EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Sogniamo sempre anche di giorno. Intervista a Giuseppe Civitarese

di Federica Biolzi

Un tema di grande interesse, quello dell’efficacia terapeutica, è uno dei perni sui quali ruota l’ultimo libro di Giuseppe Civitarese, Introduzione alla teoria del campo analitico (Raffaello Cortina Editore). Il volume, un’utile introduzione alle problematiche che nel campo della psicoanalisi ha aperto il pensiero di Bion e la teoria che ne è nata, è ricco di esempi clinici a valido supporto del quotidiano lavoro dello psicoterapeuta.

Professore, il libro che ci propone è ricco di spunti e riflessioni su un tema particolarmente affascinante ma complesso. Le chiederei di iniziare proprio dal pensiero di Bion. Lei mette in evidenza una differenza fondamentale con Freud cioè l’inconscio come funzione psicoanalitica della personalità. In poche parole una sorta di a priori kantiano (non innato) della facoltà cognitiva della mente rispetto al pensiero. Quali sono le conseguenze di questa concezione?

– Semplificando, Bion rifiuta la dicotomia processo primario/processo secondario; capovolge i concetti di inconscio di Freud e Klein rispettivamente come luoghi del male[1] e dell’oggetto interno cattivo[2], e ne fa la funzione psicoanalitica della personalità. Altrove, in Trasformazioni, invece di conscio e inconscio propone di parlare di finito e infinito (Bion, 1965). È un’intuizione geniale. È ovvio che essendo il risultato di una dialettica dell’identità e della differenza, ossia di soggettività e di intersoggettività, il soggetto (l’autocoscienza) è sia finito sia infinito. Se l’inconscio è la funzione della personalità, per come è studiata dalla disciplina chiamata psicoanalisi, che genera significato umano, va da sé che è legata al linguaggio; e il linguaggio, non è un fatto individuale, anche se creato da individui (che già partivano da una base di co-essere istintuale), ma sociale. Come insegnano i filosofi è la casa dell’Essere (Heidegger).

L’inconscio si identifica con un dispositivo di creazione del significato o di ‘digestione’ dell‘esperienza proto-emotiva. Come abbiamo bisogno di respirare continuamente ossigeno per sopravvivere, così abbiamo bisogno di una respirazione psicologica che a ogni millesimo di secondo ci dia il significato per sopravvivere come soggetti.

Uno dei temi chiave del volume è, come indicato nel titolo, quello del campo. A cosa occorre fare correttamente riferimento per ben delineare questo concetto?

-La teoria del campo analitico (TCA) accentua la dimensione gruppale della relazione analitica. A livello inconscio non è possibile determinare di chi è la ‘responsabilità’ nel generare le emozioni che si riflettono nelle immagini attraverso cui in tempo reale la coppia si auto-interpreta e così arriva a esistere. Compito dell’analista è fare continuamente il meteo della situazione, intuire se l’atmosfera emotiva della seduta (ciò che descrive i cambiamenti dell’insieme dei legami che fanno il campo analitico sussistente in un dato momento) è progressiva o regressiva (Civitarese, 2020) e provare consapevolmente a indirizzarlo nella direzione desiderata. Chiaramente, nel far questo, fa ripartire, o meglio fa insorgere un’altra onda emotiva inconscia e così via.

Una definizione ristretta di campo che abbiamo dato in passato è come prodotto dell’incrocio delle identificazioni proiettive di paziente e analista. I Baranger ne parlano come di fantasia inconscia condivisa, che cioè non ci sarebbe se non ci fossero entrambi i membri della coppia analitica. È del massimo interesse ricordare che i Baranger ammettono di essere stati influenzati da Bion e da Merleau-Ponty. Chi è familiare con la filosofia di Merleau-Ponty sa che ha passato la vita a contrastare il modo cartesiano di pensare al soggetto. Ma se Merleau-Ponty è diventato Merlau-Ponty lo deve anche al fatto di aver potuto consultare i manoscritti inediti di Husserl in cui sul piano ontologico egli teorizza un’area comune e trascendentale (non accessibile dalla coscienza) di co-appartenenza e co-implicazione reciproca. Come si vede, il cerchio si chiude. Sul piano pratico della cura, per me la domanda essenziale è: se guardo al mio campo di osservazione specifico con una lente di campo, riesco a vedere cose che altrimenti non vedrei? È scontato che, da parte mia, la domanda è retorica.

