di Bruno Mastroianni
“Mi sono resa conto di aver commesso un errore di comunicazione”. Questa frase, pronunciata da Chiara Ferragni nel suo video di risposta al “Pandoro Gate”, è risuonata per settimane nei social. Non solo per le critiche e per le rimostranze in base agli sviluppi successivi del caso, che si è configurato come qualcosa di più serio di un semplice errore di comunicazione. Soprattutto la frase è risuonata in decine e decine di contenuti generati dagli utenti a mo’ di presa in giro del video originale. Solo per citarne due da Tiktok: Darth Vader di Guerre Stellari che si scusa per la strage dei Padawan alla Scuola Jedi, e Voldermorth che si scusa per aver ucciso i genitori di Harry Potter.
Altro caso che si potrebbe citare, ormai d’epoca, è quello del Tweet di Trump del 31 maggio 2017 in cui dall’account ufficiale del Presidente degli Stati Uniti scriveva: “Despite the constant negative press covfefe”. Quella parola, “covfefe”, è diventata virale e usata da milioni di utenti in tutto il mondo per prendere in giro l’errore. Tanto che, ad oggi, la stessa Wikipedia riporta la parola “covfefe” come “nonsense word, widely presumed to be a typographical error, that Donald Trump used in a viral tweet when he was President of the United States. It instantly became an Internet meme”.
Di esempi di questo tipo se ne potrebbero fare ormai a centinaia. Non soltanto per personaggi pubblici e preminenti, coinvolti nel dibattito mediatico, ma per ciascuno di noi, utente comune. A quanti, infatti, è capitato di inviare la mail sbagliata (e non poter tornare indietro) o di scrivere un messaggio di WhatsApp nella chat errata o inviarlo a un interlocutore rispetto a un altro? Per non parlare di errori di battitura, di grammatica, di ortografia nei post dei social che prima o poi ci hanno esposto a pubblici ludibri più o meno estesi.
La realtà è che l’epoca digitale – che si sia famosi o meno – ha modificato il nostro rapporto con l’errore. E lo ha fatto in un modo sistematico e profondo. Tanto che si potrebbe rivedere il classico adagio “errare humanum est, perseverare autem diabolicum” constatando che quando l’errore si digitalizza, ed entra nell’ecosistema interconnesso, diventa diabolico anche senza la proverbiale perseveranza. Basta la prima caduta a far scatenare reazioni di stigma intense e spietate.
Dal T9 al correttore automatico
In una prima fase di sviluppo delle comunicazioni mobili e digitali c’erano i cellulari. All’epoca vigeva il sistema T9. Una funzione di predizione delle parole digitate in base ai 9 tasti numerici dei telefonini. Non so quanti se ne ricordino: al tasto 2 corrispondevano le lettere “a”, “b” e “c”; al 3 le lettere “d”, “e” ed “f”; e così via, fino allo 0 che era la barra spaziatrice. Spingendo i numeri corrispondenti alle lettere il sistema formulava, prevenendole, le parole da formare.
Quello che accadeva era che, spesso, a combinazioni di numeri simili corrispondevano formulazioni di diverse parole. Ad esempio, per scrivere la parola “bene” si premeva la combinazione 2-3-6-3, che però corrispondeva anche a “cene”, e si doveva scegliere tra le due.
Questo sistema generava a volte degli equivoci a tratti inquietanti. Scrivendo “scusa” ad esempio veniva come prima parola “paura”, quasi che il sistema avesse contezza dell’umana difficoltà a chiedere perdono. Digitando “dio” usciva “ego”, e inserendo “casa” veniva formulata come prima opzione la parola “bara”. Sembrava quasi che lo spirito dei tempi emergesse da quelle scelte di formulazione delle parole.
Oggi negli smartphone si attiva il correttore automatico predittivo. Un sistema molto più raffinato che si basa sia sui vocabolari presenti nel database del dispositivo sia sull’uso dell’essere umano che digita parole. In questo modo riesce sia a prevedere la parola che si sta scrivendo, sia a correggere al volo eventuali errori di battitura. Con alcuni esiti a volte disastrosi.
