EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

Stress lavorativo, burnout e strategie di coping, attraverso una lettura sistemica del contesto lavorativo

 

di Antonio Puleggio e Sandra Sostegni

 

Quest’ultimo secolo si è espresso attraverso un’imponente cultura consumistica sviluppatasi sul processo di industrializzazione e su progressive trasformazioni economico-produttive. Tutto ciò ha fatto nascere nuovi bisogni e con essi una rinnovata attenzione, da parte della medicina del lavoro, verso inediti problemi di salute emergenti, su cui gli operatori della prevenzione si trovano oggi a dibattere.

Se le patologie determinate dai lavori tradizionali ad eziologia monofattoriale (come l’esposizione abnorme a polveri, fumi, gas e vapori etc…) sono in diminuzione, risultano invece in aumento i fenomeni di disagio lavorativo e le patologie di tipo aspecifico, attribuibili ad un’origine multifattoriale, sistemica.

Le caratteristiche culturali ed organizzative del lavoro acquistano crescente significatività nell’interpretazione del rapporto ambiente-individuo, nell’eziologia delle malattie cronico-degenerative legate soprattutto alla sfera psicosomatica; dunque il nuovo campo di ricerca della medicina del lavoro e delle scienze psicosociali sarà necessariamente orientato allo studio delle work-related diseases o malattie lavoro-associate a genesi multifattoriale. La terziarizzazione delle attività produttive indirizza inoltre verso ricerche attinenti alle relazioni tra equilibrio psicosomatico  e stati dissociativi[1].

A tutt’oggi il modello fisiopatologico più studiato è quello delle malattie coronariche, e a questo proposito sono stati invocati due distinti processi difensivi. Un processo diretto che presuppone distinti meccanismi di attivazione e inibizione, dove l’attivazione corrisponde alla risposta “lotta/fuga” e alla reazione di coping attivo (di cui parleremo più avanti) che si associa ad aumento dell’attività motoria, della gittata cardiaca e della secrezione di catecolamine e di cortisolo. In questo caso gli esiti negativi della reazione da stress potrebbero essere favoriti da situazioni lavorative dove sia mantenuta nel tempo un’attivazione generalizzata (arousal) (corrispondente alla mobilitazione energetica di lotta/fuga). Può essere il caso di mansioni sedentarie, caratterizzate da vari tipi di carico psicologico: eccesso di responsabilità, conflitti di ruolo, orari pesanti, irregolari o notturni, esposizione a rumore etc..[2]

D’altronde anche un basso livello di stimolazione, in relazione a compiti monotoni e ripetitivi, è stato indicato come fattore di stress (sottocarico). Il meccanismo diretto, di inibizione, corrisponde ad una risposta passiva allo stress, definita come playing dead reaction (giocare a fare il morto) che si associa ad un aumento dello stato di allerta associato a inibizione dell’attività motoria, con vasocostrizione muscolare ed aumento della stimolazione vagale (coping passivo). Una particolare attenzione è stata prestata all’identificazione degli hot reactors, ovvero soggetti con iperreattività biologica agli stimoli stressanti che sarebbero i più esposti a sviluppare ipertensione arteriosa.

Viene poi descritto un altro processo, indiretto che invece si riferisce alle influenze dello stress riferibili all’induzione, mantenimento o peggioramento di abitudini di vita dannose come i disordini dietetici, il fumo di sigaretta, la scarsa attività fisica, i disturbi del sonno, etc… Tali fenomeni risultano correlati, come vedremo, ad un aumento dei livelli di ansia. [3]

Nel presente lavoro vogliamo porre la nostra attenzione al fenomeno del burnout considerandolo il comune denominatore, l’elemento centrale e fondamentale a cui rapportare le manifestazioni di stress lavorativo, i fenomeni di mobbing e le strategie di coping.