Se osserva la relazione terapeutica in un’ottica di campo l’analista si prende la responsabilità di ciò che succede. Prendersi la responsabilità non vuol dire affatto accusarsi di alcunché, ma solo prendere atto della situazione e se possibile assumersi il compito di favorire trasformazioni positive. Siccome l’analista guarda alla dimensione inconscia dal punto di vista del noi, è in grado, in primo luogo, di dismettere qualsiasi atteggiamento di sospettosità, poiché ha ‘fede’ nelle immagini che l’inconscio comune produce, e dunque al tempo stesso dà fiducia a se stesso e al paziente – che per definizione, non essendosi sentito riconosciuto nella sua vita, ne difetta. In secondo luogo, vedendosi come uno degli attori profondamente coinvolti nella recitazione del dramma dell’analisi, l’analista avvicina il più possibile a sé il campo di osservazione, è più vitale nelle sue reazioni, e soprattutto è portato meno facilmente a scindere comprensione emotiva e affettiva da quella intellettuale. Ciò si traduce in un immediato effetto di aumento dell’intimità.

Una sua frase, utilizzata nel precisare il pensiero di Bion  mi ha decisamente colpito: (…) sogniamo sia di giorno che di notte. Il sogno notturno è soltanto una piccola parte di un processo molto più ampio e continuo, che ha luogo sia durante la veglia che durante il sogno. Qual è il significato, per certi versi prorompente, di questa affermazione e quali i risvolti sul percorso terapeutico?

Come detto, la riconcettualizzazione dell’inconscio ovviamente capitalizza il senso di teatro della mente che genialmente le imprime Klein. Da essa deriva l’altro cardine del pensiero di Bion e della TCA. Sogniamo non solo di notte ma anche di giorno. Il sognare è il modo più profondo, non scisso, che abbiamo di dare un senso all’esperienza proto-emotiva, generando su un medesimo oggetto sempre una pluralità di punti di vista, il che lo rende vero e reale. Chi soffre dal punto di vista psichico, come scrive Ogden (2005), o non me è mai stato capace o è temporaneamente prigioniero dell’incubo. Si capisce che dal concetto freudiano del lavoro di distorsione-occultamento-distruzione del significato attribuito al lavoro del sogno passiamo al concetto bioniano di trasformazione-creazione del significato. Il modo in cui la funzione psicoanalitica della personalità espleta il suo compito essenziale di dare una forma a ciò che è informe è di sognare la sensorialità grezza che esprime la capacità del corpo di essere affezionato da stimoli di vario tipo e di trasformarli in qualcosa di cui la personalità si può nutrire.

Noi viviamo letteralmente nel mondo della metafora (del sogno). Pensiamo di vedere le cose che ci circondano come sono ma è solo un’illusione. La parola gatto non ha niente a che fare con l’animale gatto. Inoltre, quello che pensiamo di vedere obiettivamente, appunto, lo ‘pensiamo’ ossia non possiamo impedirci di vederlo a partire dalla prospettiva di noi stessi, della nostra storia, delle nostre memorie, dei nostri desideri e delle nostre paure. Pensare che la parola sia la cosa, sarebbe una forma di pensiero concreto. Il simbolo smette di funzionare da dispositivo – non ce ne sono altri – che ci permette un’apertura al mondo. Allora iniziamo a reagire agli stimoli che il mondo ci offre, ma allo stesso modo in cui faremmo se non avessimo la consapevolezza che siamo noi a pensare i nostri pensieri. Viene meno l’interstizio, la spaziatura, l’intercapedine, la distanza che permette semplicemente di avere delle cose che entrano nella nostra visione.

Cosa voglio dire? Che normalmente viviamo nel mondo della metafora, una forma di finzione, visto che accettiamo l’illusione che la parola gatto abbia qualcosa a che fare direttamente con l’animale gatto. Lo chiamiamo atteggiamento naturale o realismo ingenuo. Abbiamo inventato però ogni sorta di dispositivi per svegliarci da questa specie di sonno. Per esempio l’arte, ma anche la filosofia e le scienze. Tutte ci ricordano in maniera diversa che non ci c’è corrispondenza univoca tra le parole e le cose. Ma prima ancora abbiamo il sogno. Attenzione però. Se il sognare può funzionare anch’esso come un dispositivo che ci sveglia dalla nostra animalità, è solo perché è un’altra forma di coscienza. È solo perché è ormai pervaso dal linguaggio.

