di Matteo Pratelli
Ho riflettuto a lungo sulla maniera in cui avrei dovuto approcciarmi alla scrittura di questo articolo. Sarebbe forse meglio, in situazioni simili, limitarsi a una postura professionale che garantisca il giusto distacco dall’oggetto che si presenta – in questo caso, il libro Sorellanze. Per una psicoanalisi femminista, di Silvia Lippi e Patrice Maniglier. Avrei quindi potuto parlarne come farei di un testo qualsiasi, come ogni lettore parla dei libri che gli passano tra le mani e coi quali spende un po’ di tempo, magari riflettendoci su. Avrei quindi parlato di due autori, Lippi e Maniglier, e di ciò che fanno in questo libro. Me ne sarei stato un po’ in disparte.
Forse sarebbe stata un’idea migliore; eppure, non è questa la strada che ho imboccato. Se non ho messo da parte il mio ego, se il pronome “io” compare più di una volta in queste pagine, non è tanto per la mia incapacità di elidermi nel processo di scrittura – o almeno, non solamente. Ciò ha anche a che fare con una sorta di onestà intellettuale che sento il bisogno di incarnare nei confronti delle persone che mi leggeranno, e che concerne il mio “posizionamento” (come si dice oggi nel campo delle scienze sociali e umane) nei confronti di questo libro e di chi l’ha scritto. Fare quindi finta che, per me, Sorellanze fosse un testo come un altro è una possibilità che ho preso in considerazione e poi scartato.
Ho incontrato per la prima volta Silvia e Patrice all’Università Paris-Nanterre – dove ho concluso lo scorso anno un Master in filosofia, e dove Patrice insegna, proprio in quel dipartimento – in occasione di un loro intervento durante un seminario. Il tema della presentazione aveva a che fare con la questione del sintomo nella trans-identità. Sorellanze sarebbe uscito, nella versione originale francese Sœurs. Pour une psychanalyse féministe, circa sei mesi dopo.
Successivamente, ho potuto incontrare entrambi in varie occasioni. Li ho sentiti parlare del loro lavoro comune, ho avuto modo di condividere il mio punto di vista e le mie idee su quello che avevano creato, e ho sempre trovato orecchie e menti attente ai pensieri di un giovane studente quale sono. Patrice è stato poi il mio co-direttore di tesi magistrale, e sotto la sua supervisione ho scritto a proposito di Sorellanze, dedicando a quest’ultimo un intero capitolo.
Questo mio testo non è, e non potrebbe essere, come si sarà capito, una recensione. Piuttosto, esso può svolgere il ruolo di invito alla lettura, di condivisione intellettuale e di partecipazione sintomatica a un movimento che immagino e spero sempre più vasto. Il ruolo di un augurio: per una psicoanalisi femminista.
Il contesto della pubblicazione di Sœurs in Francia è quello di una spaccatura. Da una parte, le istituzioni psicoanalitiche classiche che rifiutano di confrontarsi ai problemi che la loro disciplina si trascina dietro da ormai troppi anni e che riguardano, per quel che ci interessa qui, la questione del maschilismo (lo dico in maniera semplice e diretta) insito nelle loro pratiche e nelle teorie alle base di quest’ultime. Dall’altra, un insieme necessariamente eterogeneo di psicoanalistə convintə che un’altra psicoanalisi sia possibile, e che tentano di farla accadere nella clinica e nei libri.
La spaccatura è con ogni probabilità sempre esistita, ma è stata allargata e portata alla luce da un intervento del filosofo Paul B. Préciado che rivolgendosi all’École de la cause freudienne – la grande scuola lacaniana di Parigi – ha pronunciato un ormai storico discorso, poi diventato libro, dal titolo Je suis un monstre qui vous parle: sono un mostro che vi parla. Préciado denuncia, parlando dalla sua posizione di persona transessuale, le pratiche etero-patriarcali della psicoanalisi, la violenza che queste pratiche esercitano sulle minoranze LGBTQIA+, e lancia un appello per un cambiamento profondo. Questo testo polemico non è stato certo accolto in modo positivo da tutti. Una minoranza di psicoanalistə l’ha però visto come il possibile inizio di una rivoluzione. Silvia è certo una di questə.