 

La sindrome del burnout

Per farci una prima idea sul significato che assume questo fenomeno per chi lo  vive, riportiamo di seguito alcune testimonianze: “Quando cerco di descrivere ad altri la mia esperienza, uso la metafora della teiera. Come una teiera, ero sul fuoco e l’acqua bolliva; lavoravo sodo per gestire i problemi e fare del mio meglio. Ma dopo vari anni l’acqua era tutta evaporata e tuttavia io ero ancora sul fornello: una teiera bruciata che rischiava di spaccarsi” (Carol B., assistente sociale); “Un insegnante può essere paragonato a una batteria. All’inizio dell’anno scolastico tutti gli studenti sono inseriti nella presa e assorbono la corrente nell’apprendimento. Alla fine dell’anno scolastico la batteria è consumata e deve essere ricaricata; ma ogni volta che viene ricaricata è più difficile farle mantenere la carica e alla fine deve essere sostituita. Questo succede quando si è esaurita totalmente” (Jim Y., insegnante); “Quando ti occupi di così tante persone, cominci a soffrire per il sovraccarico emozionale: è semplicemente troppo. Sono come un filo elettrico in cui passa un eccesso di corrente: sono “bruciata”, emotivamente disattivata e distaccata dagli altri” (Jane J., infermiera). (da: Maslach C., La sindrome del burnout, il prezzo dell’aiuto agli altri. Cittadella Editrice, Assisi, II edizione, 1997).

Le metafore utilizzate da questi soggetti hanno un sapore forte e drammatico. Una “teiera” vuota, bruciata che stava per spaccarsi al calore prolungato del fuoco; una “batteria” ormai incapace di trattenere energia, quindi scarica ed esaurita; un “filo elettrico” bruciato da un eccesso di corrente.

Possiamo notare che queste persone hanno in comune alcune caratteristiche: innanzi tutto sono operatori che lavorano a contatto col pubblico, con la gente. Il loro lavoro si basa sull’interazione umana e spesso ha finalità educative, di cura o di sostegno agli altri.

Questi esempi sono espressioni di un decadimento psicofisico, di una condizione emotiva o più genericamente psichica, di esaurimento motivazionale e descrivono alcuni stati dominanti di quella che è denominata sindrome del burnout.

L’analisi semantica del termine burn-out evoca significati non del tutto identici tra loro: “bruciare fino in fondo estinguendosi” ad esempio, ci offre un’interpretazione di irreversibilità del fenomeno che sembra debba arrivare ad un totale esaurimento; oppure “provocare un corto circuito”, che sembra non escludere un residuo di volontarietà da parte del soggetto che agisce in modo auto lesivo. Infine l’espressione americana “to burn oneself out”, “rovinarsi la salute” che si riferisce esplicitamente ad una potenziale condizione patogena.

Per poter compiere un’analisi attendibile del fenomeno del burnout occorre considerare gli elementi che interagiscono all’interno di una situazione e che sono costitutivi del fenomeno stesso. Secondo una interpretazione intrasistemica dobbiamo considerare l’individuo, con le sue caratteristiche peculiari, la sua storia e le sue vulnerabilità, dato che nella persona agisce un’organizzazione di significati e di bisogni che sono il prodotto della sua storia, cioè dell’interazione diacronica di assimilazioni e adattamenti tra lui e la realtà. Una parte di questi significati vengono “spesi” attivamente nel contesto, ed hanno senso e significato rispetto a ciò che accade. Ovviamente dobbiamo poi considerare l’ambiente, il contesto in cui acquistano un significato compiuto i gesti, le parole e i comportamenti. Anche il contesto riassume in sé significati, obiettivi, bisogni, regole implicite ed esplicite, dichiarate e no: quindi ignorare questi aspetti significherebbe, per un osservatore esterno, non poter comprendere la natura dei significati scatenanti le sindromi patologiche di stress, di insoddisfazione, di intolleranza,  di cui vogliamo parlare, e quindi del fenomeno del burnout.

Se è necessario leggere le variabili caratteristiche all’interno dei componenti dell’interazione, è altrettanto importante compiere un’analisi delle interazioni stesse: nel loro interagire o interdipendere, i sistemi scambiano, si equilibrano, si modificano, si aprono o si chiudono, si incontrano o si scontrano, si uniscono funzionalmente o si dividono. Una lettura di insieme ci può dire molto di più di quanto non ci possa spiegare la constatazione di una condizione patologica invalidante ormai già strutturata e organizzata nell’individuo e nel suo stile di vita. Sappiamo che questo purtroppo non è sempre possibile, ma è bene sapere che il “germe” del burn-out possiede queste due radici: le storie dei sistemi, con le loro regole ed i loro bisogni e le interazioni che questi producono nel tempo.[4]