La correzione, infatti, è spesso inaccurata e cambia parole, oppure non capisce cosa si sta scrivendo. Accade con i nomi propri o parole provenienti da usi regionali. In quei casi, digitando velocemente e adagiandosi sulla correzione può succedere di premere “invio” prima di aver controllato i termini, con esiti talvolta esilaranti. C’è un meme a questo proposito che sintetizza bene il problema in alcuni scambi:
A scrive: “Come si chiama quella serie che tua sorella si vede su tunisine?”
A scrive ancora: “Scusa la serie su divisione”
A scrive ancora: “Dimissione”
B risponde: “Ma cosa stai scrivendo??”
A risponde: “Tim vision. Sto coso scrive quello che vuole!!”
B risponde: “Comunque si chiama Skam, perché lo vuoi sapere?”
A risponde: “Me l’aveva chiesto la mamma di genetica”
A ancora: “Detective”
A ancora una volta: “Federica!”
Lo sforzo correttivo/predittivo del correttore automatico quando si combina con la fretta psicologica di invio di chi sta scrivendo, produce spesso parole fuori luogo che vengono spedite al destinatario e, ormai lì fissate, necessitano di successive correzioni.
È interessante questo fenomeno perché, a pensarci bene, un messaggio digitato di per sé dà all’utente la possibilità di rileggere prima di premere invio. Nelle conversazioni a voce non è possibile, perché diciamo le parole nello stesso momento in cui l’altro le sente. “La voce – come dice Orazio nell’Ars poetica – una volta emessa non sa tornare indietro”. In una chat, invece, prima di dire si deve digitare un preciso comando. Eppure, pur avendo questo “privilegio”, non ce lo concediamo e, in analogia con una conversazione a voce, lasciamo traccia continua di errori nel digitale.
Il fenomeno è tanto comune e frequente che ormai si è consolidato l’uso di correggere eventuali parole digitate in modo errato nel messaggio successivo con un asterisco che precede o segue la parola corretta che si voleva scrivere. È una sorta di “volevo dire” – che usiamo abitualmente nel parlato – che si è traferita nel digitale.
Questo uso dell’asterisco di correzione può essere inteso in senso simbolico come qualcosa di cui abbiamo bisogno oggi più che mai nella società digitale iperconnessa (Mastroianni, 2022). La correzione dell’errore, infatti, in questo scenario in cui lasciamo traccia di quasi ogni interazione umana, diventa ancora più importante che nel passato.
La tecnologia potenzia l’errore e i suoi effetti
Le tecnologie hanno potenziato l’uomo in molte sue capacità. Quelle di comunicazione lo hanno reso capace di raggiungere in modo immediato e veloce chiunque con le proprie parole e i propri contenuti. Questo potenziamento, però, è stato attribuito a un essere tutt’altro che perfetto, soprattutto quando si parla di comunicazione. Ad aumentare, infatti, sono le possibilità e, con esse, le fragilità, le inadeguatezze, diremmo gli errori.
Il buon sano vecchio “sbagliando si impara” come principio guida del vivere è oggi molto più importante che non nel passato, quando la società era fatta di interazioni umane limitate nel tempo e nello spazio, non registrate, sfuggenti a screenshot e a inoltri. Quando i contesti erano unici e impermeabili sapevi a chi stavi parlano, dove e come, e potevi avere la sicurezza che ciò che dicevi rimanesse in quell’ambiente.
In un mondo in cui tutto ciò che facciamo diventa file/documento (Ferraris, 2021) inoltrabile, riproducibile, immortalabile e diffondibile, è molto più difficile pensare di riuscire a sbagliare senza che molti se ne accorgano e reagiscano di conseguenza. Ma è anche difficile pensare di non sbagliare: il legame tra il contenuto, i destinatari e il mezzo usato diventa labile e mai definitivo (Grimaldi, 2019). Ciò che viene pubblicato qui e ora in una certa chat può in ogni momento fare un salto di contesto ed essere riprodotto altrove.
