EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Siamo già mostri

di Giacomo Dallari

È innegabile l’interesse che il mostruoso ha suscitato nei diversi periodi storici e nelle diverse società degli uomini. Nell’indagarne le motivazioni possiamo convenire che tale interesse sia il frutto della pura immaginazione o, addirittura, della noia immaginifica: quando non si ha più interesse nel descrivere il normale, l’abituale e il quotidiano, si preferisce rifugiarsi nel distorto, nell’anormale e nel deforme cercando, proprio nella vita, gli aspetti mostruosi che sfigurano e trasfigurano la realtà. Questa considerazione, se pur vera in termini descrittivi, non sembra però soddisfare le necessità conoscitive che il mostruoso suscita. Restano aperte alcune questioni di carattere ontologico e metodologico: se il mostruoso può essere descritto come una semplice deriva del reale o una sua trasmutazione verso dinamiche paurose, in quale modo esso trova spazio nella società moderna, cioè nel luogo che – forse  più che in altre epoche – combatte il mostruoso attraverso il trionfo delle tecniche conoscitive e descrittive?

Il mostruoso è, prima di ogni altra descrizione possibile, una violazione di una legge considerata naturale. È una distanza e una frattura fra ciò che appare come chiaro e determinato – con precisi confini formali – e  l’anomalia, cioè il non conosciuto e il distorto, dunque il corrotto. Spesso, infatti, il mostro ha sembianze deformi, cioè discordi dal consueto, che si distanziano dalla regola e questo, per molto tempo, è stato il suo aspetto caratteristico e il fulcro del suo potere spaventoso.

Il bene e il male avevano caratteristiche opposte, ben riscontrabili e visibili, che tracciavano il confine tra ciò che era al di qua della normalità e ciò che invece si trovava dall’altra parte, nel mondo del male, dove gli animi erano trasfigurati e i comportamenti corrotti. Il male aveva un volto, delle vesti, addirittura un modo di camminare. Tutti aspetti che trasudavano malignità e non lasciavano spazio al fraintendimento. Stevenson ce ne ha dato una straordinaria descrizione nel momento in cui caratterizza i suoi personaggi ancora oggi emblematici e carichi di straordinaria mostruosità: il Dottor Jekyll è un uomo robusto, sui cinquant’anni, il suo viso è liscio e armonico e il suo sguardo è carico di espressività. Ama la vita in società, è affettuoso e sincero con i suoi amici. Ama le arti, l’arredamento e le discussioni intelligenti, è socievole e cerca sempre di comportarsi nel modo corretto. Di contro Hyde è basso di statura, pallido e fa provare ribrezzo a chiunque lo incontri. Ha un modo di camminare bizzarro, sembra quasi che zampetti come una bestia. Di solito appare calmo e disinteressato poi di colpo l’ira prende il sopravvento e diventa violento e crudele. Ha una voce roca, flebile e a tratti rotta. Non ama stare con gli altri con i quali ha modi scortesi e maleducati.

In questa sua caratterizzazione storica, il mostruoso è stato descritto come un qualcosa che non rispetta i confini, che esce dalle tradizionali dinamiche reali e sconfina nel sovrumano e, perché no, nell’esoterico e nel magico. L’irrazionalità del mostro consiste proprio nel suo trascendere la realtà, riproponendola in termini alterati e contraffatti: uomo e basta (Licantropo, Vampiro, ecc), uomo e tecnica (Robot, Ciborg, ecc), vita e morte (Frankenstein, la Mummia, ecc). La paura e il fascino hanno un ruolo pregante e, da sempre, giocano con gli archetipi: la bestia, la morte, ciò che dovrebbe esserci dopo la morte, la creatura e la lotta, spesso interna e personale, fra il bene e il male.