La relazione diadica elementare che si attua negli scambi to and from tra le persone, mette in gioco parti complesse degli individui. La porzione più intima, più profonda della nostra identità, viene protetta e salvaguardata, attraverso tendenze autoconservative: noi cambiamo ma non troppo, siamo aperti agli stimoli ambientali, ma questi non hanno una influenza radicale sugli assetti cognitivi ed emotivi della nostra personalità. Abbiamo una percezione di noi stessi che ci permette di riconoscerci, ovunque siamo e qualunque cosa facciamo. Quando gli eventi ambientali ci invadono e penetrano questi confini dell’intimità, rischiamo la spersonalizzazione, la perdita parziale di identità (come in effetti avviene nella sindrome del burnout). Un elemento di protezione, dato che ci rivolgiamo soprattutto ai contesti lavorativi, è il ruolo professionale. Possiamo immaginarlo come una sorta di membrana semipermeabile che ci avvolge, un po’ come per le cellule del nostro organismo, permettendo di filtrare e selezionare gli stimoli degli agenti esterni. Ma questo confine invisibile non limita e seleziona solo gli input, ma anche le risposte in uscita: i nostri output, cioè i comportamenti che produciamo nell’ambiente di lavoro, sono filtrati dal significato imposto nel ruolo che ricopriamo, dalla posizione che assumiamo, dalla percezione che abbiamo del nostro operare ed essere in quell’hic et nunc. Secondo il nostro discorso è chiaro che input ed output comportamentali vengono posti in relazione di significato ai feedback del contesto.

Quindi il contesto incoraggerà o scoraggerà certe risposte individuali, si presenterà attraverso stimoli appetitivi o avversativi, e questi si confronteranno con il mondo interiore dei significati e dei bisogni degli operatori.[5]

Le relazioni possono assumere configurazioni complementari o simmetriche, tra  operatori di medesimo livello, o tra subalterni e superiori, e tra questi e le richieste del contesto. In particolare se le aspettative, le motivazioni ed il mondo dei significati della persona si trovano a confliggere con le direttive ambientali, o ad esempio la mission di un servizio pubblico, questo faciliterà nel tempo scambi di tipo simmetrico e probabilmente l’instaurarsi di conflittualità irrisolte che già di per sé costituiscono fattori di stress che predispongono i soggetti più “vulnerabili” alle manifestazioni di burnout.[6]

Come sappiamo i sistemi viventi possono mantenere uno stato di equilibrio endogeno-esogeno a diversi livelli di tensione (concetto lewiniano): vale a dire che, nel caso di operatori che lavorano in un ambiente pubblico, gli scambi interattivi possono incontrare poca o molta resistenza. Dato che i sistemi umani sono sistemi “aperti”, cioè per vivere e per “sentirsi vivi”  hanno bisogno di scambiare informazioni (cioè stimoli di varia natura e significato), se questi scambi sono facilitati, accettati e riconosciuti validi dal contesto le resistenze risultano basse, e con esse i livelli di tensione emotiva endogena; al contrario, avremmo livelli di tensione alta, con alta dispersione di energia psichica e fisica.

La psicologia descrive questi fenomeni come principalmente legati al meccanismo della frustrazione. Questa, come sappiamo, è generalmente caratterizzata da fenomeni di impedimento, dilazione o conflitto.

Secondo uno schema generale e universalmente accettato, ogni soggetto agisce attraverso comportamenti motivati (dal latino movēre, muoversi verso), quindi finalizzati, che lo indirizzano verso oggetti di valenza positiva, cioè in grado di soddisfare i bisogni che sono alla base delle motivazioni stesse. Il raggiungimento di tali obiettivi comporta uno stato di piacere che garantirà il reiterarsi degli schemi comportamentali che hanno avuto successo (R+). Nella realtà come sappiamo, accade sovente che non sia così semplice ed immediato l’ottenimento o l’appagamento soddisfacente, ma che anzi si debba ripiegare su altre soluzioni rispetto a quelle originarie. Questo spostamento su altri oggetti sostitutivi comporta la creazione di un residuo di energia psicofisica. Questa sarà tanto più consistente, quanto l’oggetto sostitutivo sarà dissimile da quello originario. In altre parole il grado di similitudine e di soddisfazione ottenuti con la scelta compensatoria o sostitutiva, si correlano con il livello di frustrazione nell’individuo. Se poi non esiste in assoluto la possibilità di soddisfazione, abbiamo una condizione di impedimento e quindi un residuo integrale di energia residua.