Un libro, come ogni creazione, è sempre il frutto di un desiderio. Nel caso di Sorellanze, Silvia ne è l’origine. Patrice è stato esposto a questo desiderio e da esso si è fatto trascinare: nasce così la loro collaborazione. Lo si capisce guardando la copertina dell’edizione francese: c’è una bambina che sussurra qualcosa all’orecchio di un’altra bambina, che reagisce spalancando la bocca in un moto di sorpresa. Chi sia la prima e chi la seconda non è un mistero. Ciò spiega anche una stranezza che non sfugge a chi legge: a prendere la parola è quasi sempre un “noi”; talvolta, però, un “io” fa incursione nei discorsi. In quest’ultimo caso, è Silvia che parla.
Un’altra “stranezza” è da subito evidente: a parlare come soggetti della scrittura sono una donna e un uomo, ma la declinazione del “noi” è sempre al femminile. Non si tratta quindi di due autori, ma di due autrici. Anche Patrice scrive a partire da un legame di sorellanza che, come spiegato nel libro, non è riservato alle sole donne (pur in tutta la vastità di questo termine: chi può infatti rispondere con certezza alla domanda “cos’è una donna?”). Ma forse questa “stranezza” non sarà più tale nel corso della lettura. Forse ci abitueremo al fatto che un collettivo può essere anche un collettivo al femminile. Forse ci renderemo conto che è per il meglio.
E la questione del collettivo, che comincia da quello delle autrici e non ci lascia più fino all’ultima pagina, è forse la soluzione all’augurio di cui parlavo più in alto: se qualcosa può essere fatto “per una psicoanalisi femminista”, è prima di tutto il riconoscimento che esistono collettivi al femminile, dove l’unione non è quella della fratellanza ma quella, di tutt’altra specie, della sorellanza: un insieme di sorelle.
Proprio un movimento collettivo al femminile è alla base della scrittura di Sorellanze: quello del #MeToo, “anch’io”, tramite il quale schiere di donne denunciavano la loro posizione comune di sottomissione e sfruttamento in un mondo dominato dagli uomini, e la loro volontà di ribellione, la loro voglia di cambiamento.
Che a parlarne sia una psicoanalista di formazione lacaniana è certo un dato su cui soffermarsi. È in effetti Lacan che, come risultato di una complicata elaborazione teorica, annuncia l’inevitabile solitudine delle donne. Esse non formano mai un insieme, ma sono sempre prese “una per una”, nella loro singolarità. Se le donne si uniscono, secondo questa visione, è perché esse passano da una posizione femminile a una posizione maschile (di fratellanza, potremmo dire) e fanno gruppo nella stessa maniera in cui lo fanno gli uomini. Silvia e Patrice analizzano con cura il discorso lacaniano e procedono alla sua decostruzione, mettendone in evidenza i presupposti etero-patriarcali in esso impliciti. Lo fanno con la chiarezza estrema che contraddistingue tutto il libro, senza però mai rinunciare a scavare in profondo, riuscendo così bene a far convivere i registri del saggio divulgativo, del testo “universitario”, della pubblicazione engagée, militante.
Ed ecco che le autrici mostrano l’esistenza di formazioni collettive, come quella del #MeToo, che hanno qualcosa di diverso rispetto ad altri modi di fare gruppo, perché fondate su un legame tutto speciale, e tutto femminile, che è quello della sorellanza: il legame sororale. All’elaborazione di questo oggetto teorico è legata la parte più speculativa del libro, che riprende concetti chiave della psicoanalisi freudiana e strutturalista per rinnovarle dall’interno – non senza apporti esterni, certo. Il legame sororale è un legame che si forma nell’inconscio, a partire dal trauma, sempre individuale, e appoggiandosi sui fantasmi che il trauma origina, così da sviluppare un sintomo condiviso – il sintomo sororale. Ciò che sorprende qui è la maniera in cui Silvia e Patrice bypassano, su tali questioni, la teoria lacaniana, per operare un nuovo ritorno a Freud: il fondatore della psicoanalisi si sarebbe in effetti reso conto della possibilità di un legame sociale e politico di carattere inconscio e manifestamente femminile (senza tuttavia farne un’elaborazione teorica completa); Lacan, dal canto suo, avrebbe forse “rimosso” una tale possibilità, concentrato com’era sul significante fallico. Questo non vuol dire che Freud avesse “già detto tutto”: le autrici sono molto abili nel riconoscere un debito simbolico verso i propri “maestri”, senza però evitare di confrontarli a viso aperto quando quello che dicono è errato, vecchio, persino inaccettabile.