Connessi come siamo, non riusciremo mai a comunicare senza alcuna caduta, stortura, fraintendimento. E se quelle cadute si diffondono oltre le nostre previsioni e sono esposte a molti più interlocutori di quanto pensiamo, ciò vuol dire che ciò che ci attende è una vita connessa impegnata costantemente nell’arduo compito di recuperare e riparare gli errori che inevitabilmente affioreranno (Balbi, Ortoleva, 2023).
Prevenire o contenere l’errore: si può?
Ma allora si può prevenire l’errore? Le prospettive di prevenzione, seppur nobili, hanno tutte un difetto fondamentale: un’immagine idealizzata dell’uomo. Scrivere bene, rileggere, non usare parole offensive, stare attenti a dove si pubblica il messaggio, non scrivere cose che non possono essere lette in pubblico, ecc. Potremmo fare una lista lunghissima di precauzioni che il digitale ci richiede prima di premere quell’invio da cui non si torna indietro. Ed è giusto puntare su un’educazione digitale che rinforzi questa gestione preventiva dei rischi. Ma il problema di fondo non sparirà: siamo esseri che sbagliano spesso e ora che l’errore è qualcosa di molto più solido, rilevante, persistente, riproducibile, dobbiamo pensare anche a un’educazione che ci aiuti a gestire la fase successiva oltre a quella preventiva: quando la crisi da parola/contenuto/azione sbagliata è già scoppiata (Chieffi, 2024).
Un altro limite lo hanno le prospettive che tentano la via tecnica al contenimento dell’errore. In queste si possono inserire i sistemi di cancellazione dei messaggi o della loro modifica dopo l’invio presenti su WhatsApp e su altre piattaforme. Rientrano in queste modalità anche i messaggi effimeri che si possono consultare una sola volta e poi spariscono oppure i sistemi di sbarramento dei destinatari. Ad esempio, su Facebook o su Instagram la possibilità di far legger il proprio post solo a una cerchia ristretta di follower.
Queste soluzioni tecniche hanno sempre lo stesso limite: non considerano l’umana capacità di aggirare e superare il mezzo digitale al momento di considerare l’errore e trasformarlo in qualcosa di compromettente, stigmatizzabile, minaccioso per la reputazione.
Prendiamo per esempio la funzione di WhatsApp che permette di cancellare il messaggio dopo che è stato inviato in una chat. La piattaforma impone che rimanga l’avviso “messaggio eliminato” con a seguire l’ora e il minuto dell’invio del messaggio. Una funzione che si direbbe utilissima per recuperare da errori di battitura o addirittura di messaggi inviati a destinatari sbagliati.
Se però si tiene conto dell’assioma della pragmatica “non si può non comunicare” (Wazlawick et al., 1971) le cose non sono così semplici. Quell’etichetta “messaggio eliminato”, infatti, ingenera in chi la legge un moto di curiosità sul contenuto eliminato. Tanto che, a volte, un errore piccolo e innocuo può crescere nella fantasia di chi fruisce dell’avviso di cancellazione che si chiede: “chissà cosa avrà scritto?”.
Peggio ancora quando casi simili accadono mentre dall’altro lato c’è qualcuno pronto a fare uno screenshot dell’errore per poi ridistribuirlo successivamente a riprova di cosa c’era di errato nel messaggio sparito. Una pratica che molti personaggi più o meno noti hanno subìto sui social al momento di eliminare un post o un commento compromettente: lo screenshot di esso è diventato un amplificatore dell’errore aggravato dal tentativo di farlo sparire.
