĂ©ponses dĂ©bordent. Nous ne parlons pas la mĂȘme langue. Il est possible que des contradictions, des malentendus soient posĂ©s sur notre route. Est-ce que je rĂ©ponds vraiment Ă  vos questions ? Qu’attendez-vous de mes rĂ©ponses ? Je crois que la littĂ©rature est une forme de transe. On sait qu’il y a une part d’indicible. On l’accepte d’entrĂ©e de jeu. On sait que cela rend la vĂ©ritĂ© plus nombreuse. Est-ce que la mort de ma mĂšre entretient une relation avec la littĂ©rature ? Avec mon Ă©criture ? Oui, je crois. Je n’aurais sans doute pas osĂ© Ă©crire ce livre si ma mĂšre Ă©tait vivante. Je n’aurais pas osĂ© raconter les souvenirs d’enfance ou de jeune femme de maman. Ou je les aurais Ă©dulcorĂ©s. J’aurais inclinĂ© mon Ă©criture en fonction du jugement potentiel de maman. La mort de ma mĂšre m’a libĂ©rĂ© en tant qu’écrivain. Ce n’est peut-ĂȘtre pas un hasard si mon premier livre a Ă©tĂ© publiĂ© quelques mois aprĂšs sa mort. J’ai pu me rĂ©approprier mon identitĂ©, mon nom de naissance. A quinze ans, maman avait voulu que j’ajoute son nom ; j’étais devenu Mathieu AndrĂ©-Simonet. J’ai attendu la mort de maman (l’ñge de 37 ans) pour oser gommer son nom, « AndrĂ© ». La publication de mon premier livre m’a permis d’acter mon nouveau nom, qui s’est ensuite rĂ©pandu sur mes autres activitĂ©s, notamment sur mon mĂ©tier d’avocat (c’était compliquĂ©, presque gĂȘnant, d’expliquer Ă  des inconnus, Ă  des clients qui ne connaissaient rien de mon histoire, que je changeais de nom parce que ma mĂšre Ă©tait morte). C’était pour moi un retour identitaire romanesque.

Je me souviens d’un des premiers textes que j’ai Ă©crits, une nouvelle inspirĂ©e de mon pĂšre. « La cloque en feu ». Je n’avais pas d’ordinateur. Maman m’avait autorisĂ© Ă  travailler sur son ordinateur au bureau. Elle Ă©tait passĂ©e derriĂšre moi, avait vu un mot qui l’avait choquĂ© (sperme ? masturbation ? Ă©jaculation ?, un mot de cet ordre) ; c’était une mĂ©taphore. J’étais influencĂ© par Georges Bataille : l’écriture, le sexe et la mort s’entrecroisaient dans mon cerveau ; j’avais le sentiment d’avoir Ă©crit une phrase qui relevait du sacrĂ© et non du registre choquant ou vulgaire. Maman Ă©tait furieuse. Je sentais un gouffre entre nous. Peut-ĂȘtre qu’à sa mort, ce gouffre s’est refermĂ©. Maman a aussi eu une grande influence sur mon Ă©criture. Elle m’a donnĂ© le goĂ»t du rĂ©el. Des histoires intimes qui existent de maniĂšre Ă©galitaire chez chacun d’entre nous. Dans chaque famille. Elle me disait : « On ne peut pas ĂȘtre fier Ă  chaque fois, mais il faut toujours garder la tĂȘte haute. » Pour moi, la littĂ©rature revient Ă  suivre ce principe : toujours, et quoi qu’il arrive, garder la tĂȘte haute, surtout si on Ă©voque une scĂšne oĂč on pourrait avoir honte. Car c’est Ă  cette condition que la vie devient romanesque, sensible, universelle : maternelle.

[1] Il punctum nel libro La camera chiara di Roland Barthes, dedicata alla fotografia, indica  il coinvolgimento emotivo dello spettatore in un dettaglio di una foto (NdT)

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