L’energia non investita si traduce in qualcosa: cioè in comportamenti fantastici (fantasie compensatorie) o reali, spesso connotati da aggressività, auto o etero diretta, consapevole o meno.

I comportamenti che osserviamo più frequentemente possono essere improntati all’aggressività (aggredior = dal lat. spingersi in avanti), o alla passività (evitamento, auto esclusione). Consideriamo anche come gli stili di comportamento passivo e aggressivo, rispondano bene alle esigenze di scarica energetica, in quanto risultano prevalentemente impulsivi e scarsamente mediati.

Nelle situazioni in cui il soggetto permanga in uno stato conflittuale di tipo avversativo, cioè in una condizione di stallo fra più elementi tutti insoddisfacenti, senza possibilità di uscita o nell’incapacità di modificare gli schemi comportamentali, si assiste ad un innalzamento progressivo dei livelli di tensione intrapsichica. Generalmente i meccanismi di difesa psicologici ci proteggono e ci aiutano a gestire gli eventi stressanti. Tra questi meccanismi compensatori e di difesa ricordiamo: la negazione, la razionalizzazione, la sublimazione, la formazione reattiva, la repressione, lo spostamento, la proiezione, l’identificazione, la rimozione; ma se gli eventi stressanti sono prolungati nel tempo senza soluzione di continuità e le difese psichiche non risultano efficaci di fronte alle richieste del sistema, può manifestarsi nell’individuo più vulnerabile un’espressione sintomatica di tipo psicosomatico o altro.

Comunque sia per un’analisi corretta dei fenomeni di burnout, teniamo sempre presente i fattori che creano o scatenano nell’individuo tensioni e conflittualità, e come questi si ripresentano all’interno del contesto di lavoro secondo i parametri spazio temporali di durata, intensità e frequenza, risultando sempre al di sopra di una certa soglia di tolleranza soggettiva.

A questo punto diviene importante per il soggetto a rischio di burnout acquisire uno stato di consapevolezza della sua condizione, prima che questa giunga ad un point of no return, e cerchi attivamente di reagire compatibilmente con le condizioni della realtà: comunque prima di riuscire ad attivare gli sforzi e le strategie necessarie per fronteggiare la situazione, occorre che il soggetto attivi su di sé un processo metacognitivo. Questo, che viene denominato mastery, si riferisce alla capacità di definire i propri stati di sofferenza psicologica in termini di “problemi da risolvere”, di individuare le operazioni mentali necessarie per la soluzione di compiti, nonché la capacità di elaborare ed eseguire strategie adeguate a livelli di complessità crescente di impegno mentale. Le strategie che seguiranno e che rientrano nella categoria del coping, saranno orientate a fronteggiare o affrontare con successo qualcosa che può o che avvertiamo possa essere dannoso.[7]

Il coping può essere definito come l’insieme degli sforzi cognitivi e comportamentali che si attivano per far fronte a specifiche esigenze esterne ed interne che sono vissute come imposizioni, o come superiori alle risorse, o come fortemente divergenti rispetto alle motivazioni personali. In particolare si fa riferimento a strategie di coping, intendendo quelle modalità che possono essere apprese con l’introspezione di eventi esterni (presa di coscienza), con l’osservazione del comportamento visibile (esplorazione guidata in psicoterapia) e attraverso esercizi di modulazione (tecniche cognitivo-comportamentali).

E’ opinione di alcuni Autori (Mezzani M., Pacciolla A., 2002) che i processi di mastery e di coping offrano punti di correlazione con meccanismi difensivi che si attiverebbero di fronte ad un possibile o reale stress.

 

Organizzazioni e regole di contesto 

Abbiamo già accennato al fatto che l’organizzazione del contesto contribuisce in modo significativo all’insorgenza di dinamiche conflittuali intra o inter sistemiche. Organizzazioni rigide o flessibili, oppure lassiste e caotiche, hanno effetti diversi sulla qualità delle relazioni, sulla produttività, sul grado di soddisfazione dei membri.