Anche i sistemi di sbarramento dei destinatari sono pieni di falle. Anzi, sono il regno degli screenshot inoltrati a terze persone che non hanno accesso all’account. Il che rende ancora più preziosa la riproduzione del contenuto che di per sé doveva rimanere in una cerchia selezionata. Ancora peggio quando il membro di una cerchia ristretta, usa la sua possibilità di vedere certi contenuti del mittente per mostrarla tramite il suo smartphone ad altri in presenza. Con questi sbarramenti, in caso di errore, di brutta figura, di contenuti compromettenti, si dota la cerchia di un potere di pettegolezzo maggiore di quello che si avrebbe dal vivo.
Infine, i messaggi effimeri. Quelli in cui si può impostare che possano essere visualizzati una sola volta dal destinatario per poi sparire. Viene da pensare che siano la soluzione per tutelarsi dalle varie attività di documentazione e archiviazione degli astanti. Intanto, in molti casi funziona bene lo screenshot che immortala per sempre. In altri, alcune piattaforme hanno fatto sì che per i messaggi effimeri lo screenshot non sia possibile. Ma anche qui l’ingegno umano ha trovato le sue strade per stigmatizzare l’errore: è sufficiente dotarsi di un secondo dispositivo (proprio o di un compare) che registra in video ciò che si vede sul primo per una sola volta e il contenuto è bello che digitalizzato per sempre.
Non è certo questo il luogo per fare tutte le casistiche possibili con cui è facilmente aggirabile la tutela tecnologica degli errori e dei contenuti inadatti inviati. Basti pensare che, laddove ci potrà essere errore che compromette la faccia pubblica di qualcuno, ci sarà anche un essere umano pronto a registrarlo, diffonderlo, denunciarlo, stigmatizzarlo, per accusare l’errante in condivisione con altri. In questo campo il digitale, sostanzialmente, non potrà mai arginare il gusto umano di trovare ed esporre in pubblico gli errori altrui.
Non è il digitale, siamo proprio noi
È importante mettersi in questa ottica perché sarebbe illusorio dare tutta la colpa al digitale. Come se l’errore e la relazione quasi morbosa con esso (soprattutto quando è errore altrui) dipendesse dal mezzo o dal contesto in cui si presenta. Pensare che se i dispositivi fossero su off, se non cedessimo a tanta connessione, potremmo tenerci al riparo dagli errori è l’ennesima illusione.
Anche senza connessione gli esseri umani avevano un pessimo rapporto con l’errore tanto quanto ce lo hanno oggi. Quindi l’errore non dipende solo da dove lo commette il suo protagonista, ma da quanto i suoi interlocutori lo percepiscono, ne parlano, lo riportano, lo diffondono. Vivere senza commettere errori vistosi è un sogno che non si è mai realizzato su questo pianeta, con o senza tecnologia.
Alla base del problema, infatti, non c’è l’errore da eliminare. Ogni sforzo umano per vivere una vita a rischio zero si è da sempre dimostrato fallimentare (Rick DuFer, 2022). La tecnologia non è qualcosa a cui possiamo attribuire caratteristiche originariamente umane, né potrà mai del tutto supplire a ciò che ci manca. L’unica cosa che possiamo fare è riconoscere la nostra natura di esseri che cadono facilmente in errore e che altrettanto facilmente provano godimento di fronte all’errore degli altri. È soprattutto questa seconda parte che le tecnologie di comunicazione hanno potenziato.
Ma c’è una buona notizia, che andrebbe ripresa proprio per l’epoca di permanenza digitale dell’errore in cui viviamo. Nell’homo sapiens sapiens assieme alla capacità di sbagliare convive un’altra capacità fondamentale: quella di riparare, di correggere l’errore. L’homo sapiens è il culmine dell’evoluzione e, in questo cammino durato miliardi di anni, non ha vinto il più forte – come sanno bene i dinosauri – ma chi è stato capace di adattarsi meglio e più velocemente.