Per logica, seguendo il nostro discorso, accrescere la capacità di simbolizzare, allargare invece di annullare lo spazio interstiziale che il simbolo genera, essere il più possibile consapevoli che non è possibile alcuna visione assoluta, ma solo prospettica, delle cose, ci rende più umani, o meglio, esseri umani più maturi. La finzione moltiplica i vertici di osservazione sulle cose, libera da visioni anguste oppure univoche. In tal modo promuove la democrazia della psiche, ossia del pensiero e degli affetti. La metafora è il tappeto volante che ci fa sorvolare il mondo della concretezza e ci fa riscoprire ogni volta che mente e mentire hanno la stessa radice linguistica; dove, in questo caso, la parola mentire ci riporta all’impossibilità di una prospettiva vera in senso assoluto o metafisica, che allora sarebbe identica punto a punto per chiunque. La metafora non annulla la differenza tra le cose ma è un segugio che scova le analogie (delle identità parziali, dialettiche). È il suo modo di mettere ordine nel caos primigenio del mondo. Freud ha fondato l’edificio della psicoanalisi sulle fondamenta del transfert, che dopotutto è una metafora (in sostanza si basa sull’analogia analista-imago parentali).

L’ubiquitarietà della metafora (condensazione), vera ape laboriosa che raccoglie il miele del significato, è forse l’argomento migliore per realizzare che sogniamo sempre, sia di notte che di giorno. Non si dà mai la possibilità di far corrispondere le parole alle cose. È sempre e solo questione di differenze che la metafora (il gioco differenziale della lingua) riesce a ridurre generando aree di sovrapponibilità o di identità. A causa di questa impossibilità di una identificazione assoluta, nello scarto che sempre rimane tra metafora e metaforizzato si insinua l’ambiguità: non ci sono fatti ma solo interpretazioni consensuali e virtualmente infinite.

Al centro della sua psicoanalisi, Bion pone la relazione tra madre – bambino, come lei precisa, modello di come una mente si crea per la prima volta e di come poi si sviluppa. Perché questa centralità ed essenzialità di questa relazione?

-Il punto che la teoria della nascita della psiche deve chiarire è come sia possibile che una mente si sviluppi a partire da un’altra mente, ma quando si trova ancora in una condizione in cui non ha accesso al significato semantico del linguaggio. La psiche, ripeto, non smette mai di ‘nascere’. In situazioni ‘normali’ o patologiche è sempre questione di ampliare lo spazio della mente in cui contenuti emotivi potenzialmente distruttivi possono essere accolti e trasformati.

Cosa facciamo in analisi? Ricostruiamo la storia del paziente? Togliamo il velo della rimozione? Interpretiamo fantasie inconsce ‘profonde’? Tutte cose utili, ma in maniera più essenziale ormai potremmo dire che costruiamo legami emotivi che sedimentano come i fili misteriosi della memoria – ma noi siamo la nostra “ricca rete di ricordi” – sia dichiarativi che impliciti, procedurali o ‘schematici’. Che siano emotivi più che concettuali, si dovrebbe capire facilmente se interroghiamo il nostro modello della relazione madre-infante.

Come potrebbero essere ‘concettuali’, visto che il bambino non sa ancora il significato delle parole? Poi, non è forse vero che tutte le persone che chiedono una cura lo fanno perché soffrono di un qualche grado di de-personalizzazione, dissociazione (una scissione meno frammentata) o scissione in senso proprio tra psiche e soma; dove, insomma, la casa della ragione sta su ma le fondamenta dell’affettività sono fragili? Il sistema affettivo di ciascuno non è l’agenzia che a ogni istante esprime fulmineamente una valutazione su quello che ci circonda?

Siamo passati insomma a vedere nell’analisi meno una cura di parole e più un’arte dell’ospitalità e del ‘toccarsi’ reciprocamente con le parole nel senso di risuonare emotivamente, essere all’unisono, trovare un punto di sintonia. L’idea è che i disturbi che intervengono nella relazione primaria, e dunque nella costituzione del corpo emozionale, siano la base della sofferenza psichica; questo è pertanto il livello che ha bisogno di essere considerato.


Giuseppe Civitarese

Introduzione alla teoria del campo analitico

2023, Raffaello Cortina Editore


[1] L’inconscio secondo Freud è “malvagia alterità (evil other)” (Terman, 2014), “caos, un crogiuolo di eccitamenti ribollenti” (Freud, 1933, p. 185), una regione infestato da “una massa gaudente e distruttiva” (Freud, 1932, p. 311), che viene alla luce nella “immoralità dei […] sogni” (Freud 1899, 564) e nel “demoniaco che fornisce il desiderio del sogno” (ibid., p. 558).

[2] Cfr. Abram e Hinshelwood (2018, pp. 124-128): “Edward Glover, and Elizabeth Zetzel […] both referred to Klein’s theory of ‘evil’ as equivalent to the religious belief in ‘original sin’ (Glover, 1945; Zetzel, 1956). Winnicott and many others followed this view […] her writings, along with those of many Kleinians, do convey a belief that the baby is born with innate evil due to the ‘innate death instinct’. It comes across as rather literal. […] this ‘innate evil’ is an aspect of the innate unconscious phantasy”.

Share this Post!
error: Content is protected !!