Una configurazione “a stella” ad esempio, implica una gerarchia forte e centralizzata: in questo caso chi ne fa parte ed ha una posizione subalterna, ha poco spazio decisionale, però è anche sgravato da tensioni e conflitti (a meno che non esista una discordanza aperta e diretta con la leadership). Una organizzazione a rete, senza preferenzialità di ruoli, con scarsa gerarchizzazione, si presenta in modo caotico ed espone i suoi membri ad ogni sorta di destabilizzazione. Infine una forma intermedia dove esistono vari livelli decisionali, e questi sono rappresentati da membri ritenuti capaci ed autorevoli (a cui vengono attribuite capacità di osservazione, controllo, potere, credibilità, efficienza, comunicabilità, coerenza, etc…), espressione dei componenti del gruppo di quel livello, offrono meno spunti di conflitto e di tensione e più possibilità di sfogo emozionale ai suoi membri.

Le possibili tipologie organizzative ci aiutano a descrivere un ambiente operativo circoscritto e delimitato, ma la cosa si complica inevitabilmente in quanto nella realtà ogni contesto è contenuto in ambiti più ampi e di livello superiore: ad esempio, gli operatori di un servizio sanitario pubblico agiscono all’interno di sottosistemi operativi che costituiscono il servizio stesso, che è parte di un’azienda sanitaria, che risponde agli organismi regionali di appartenenza, che si integrano con le politiche sanitarie nazionali etc… Quindi ogni sistema risponde a regole, principi, politiche, mission diverse che non sono necessariamente trasmissibili, condivisibili, adeguabili o comprensibili da tutti i sottosistemi. Questo fa sì che le direttive di un livello molto superiore non tengano conto della realtà di livelli molto inferiori, semplicemente perché non si conosce la realtà sottostante; così vi possono essere richieste di operatività che fanno parte dell’obbligatorietà ma non possono essere eseguite per impossibilità. Sono queste modalità paradossali che spesso permeano i servizi pubblici, in cui operano professionisti che si trovano in condizioni conflittuali tali che per obbedire devono disubbidire! Organizzazioni siffatte, dispersive e incoerenti, ovviamente favoriranno nei loro dipendenti sindromi conflittuali di stress che possono esitare nel burnout. [8]

Contesti operativi caratterizzati da messaggi e comportamenti incongrui, favoriscono comportamenti paradossali in chi ci vive, incrementandone la percezione di ansia e di stress emotivo. I comportamenti verbali, relazionali, emotivi, operativi tendono ad essere incongrui, doppi, ambigui, incompleti e incerti, e quindi a muoversi su un piano che oscilla tra l’incoerenza (dico o faccio qualcosa che si dimostra scarsamente valida sul suo stesso piano, verbale o comportamentale), la contraddizione (comunico qualcosa che presenta incoerenza o inconciliabilità tra i livelli verbali e non verbali) sino alle dimensioni paradossali vere e proprie.[9]

In tali contesti accade più facilmente che tra colleghi si instaurino comportamenti dove i contenuti e le relazioni abbiano perso serietà e autenticità, con il comune risultato di una “confusa” insoddisfazione diffusa.

Appena cominciamo a considerare il paradosso all’interno di contesti interattivi lavorativi, il fenomeno cessa di essere soltanto una occupazione affascinate del logico e del filosofo, e diventa di assoluta importanza pratica per la salute mentale dei partecipanti. I paradossi pragmatici sono appunto quelli che conducono a delle conseguenze comportamentali e comprendono le cosiddette ingiunzioni paradossali. Si tratta di  messaggi paradossali che creano una situazione insostenibile in chi li riceve, in quanto la richiesta in essi contenuta rende impossibile effettuare proprio quello che è richiesto. Chi la riceve si trova in una situazione insostenibile in quanto, per accondiscendervi, dovrebbe essere spontaneo, ma entro uno schema di condiscendenza e non di spontaneità. Si crea così una confusione tra livello contenuto (spontaneità) e livello meta (obbligo dell’ingiunzione) che fa sì che l’ingiunzione debba essere disobbedita per essere obbedita. In pratica diviene impossibile fare una scelta.[10]

Nella prospettiva relazionale il concetto di paradosso assume una posizione di notevole rilievo nello studio del comportamento umano, per le complesse implicazioni che i suoi effetti pragmatici sembrano avere nell’insorgenza di alcune patologie. In questo senso G. Bateson ed il gruppo di Palo Alto (nel saggio del 1956, Verso una teoria della schizofrenia), sono stati i primi a considerare il paradosso come possibile agente di relazioni patogene nella famiglia dello schizofrenico, giungendo all’elaborazione della cosiddetta “teoria del doppio legame”. Da allora il concetto di “doppio legame” ha destato notevole interesse in vari campi ed ha costituito un approccio nuovo alla psicopatologia ed un modo radicalmente diverso di pensare il comportamento in generale. Si può affermare che il “doppio legame” ha dato vita ad una nuova epistemologia che può essere applicata a varie discipline quali la psichiatria, la psicologia, la sociologia, la linguistica ed altre affini nell’ambito delle scienze del comportamento.