Imparare dai propri errori e correggerli è stata di fatto la massima espressione della capacità di adattamento dell’uomo. A ben vedere, la virtù più innovativa sviluppata dalla nostra specie. La produzione culturale, le innovazioni tecnologiche, la scienza, la civiltà nel suo insieme che cosa sono se non un continuo procedere per tentativi ed errori individuati, corretti e riparati, per non essere ripetuti? Potremmo dire quasi che la storia stessa non sia altro che il tener traccia e memoria di ciò che siamo stati per essere ciò che siamo ora, in versione aggiornata e corretta. O almeno a questo dovrebbe servire.
Proprio per questo l’errore oggi fa rima con orrore. Orrore quando si presenta, con successiva stigmatizzazione e pubblica gogna per chi lo commette. È qualcosa che ci parla della paura umana di imbattersi nelle imprecisioni, distrazioni, defaillance che ci segnalano i nostri limiti come esseri umani. Stigmatizzarli negli altri è un modo per sentirsi sollevati e, per contrasto, migliori, con atteggiamenti di dominanza e discredito tipici delle interazioni aggressive (D’Errico, Poggi, 2010).
Se do addosso all’errante, se denuncio in pubblico il suo sbaglio, è come se riuscissi a creare una netta divisione tra lui – inserito nella cerchia degli sbaglianti – e me – appartenente alla cerchia dei correttori. Si produce così una (magra) consolazione che funziona per dissociazione: non essendo capitato a me, ciò mi tranquillizza nel corretto scorrere abituale dei miei atti.
Una rinnovata cultura dell’errore
Nell’epoca digitale avremmo bisogno, invece, di una cultura dell’errore e dell’accoglienza delle fragilità, ancora più consapevole. L’errore dovrebbe essere il materiale principale su cui lavorare, da accettare come l’eventualità più frequente proprio perché siamo messi in una condizione di continua esposizione a esso.
Tornando a quell’asterisco che talvolta usiamo per correggere un messaggio inviato con una parola sbagliata, potrebbe diventare il simbolo di questa cultura. Esso rappresenterebbe la forza motrice capace di farci vedere l’errore per quello che è: il protagonista principale della vita connessa che ci troviamo a vivere.
Eduardo Arriagada (2016) sostiene che in rete occorrerebbe saper scrivere sempre in modalità di bozza. Pronti cioè a concepire ciò che diciamo come provvisorio e sempre passibile di correzione e adattamento. Questa affermazione si unisce a certi studi che teorizzano come la capacità di discutere sia stata sviluppata dagli esseri umani proprio per ottimizzare l’effetto benefico dell’errore (MacRaney, 2023). Se ho diversi attorno a me con cui posso fare ipotesi sulla realtà che mi circonda, posso permettermi di sbagliare ed essere impreciso affidandomi alle correzioni, ai punti di vista differenti e agli emendamenti degli altri.
Pensiamo in natura quanto questo si è rivelato vincente: da soli avremmo dovuto sbagliare moltissime volte personalmente prima di riuscire a venire a capo della maggior parte delle cose che ci minacciavano. Insieme, discutendone e valutandoci a vicenda, abbiamo risparmiato tempo, energie e, soprattutto, abbiamo iniziato a sopravvivere di più.
Quello spirito di continua riparazione e adattamento dovremmo riportarlo in primo piano oggi, altamente digitalizzati e connessi come siamo. Abbiamo un presente e un futuro tutto da scrivere e progettare. Questa attività di scrittura e progettazione ha disperato bisogno di essere corretta a mano a mano che le storture si presenteranno emergendo dalle nostre mosse scomposte nell’ecosistema digitale di cui lasciamo continuamente traccia.
Il digitale in un certo senso è “nato male”. Non eravamo preparati a diventare dei “piccoli personaggi pubblici” (Gheno, Mastroianni, 2018) i cui atti di comunicazione diventano documentati e registrati ed esposti in pubblico continuamente. Eppure, ora viviamo così. Nessuno dei fautori della rivoluzione digitale si è chiesto se l’umanità fosse pronta a reggere un potenziamento comunicativo del genere: è stato messo in campo e basta.