C’è forse una prima grande differenza fra l’accezione antica del mostruoso e quella più contemporanea. Frenkenstein, per esempio, si presentava sotto forma di meraviglia, come un fatto prodigioso che però conteneva in sé un monito che ci spingeva a rifiutare il mostruoso e a ridescrivere il normale, proprio in contrapposizione al deforme e all’anormale. Guardando ciò che l’uomo aveva creato, cioè il volto e il corpo della regola violata, si andava a definire il normale, ridonando al mondo un senso terreno e concreto. La paura che ciò suscitava nasceva dall’aver visto ciò che sarebbe potuto essere, dall’aver deliberatamente oltrepassato dei limiti umani alla ricerca dell’impossibile. Frenkenstein è una creatura orribile – un mostro appunto – che perde le sembianze umane, almeno quelle tradizionali, e assume quelle di un qualcosa che ricorda l’uomo, ma in modo deforme.

Oggi, al contrario, ciò che ci spaventa ha perso il carattere mostruoso, ha abbandonato la ripugnanza estetica e la deformità che terrorizza.  La dicotomia fra il bene e il male, quel solco netto che  Stevenson aveva rappresentato con straordinaria maestria, sembra aver perso quei confini così netti e rigidi per aprirsi ad una quotidiana possibilità del male, ad una prossimità del mostruoso. Si pensi, per esempio, alle opere di Stephen King, dove il male si nasconde ovunque con sembianze umane e orribilmente terrene. Il mostruoso, ci ricorda continuamente King, si annida ovunque: in un’automobile, in un oggetto domestico o nel nostro vicino di casa. La maggioranza dei suoi romanzi hanno per oggetto situazioni atrocemente reali nelle quali la quotidianità diventa “altro”, dove le leggi violate ci conducono non solo verso il soprannaturale, ma soprattutto verso il quotidiano che diviene mostruoso. In questa realtà “altra” King proietta le pulsioni più profonde dell’individuo, le sue fantasie e le paure inconsce, ridescrive il significato profondo dei propri comportamenti e dei propri atti, il rapporto dell’Io con gli altri e il ruolo che il contesto e i rapporti umani hanno nel far emergere la parte peggiore di ognuno di noi.

Il mostruoso oggi, così come la morte, è uno dei concetti rimossi del nostro tempo, è una realtà che si preferisce rilegare al grande schermo, travestita da realtà virtuale. La paura ci viene offerta quotidianamente da tutti i media, ma nel contempo viene occultata e messa ai margini nella vita reale e concreta, così il mostruoso ci viene proposto violentemente, ma viene allontanato dalle nostre vite.

Siamo nell’epoca contrassegnata dalla ricerca del sublime, dalla dismisura e dall’eccesso che ci espone prepotentemente all’imperativo della comunicazione costante, della socializzazione permanente, del cambiamento per sopravvivenza, dell’innovazione e della rigenerazione, pena l’esclusione, l’allontanamento dalla vita e della vita. La mostruosità contemporanea è forse rintracciabile in questa incessante necessità di rinnovamento che ci assilla e ci inchioda ad un compito forsennato e squilibrato destinato a mostrarci, senza possibilità di riscatto, la sua irrealizzabilità. Il tempo è sfigurato da meccanismi brutali, quali il calcolo e l’ansia di una sua perdita ci annichilisce al punto che la sua possibile improduttività diviene il segno tangibile della nostra sconfitta.

Il mostruoso è dentro di noi, inconsapevolmente si annida nelle nostre sinapsi e giunge fino alle nostre mani costantemente affaccendate, multitasking, perennemente in lotta con il tempo e con la sua inesorabilità. Una volta il mostruoso si manifestava nell’atto di divorare i corpi o nel cannibalismo e nella crudeltà dilaniante di fauci insanguinate e brutali. Oggi le stesse fauci stanno dentro di noi, continuamente divorati dal nostro fare, dalla costante ricerca di tutto ciò che possa far nascere una scintilla di vitalità e possa esorcizzare la noia e l’attesa, ridotti a fantasmi esistenziali da relegare al regno della morte sociale. Come artisti in preda al terrore del vuoto, il terribile horror vacui, riempiamo le nostre tele di dettagli per non lasciare spazi bianchi perché l’assenza di qualcosa è come la morte. Alla riflessione preferiamo l’adrenalina, all’attesa l’attività frenetica e all’empatia, che ci umanizza, abbiamo sostituito una finta soggettività esasperata ed esagerata, per paura che un’altra realtà o una nuova prospettiva possa gettarci nello sconforto e possa mettere a repentaglio la nostra individualità.