 

Sintomatologia ricorrente nel burnout

Tornando alla sindrome del burnout diciamo che le principali manifestazioni  documentate possono essere riassunte in: sensazione di esaurimento psicofisico cronico, sensazione di mancanza di aiuto, sviluppo di una concezione negativa di sé (bassa autostima), atteggiamento negativo verso il lavoro.

“Innanzitutto” – scrive la Maslach – “la sindrome del burnout si presenta come risposta allo stress cronico, quotidiano (piuttosto che a crisi occasionali). La pressione emozionale derivante dallo stretto contatto con la gente è una componente costante della routine lavorativa quotidiana; ciò che cambia con il passare del tempo è la propria tolleranza per questo stress continuo, tolleranza che gradualmente si esaurisce sotto l’assalto senza tregua delle tensioni emozionali. Il risultato è che quando un operatore comincia ad avere problemi nel trattare la gente, gli resta difficile identificare la causa situazionale: non c’è stato nell’ambiente di lavoro nessun cambiamento immediato corrispondente al notevole cambiamento nel suo comportamento … Pertanto la scelta più ovvia avviene tra due possibili cause, entrambe focalizzate sulle persone: “i problemi sono provocati da me o dagli altri””.

I segni premonitori che compongono il quadro iniziale, possono essere schematicamente riassunti in: iperattività, accresciuto impegno, sensazioni di esaurimento psicofisico. Si osserva inoltre una progressiva riduzione dell’impegno verso l’utenza, verso il lavoro, verso gli altri in genere; reazioni di colpevolizzazione con stati di depressione e aggressività; declino dell’efficienza cognitiva, della motivazione, della creatività; appiattimento della vita emotiva e sociale, degli interessi extralavorativi; compaiono reazioni psicosomatiche come disturbi del sonno, irritabilità, disturbi respiratori, cefalea, ipertensione, consumo di sostanze (alcool, tabacco, psicofarmaci); esaurimento con atteggiamenti negativi verso la vita, disperazione, sviluppo di quadri depressivi.

E’ interessante notare come in una fase iniziale si assista ad un incremento del regime di attività: sembrerebbe un fenomeno paradosso che probabilmente risponde ad un meccanismo difensivo. Il soggetto sposta la sua attenzione sul “fare”, e si concentra così temporaneamente sull’attività, anche se questa risulterà poco coerente e realmente producente, evitando di pensare al suo stato di “minorità” e di percepire la propria condizione di disagio.

Dunque tra i fattori che predispongono l’insorgenza del Burnout vi sono le  condizioni lavorative ambientali: le caratteristiche dell’ambiente fisico, la professione, la natura del compito, gli aspetti organizzativi (orari, turnazioni, etc…), le modalità di funzionamento del gruppo degli operatori (ruoli, comunicazione, coesione, stile di leadership, etc…), e la storia pregressa tra colleghi.

Tra le condizioni extra lavorative ricordiamo:  l’età, il sesso, gli stressors psicosociali, le caratteristiche di personalità (fattori motivazionali, livelli di aspettativa, concetto di sé, variabili personalogiche), eventuale psicopatologia pregressa.

Le difese psicologiche specifiche riconosciute in letteratura, che si attiverebbero nella sindrome del Burnout sono: la repressione delle  emozioni, lo spostamento, l’umorismo, la fuga nella fantasia, la proiezione e la fuga nella malattia.