Se per altre scoperte e invenzioni cruciali come il fuoco, la ruota o la stampa avessimo atteso che l’umanità fosse pronta, oggi probabilmente non avremmo modo di riscaldarci, di andare in automobile o di leggere l’articolo che avete di fronte agli occhi. Ci siamo presi la briga di poter sbagliare. Infatti, il fuoco ancora distrugge, la ruota ha creato e crea non pochi problemi ambientali e la stampa non gode certo di ottima salute pensando a certe idee che vengono diffuse e che creano danni sociali e culturali.
La via virtuosa dell’errore: la riparazione
Nell’errore c’è il meglio e il peggio dell’uomo. Grazie a esso emergono le bassezze e le modalità più scellerate di interagire con gli altri, ma anche i comportamenti più virtuosi nel riparare, ravvedersi, risarcire. C’è la possibilità tramite gli sbagli di discriminare, mettere alla berlina e far cadere nella disperazione gli erranti. Ma l’errore è anche occasione per recuperare, per rimediare all’imprevedibilità attraverso la “facoltà di perdonare”, uno dei privilegi della specie umana secondo Hannah Arendt (2016), in grado di riattivare processi di condivisione, inclusione e sostegno reciproco.
Pretendiamo davvero di riuscire a vivere senza sbagliare? O di sbagliare sperando che quasi nessuno se ne accorga? Davvero pensiamo che possa esistere la possibilità che mittente e destinatario interpretino sempre comunque nello stesso modo e non si fraintendano (Balbi, Ortoleva, 2023)? Nell’epoca dello smartphone è sostanzialmente impossibile. Se ci aggiungiamo poi l’intelligenza artificiale con il suo ulteriore potenziamento, ci accorgiamo che stiamo entrando in una fase di errore ancora più intensa e impegnativa, con risultati che già hanno dato prova di essere sessisti, xenofobi, discriminatori e pronti a commettere errori anche più gravi di quelli che l’umano da solo era benissimo in grado di fare (vedi ad esempio: Unesco, 2024 e Iannaccone, 2023).
La nostra paura dell’errore potenziata dalle tecnologie dovrebbe farci riflettere su una paura più profonda: quella di doversi costantemente confrontare. La connessione ci ha resto tutti più vicini e toccati ognuno dagli atti di comunicazione dell’altro. L’unica via d’uscita è accettare questa nuova postura umana-digitale e iniziare ad accettare una continua messa alla prova sociale di tutto ciò che digitano le nostre dita.
La comunicazione vive delle sue imperfezioni (Balbi, Ortoleva, 2023): accanto alle possibilità vi sono sempre i suoi limiti. Gli errori e le mancanze sono sì un problema e un elemento costitutivo, ma ne sono anche la forza. La strada è allora quella di accettare un procedere fatto di costanti aggiustamenti e adattamenti in cui si divenga sempre più consapevoli di questa sua profonda natura.
È così che i grandi influencer devono accettare di essere sottoposti a un continuo vaglio delle loro azioni e affermazioni. È così che le aziende e le organizzazioni devono essere costantemente pronte a gestire le crisi e le controversie che sicuramente nasceranno in base ai loro comportamenti (Chieffi, 2024). È così che ciascuno di noi, come utente, deve essere pronto a sbagliare, a interagire con gli altri a proposito dei suoi errori, e uscirne magari un po’ umiliato, ma sicuramente più forte e consapevole dei suoi limiti.
Tendiamo a credere che l’epoca del digitale, dei social e dell’intelligenza artificiale sia un’epoca di grande potenziamento delle possibilità umane. “Da animali a dèi”, titola in modo suggestivo un suo libro Harari (2017) descrivendo l’excursus storico delle possibilità magnifiche che l’uomo ha raggiunto grazie al linguaggio, all’immaginazione, alla civiltà e agli sviluppi scientifici. Ed è proprio così.