Ad una frenesia esteriore, però, fa eco una pigrizia cognitiva, una tendenza all’accettazione del “così fan tutti” e in questo modo gli altri, simili a specchi rotti che rifrangono immagini deformate e scomposte, diventano gli occhi arrossati che ci puntano in una notte di luna piena, il cigolio di una porta nel buio di un castello e quel flebile rumore di catene che rompe il silenzio e ci getta nel terrore. La soggettività, che attualmente percepiamo così forte, è abitata in realtà da un soggetto debole, neutralizzato e opaco che si sente al riparo dietro ad una individualità di carta, deresponsabilizzato non solo nei confronti della verità, oggi violentata nei dibattiti mitologici, favolosi e favolistici che affollano i social network, ma anche nei confronti del dolore altrui e della sofferenza, che si risolve nel marketing del “Je suis …” in una danza di ipocrita empatia pubblicitaria, per poi cedere il passo ad una normalità atroce che riprende il suo corso e che riproduce se stessa senza sosta, come se non fosse successo nulla. Assistiamo ad una sovraesposizione estetica nella quale il terribile, l’orrendo e il mostruoso vengono presentati senza alcun pathos, come un qualcosa di interno alla vita stessa, come un suo aspetto e inermi, rimaniamo lì a guardare il mondo come un meccanismo casuale dove rientrano anche i frammenti di orrida casualità e noi ci sentiamo puliti e ne usciamo sempre vivi e intonsi, anime salve.

Costantemente alla ricerca di uno stato di veglia continuo, come se il tempo vissuto dovesse essere, senza sosta, contrassegnato da un significato forte, apocalittico e salvifico, siamo in realtà in uno stato di sonno profondo nel quale la ragione latita e, in assenza di alternative, partorisce creature mostruose e artefatte proprio come recitava la celebre sentenza di Goya: “Il sonno della ragione genera mostri”.  Né del tutto vivi, né del tutto morti, esattamente come gli zombie di Romero, siamo chiamati a vivere esistenze prive di collocazione e siamo alla costante ricerca di un senso, di un finale eccezionale o più semplicemente di un qualcosa che dia significato a quello che facciamo, al ruolo che occupiamo e per necessità, o forse per difesa, preferiamo lasciarci infettare dal virus dell’approvazione che non ci permette di vivere a pieno le nostre esistenze, ma non ci lascia neppure morire.

La trasformazione irreversibile in moderni Mister Hyde è ormai compiuta. La vediamo in quegli uomini abbronzati e palestrati, così lontani dai morti viventi deformi e sfigurati, che uccidono le loro mogli e le loro compagne perché non reggono l’onta dell’abbandono. La scorgiamo nei baby spacciatori e in quell’orda di “adulti” acquirenti che in una orrenda danza macabra si sentono irresponsabili e innocenti, ma sono in realtà complici di una mercificazione che neppure il peggior capitalismo avrebbe potuto partorire. La troviamo nel cinquantenne che acquista una ricarica del cellulare ad una minorenne in cambio di una prestazione sessuale; nella noia di alcuni adolescenti che si trasforma in ”ragazzata” o in “goliardata” e, nauseati pure dall’infinito divertificio che il mercato lecito e illecito mette a loro disposizione, sprofondano in uno stato di non-realtà, di non-tempo dove la libertà è onnipotenza e i loro comportamenti non hanno mai conseguenze. È nell’America di Trump, dove ad una manifestazione di disagio che sfocia nella violenza, si pensa di poter armare gli insegnanti. Neppure il Re spartano Leonida sarebbe arrivato a tanto.

Forse non ci sono più i mostri di una volta, forse non ci spaventiamo più di fronte a spettri muti che fluttuano in un pallido plenilunio e non  ci tremano le gambe al solo pensiero di essere inseguiti da un feroce licantropo, ma questo nostro coraggio e questa nostra temerarietà rimangono muti di fronte alla realtà che in molte circostanze è molto più mostruosa.

 

 

Robert Louis Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde (Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde), 1886.

 

Mary Shelley, Frankenstein, o il moderno Prometeo (Frankenstein; or, the modern Prometheus), 1818.

 

Francisco Goya, Los caprichos, foglio n° 43, 1799.

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