di Giulia Pratelli
Sì, ma di lavoro cosa fai?
Se tra voi ci fosse qualche musicista sicuramente riconoscerebbe questa domanda.
E’ inevitabile, se si è scelto di fare della musica il proprio mestiere, prima o poi capita di avere una conversazione che suona più o meno così:
– Che mestiere fai?
– Sono un musicista
– Sì, va bene, ma il tuo lavoro vero qual è?
Potremmo citare tantissimi episodi che a volte fanno ridere, a volte riflettere, a volte arrabbiare. Ho chiesto anche ai miei colleghi se fossero capitate loro cose particolari, che li avessero stupiti: c’è chi viaggiando in metro con la chitarra in spalla si è sentito chiedere da un bambino se stesse andando a fare l’elemosina, chi si è sentito dire “ah ma non hai ancora smesso?” (quasi fosse un vizio, come fumare o bere), chi si è visto costretto a scrivere sulla propria carta di identità libero professionista o chissà quale altra cosa perché, non scherziamo, quello non è mica un lavoro. In generale, fare il musicista sembra essere qualcosa di diverso da un mestiere, un’occupazione che pare non avere le stesse caratteristiche delle altre professioni, ovvero l’essere un’attività per la quale ci si alza la mattina, si porta avanti un progetto con continuità e, soprattutto, si percepisce uno stipendio. Spesso capita che le persone siano molto curiose riguardo agli strumenti che si usano, alle esperienze che si fanno, ai brani che si è scelto di suonare e alle canzoni che si scrivono… solo che a volte è come se destasse stupore il concetto che quell’attività meriti di essere ricompensata e quindi retribuita come qualsiasi altra. Alla fine, chi va a suonare si diverte, no?
Se ci guardiamo intorno e osserviamo l’evoluzione del mondo del lavoro attraverso i social network, è ormai un dato di fatto che possa essere definito un lavoro il fare “lo youtuber”, “l’influencer” o “il blogger”… perché allora non si può fare musica di mestiere? E’ diventato normale (e non è certo questo a costituire un problema) considerare un mestiere il pubblicare video su YouTube, parlando di film, di cosmetici, di lifestyle o pubblicizzando alcuni prodotti ma spesso facciamo ancora fatica a pensare che una persona che viene nel nostro locale a suonare per ore (magari portando tutta l’attrezzatura necessaria) debba essere pagata. Lo stesso vale ovviamente per chi suona nei teatri, sui palchi dei festival, delle manifestazioni… I vostri amici musicisti potranno confermarvi che almeno una volta si saranno sentiti dire “la prima volta vi offriamo la cena, per il compenso vediamo alla prossima serata”… avevo pensato di provare a dire la stessa cosa all’imbianchino quando ho fatto ridipingere le pareti di casa, del resto che aveva fatto mai se non mettere a mia disposizione la sua esperienza, la sua professionalità, la sua preparazione, il suo tempo e i suoi materiali?
Qualche giorno addietro mi sono imbattuta in un articolo pubblicato pochissimi anni fa in cui si elencavano i vari modi per non usare la parola precario, citando alcuni termini che potessero sostituirla. Si riportavano in genere i liberi professionisti, i consulenti ma soprattutto ci si concentrava sulle professioni artistiche quali quella di regista, musicista, attore, illustratore. Ne scaturiva un elenco di qualifiche atte a “salvare l’apparenza” dell’assenza di un impiego e a difendere l’orgoglio personale dalla frustrazione che deriva dall’essere emarginati nel mondo del lavoro. Inutile nascondersi dietro a un dito: vivere di alcune professioni è indiscutibilmente difficile. Quello che mi ha colpito è stato il fatto che tutte queste attività fossero indicate come numerose “scuse” dietro cui si nasconderebbero alcune persone che, dopo tutto, non farebbero altro che avere un hobby e averlo scambiato, confuso con qualcosa che assomiglia soltanto vagamente ad un’occupazione. Un qualcosa che, oltre tutto, non prevede impegni quotidiani e non ha (apparentemente) orari precisi come un impiego d’ufficio e quindi lascia (o sembra lasciare?) assoluta libertà di fare quello che si vuole. Tutti questi mestieri venivano presentati come meri espedienti dietro ai quali nascondere la mancanza di una posizione che la società potesse riconoscere e apprezzare. Forse mi sono sentita colpita in quanto facente parte della categoria, forse ho dato un peso esagerato alle parole che ho letto, ma mi è sembrato che da quelle poche righe emergesse con forza una visione profondamente denigratoria, caratterizzata dal pensiero che l’arte (e tutto ciò che ad essa ruota attorno) sia solo e soltanto un divertimento, un passatempo, qualcosa che non ha niente a che vedere con lo studio, la preparazione, l’impegno, la dedizione e l’esperienza.
Potremmo approfondire numerosi altri argomenti (come le tutele sindacali, la questione dei diritti d’autore, dei diritti connessi, della previdenza sociale…) ma esulerebbe dalle finalità di questo breve contributo. In ogni caso, vorrei cogliere questa occasione per proporre alcuni piccoli spunti di riflessione. Vivere di musica (e di arte in genere) non è semplice, o meglio: è veramente difficile. E’ qualcosa che spesso mette a dura prova la passione stessa, la tenacia, la pazienza. Ci sono molte difficoltà ma è qualcosa che si può fare, che non riguarda un universo immaginario e distante dalla vita reale, dal mondo normale. Esiste (ve lo garantisco) un mondo ampissimo di professionisti che lavorano in quello che potremmo definire un “sottobosco”, lontano dai riflettori (e forse anche dai contratti a tempo indeterminato). Esiste un insieme di persone che hanno fatto della musica (così come della recitazione, della scrittura, della fotografia) il proprio mestiere, forse a fatica ma con una dignità che non credo possa in nessun modo essere definita “inferiore” rispetto a quella dei professionisti che lavorano in altri settori. Ci sono fonici, tecnici, produttori, autori, insegnanti, musicoterapeuti, turnisti che svolgono quotidianamente la propria attività (spesso più di una) con serietà, impegno e dedizione, mettendo la propria preparazione e le proprie capacità al servizio degli utenti che si avvalgono della loro collaborazione e usufruiscono dei loro servizi. C’è chi pensa che con la musica (con l’arte e con la cultura) non si possa mangiare… io credo invece che ci si possa insegnare, scrivere, suonare, registrare, produrre, curare. Non è forse abbastanza per poterlo considerare un lavoro?