Ma c’è un contrappasso significativo: più l’uomo aumenta il suo potere, più quella potenza gli mette di fronte, senza pietà, la sua condizione di essere costitutivamente imperfetto e manchevole. Ben venga allora l’errore, perché è proprio ciò che ci ricorda che siamo umani, tutt’altro che divini.
Per essere all’altezza dell’evoluzione che ci siamo guadagnati non dobbiamo infilare successi uno dietro l’altro, forti e sicuri di un percorso privo di sbavature. Dobbiamo al contrario stare felicemente negli errori, raccogliendoli uno a uno, come pepite preziose che ci aiuteranno in mezzo a tante potenzialità disattese a fare meglio la volta successiva.
Inutile cercare di vivere una vita connessa perfetta e ineccepibile. Peggio ancora farsi prendere dalla paura e smettere di intervenire e agire per non rischiare (come molti fanno in una sorta di ritiro dai social e dalla connessione demoralizzato e pessimista). Come insegna il filosofo Adelino Cattani (2022), dobbiamo imparare a usare un umile e approssimato “fin qui” ogni volta che ci accingiamo a comunicare in mezzo agli altri, pronti a discuterne. Come farlo bene? Magari a cominciare dal correggere con più gentilezza e pace gli errori che sicuramente faremo tutti, in abbondanza.
In passato abbiamo avuto “l’epoca dei lumi” in cui la ragione è stata portata in primo piano come principio che avrebbe fatto progredire l’umanità, sostituendo i presupposti irrazionali inadeguati delle epoche precedente. Sarebbe bello se riuscissimo a fare di quest’epoca “un’epoca degli umili”, quella cioè di coloro che proprio di fronte agli errori, invece di provare orrore, sono pronti ad adattare costantemente la propria forma umana imperfetta potenziata dalla tecnologia.
Riferimenti
Arendt, H. (2016),Vita activa. La condizione umana, Bompiani.
Arriagada, E. (2016), Dialogare sui valori nelle reti sociali, in Tridente, G. e Mastroianni, B. (a cura di), La missione digitale, ESC.
Balbi, G. e Ortoleva, P. (2023), La comunicazione imperfetta. Ostacoli, equivoci, adattamenti, Einaudi.
Cattani, A. (2022), Botta e risposta: l’arte della replica. Come dirsele (non darsele) di santa ragione. E perché fa bene, Dino Audino.
Chieffi, D. (2024), Crisi reputazionali ai tempi dell’infosfera. Il modello di risposta: teoria, tecniche, strategie, strumenti e il ruolo dell’IA, FrancoAngeli.
DuFer, R. (2022), Elogio dell’idiozia, Poliniani.
D’Errico, F. e Poggi, I. (2010), Dominance signals in debates, in «Human Behavior Understanding», January 1 2010.
Ferraris, M., Documanità. Filosfia del mondo nuovo, Laterza.
Gheno, V. e Mastroianni, B. (2018), Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello, Longanesi.
Grimaldi, D. (2019), Reputazione digitale: come gestire al meglio la propria presenza online, 18.11.2019, AgendaDigitale.eu, in https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/reputazione-digitale-come-gestire-al-meglio-la-propria-presenza-online/
Harari, Y. N. (2017), Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità, Bompiani.
Iannaccone, S. (2023), Quanto sbaglia l’intelligenza artificiale e perché?, 10.9.2023, Wired, in https://www.wired.it/article/intelligenza-artificiale-errori-chat-gpt-esperti-barassi-gigerenzer/
Mastroianni, B. (2022), Storia sentimentale del telefono. Uno strordinario viaggio da Mesucci all’Homo Smartphonicus, ilSaggiatore.
McRaney, D. (2023), Come si cambia idea. Credenze, opinioni, persuasione: un sorprendente approccio scientifico, Aboca.
Unesco (2024), Challenging systematic prejudices: an investigation into bias against women and girls in large language models, International Research Centre on Artificial Intelligence, in https://unesdoc.unesco.org/ark:/48223/pf0000388971.
Watzlawick, P. (1971), Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio.