di Gianfranco Brevetto
Jean-Luc Nancy è sicuramente uno dei massimi filosofi viventi. I suoi studi, la sua singolare biografia, le sue frequentazioni, sovente in controtendenza, ne fanno una delle figure intellettuali contemporanee più interessanti. Basti pensare che, agli inizi di questo secolo, Jacques Derrida ha dedicato a Nancy uno splendido saggio nel quale traspare l’amicizia tra i due filosofi[1]. Ma non è solo una questione affettiva, Nancy ha dedicato gran parte dei suoi lavori alla dimensione di stretta e costante relazione tra gli esseri umani. L’essere singolare plurale è una nozione che è diretto strumento di conoscenza, non solo in campo filosofico.
Ringraziamo il professor Nancy per l’onore che ci ha voluto concedere rispondendo alle nostre domande.
– Questo numero della nostra rivista ha per tema la leggerezza, lei ha dedicato una delle sue opere al peso di un pensiero[2]. Può dirci in cosa consiste questo peso?
– Un peso non è necessariamente qualcosa di pesante. Può essere leggero. Ad esempio un petalo di un fiore sulla mia mano non pesa quasi nulla, ma io sento questo quasi nulla. Io percepisco la sua quasi assenza di peso, so bene che se volto la mano il petalo cadrà in terra, lentamente, seguendo i movimenti dell’aria. Ma questo petalo non sfuggirà comunque alla gravità, anche se una corrente d’aria o il calore lo facesse risalire, si tratterebbe ancora di un gioco del suo peso. Per quanto riguarda il pensiero, il pensiero più pesante è sempre il più leggero… per esempio “l’essere”… o “il tempo”…
– A seguito di una sua dolorosa esperienza personale, lei ha scritto, in modo magistrale, del corpo[3]. Ma noi siamo veramente nel corpo?
– Io non sono “nel” corpo: già Cartesio lo diceva. Io non sono “nel”, io sono “il” corpo. Il corpo sono io: più esattamente partendo ciascuna delle mie ciglia fino al dettaglio del menisco esterno del mio ginocchio sinistro. Il mio corpo è la presenza determinata, precisa in quantità come in qualità, di ciò che non non è concentrato da nessuna parte e che si espone dappertutto, sulla pelle e negli organi. Un “io”, una singolarità che è solo in quanto si presenta, si ex-pone, si pone fuori, a se stessa e agli altri.
– Ci può fare un esempio?
– Anche queste parole che lei legge qui, in questo momento, e che sono state digitate sulla tastiera del mio computer dalle mie dita, sono materialmente una iscrizione di questo corpo, una sua estensione attraverso i suoi neuroni, i suoi muscoli, i suoi occhi, ecc. E se, quando lei leggerà queste parole, io sarò morto, queste parole resteranno una traccia di questo corpo che, come tale, è scomparso.
– Qual è il rapporto tra il nostro essere singolare plurale e la libertà?
– La nostra libertà è quella di rapportarsi a sé, in quanto corpo, di provarsi, di sentirsi, ciò che si fa solo provando e sentendo altri corpi, come il suo tocco sulla tastiera o ciò che s’intuisce della sua voce nelle domande che mi ha inviato. Non si tratta quindi di libertà di fare ciò che “io voglio” poiché l’“io” è interamente sempre nuovo nella sua esposizione: è una libertà che non mi appartiene, quella del gran gioco nel quale i corpi sono lanciati, spinti, afferrati, sfiorati, sfuggiti…
[1] J. Derrida, Toccare, Jean_Luc Nancy, Marietti, 2007
[2] J-L Nancy, Il peso di un pensiero, Mimesis, Milano 2009
[3] J- L Nancy , Corpus, Cronopio, Napoli 1995