Il trauma non può mai scomparire, e così il sintomo che di esso è manifestazione visibile. Ma un sintomo può diventare condiviso, sororale, permettendoci quindi di stare insieme come sorelle, e sottraendoci a un mondo solo al maschile – con tutte le conseguenze che ciò porta con sé. È l’unico modo, direi, per dare un senso al trauma: farci qualcosa, farne la base per una rivolta.
Silvia e Patrice non propongono quindi uno studio esclusivamente teorico, come ho già accennato, ma una proposta pratica, politica, a un problema che caratterizza una disciplina come la psicoanalisi e, più in generale, la società tutta.
Il rapporto di amicizia che mi lega alle due autrici mi ha permesso di chiamarle per nome lungo tutto il testo. Eppure non è l’unica ragione per cui l’ho fatto: c’è anche la volontà di affermare la mia propria partecipazione sororale a questo movimento di pensiero, che è allo stesso tempo un movimento desiderante. Silvia e Patrice fanno lo stesso, chiamando per nome tutte le sorelle alle quali vogliono unire la loro voce: Judith, Monique, Colette, Andrea… Ad una di esse il libro è particolarmente debitore: si tratta di Valerie, per Valerie Solanas, oggi conosciuta soprattutto per il tentativo di assassinio di Andy Warhol nel 1968. Una criminale, quindi! Che ci fa una criminale in un libro sulla psicoanalisi femminista? Come si può accettare il suo testo radicale SCUM Manifesto quando afferma che bisogna “eliminare tutti gli uomini”? È forse una metafora, o uno scherzo di dubbio gusto?
No, piuttosto un linguaggio delirante, quindi al tempo stesso assurdo e pieno di verità. Ecco, il testo di Silvia e Patrice è, tra le altre cose, un insegnamento su come il delirio vada preso, nella sua totale e inevitabile ambiguità, il più seriamente possibile. Quale sarebbe altrimenti la ragione di esistere della psicoanalisi?
E il discorso femminista è talvolta un discorso delirante, persino isterico – c’è un capitolo dallo stupendo titolo “Fiere di essere isteriche, sicure di essere storiche!”. Ma se questo discorso è proferito non nella solitudine, ma nella sorellanza, ecco che esso libera tutto il suo potenziale emancipatorio e rivoluzionario. Ecco che un altro modo di stare insieme è possible, e quindi un altro modo di fare clinica.
Sorellanze si inserisce cone forza in un contesto intellettuale e politico sempre più polarizzato, nel quale le proposte di emancipazione che esistono e cercano di affermarsi sono controbilanciate da una forte spinta reazionaria che spaventa per la sua violenza e per la capacità di attrattiva che esercita su una vastissima parte della popolazione. L’idea che si tratti di semplici divergenze sulle quali possiamo chiudere un occhio mi pare ad oggi sempre più fantasiosa: dall’altro “lato della barricata”, il più delle volte, non ci sono persone pronte ad ascoltare e confrontarsi, ma soltanto a colpire forte e cancellare qualunque progresso sia in procinto di compiersi verso un mondo più giusto. Ecco perché non si può più stare fermə.
Non dico che Sorellanze sia lo strumento definitivo dell’emancipazione femminile nel campo psicoanalitico. Non credo affatto che sia questa l’idea di chi lo ha scritto. Ma certo esso prende parte nel dibattito in corso e tiene con forza la sua posizione, fornendoci utili spunti per la riflessione e proposte concrete per il rinnovamento della pratica, con uno sguardo più generale sul mondo femminista nel suo insieme. Ecco perché lo ritengo un testo prezioso che merita di essere letto persino da chi non si interessa particolarmente a tali questioni ma ne percepisce in qualche modo l’importanza ; da chi non si sente più a suo agio in un mondo che vede nell’ideale della fratellanza l’unica maniera di stare insieme, e che cerca un luogo forse più scomodo ma certo più giusto e accogliente: un sorellanza.
E se anche il singolare fosse ancora troppo stretto, basta solo introdurre qualche cambiamento in più: sorellanze!
Silvia Lippi, Patrice Maniglier
Sorellanze. Per una psicoanalisi femminista
Derive e approdi, 2024