Il più conosciuto strumento di misurazione utilizzato nella sindrome di Burnout è il Maslach Burnout Inventory (MBI). Tale strumento compie una valutazione rispetto a tre dimensioni:

  • Esaurimento Emotivo (EE) che evidenzia una condizione cronica di tensione, stanchezza, sensazione di fatica, astenia;
  • Depersonalizzazione (DP) che rileva una percezione negativa del proprio lavoro associata ad una modalità di rapporto con l’utenza emotivamente distaccata e formale;
  • Realizzazione Personale (PA) che valuta il grado di soddisfazione ed adattamento dell’operatore alle condizioni lavorative.

Accanto al fenomeno del burnout, vengono descritte altre manifestazioni del disagio lavorativo.

Abbiamo già avuto modo di dire che i contesti densi di dinamiche conflittuali evocano più facilmente di altri comportamenti lesivi, offensivi, aggressivi auto o etero diretti. Particolarmente rappresentativo di queste condizioni è il fenomeno del mobbing, su cui vogliamo fare brevemente alcune considerazioni.

 

Il Mobbing

Il termine mobbing è stato ideato dallo studioso svedese Heinz Leymann (1960; 1996) e deriva dall’inglese to mob che significa aggredire. Il primo utilizzo si è avuto in campo etologico ad indicare fra gli uccelli, l’atteggiamento aggressivo verso un membro del gruppo. Il termine venne adottato alcuni anni fa, anche se solo oggi è venuto concretamente alla ribalta, nell’ambiente di lavoro a rappresentare il processo di aggressione o di emarginazione da parte di superiori o di colleghi: emarginazione, diffusione di maldicenze, critiche continue, sistematica persecuzione, compiti dequalificanti, compromissione dell’immagine sociale nei confronti di clienti e superiori, sono alcuni dei modi utilizzati per definire un tipo di disagio lavorativo, con ripercussioni patologiche cronico-degenerative legate alla sfera psichica.

Anche in questo caso gli effetti documentati sulla salute vanno da reazioni psicosomatiche come cefalea, tachicardia, gastroenteralgie, dolori osteoarticolari, a fenomeni come ansia, disturbi dell’umore fino a manifestazioni più gravi come anoressia, bulimia e alcolismo.[11]

A fare da sfondo alle condizioni che abbiamo illustrato, vi sono poi quelle variabili generiche che costituiscono in ogni situazione di vita, i fattori stressanti. Secondo H.Selye (1976) lo stress coincide con “la risposta non specifica dell’organismo ad ogni richiesta effettuata su di esso”, e può essere prodotto da un ampia gamma di stimoli fisici ed emozionali denominati agenti stressanti, stressors appunto. Questi eventi si manifestano in qualunque contesto esistenziale in grado di provocare una modificazione dell’omeostasi psicofisiologica dell’organismo (reazioni del SNA, sistema endocrino, sistema immunitario con significato adattivo), a connotazione positiva o negativa. Possiamo comunque dire che richieste repentine di modificazione degli schemi comportamentali e delle abitudini, così come  l’acquisizione di significati molto diversi rispetto a quelli utilizzati per muoversi nell’ambiente fino a quel momento, obbligano il sistema ad un nuovo adattamento e questo si traduce, secondo il nostro ragionamento, in una condizione di stress. Ovviamente maggiori sono le richieste di adattamento e minore è il tempo di esecuzione che il sistema ha per dare le risposte, maggiore sarà lo stress psicofisico a carico del sistema.

Ricordiamo che il termine stress viene utilizzato sotto diversi aspetti:

  • come condizione ambientale
  • come valutazione di una condizione ambientale
  • come risposta ad una condizione ambientale (definizione di Selye)
  • come discrepanza percepita tra le richieste ambientali e la capacità  di farvi  fronte, dove le conseguenze del fallimento sono percepite come prioritarie dal soggetto.

Molti autori hanno cercato di identificare i fattori che possono rappresentare gli stressors, e abbiamo ormai compreso che questi fattori possono riguardare condizioni oggettive (turni, disoccupazione ed altro) oppure soggettive (percezione di eccessivo carico di lavoro, conflitti, ambiguità di ruolo, etc.).

Altri autori hanno cercato di definire le caratteristiche essenziali del lavoro stressante. Un esempio ci viene dalla lista di Kasl (1987) che individua come aspetti caratteristici:

  • la tendenza alla cronicità delle problematiche di lavoro
  • il difficile adattamento alla situazione cronicizzata
  • il fallimento nel rispondere a  continue  richieste   ambientali che porta a drastiche   conseguenze (frustrazione)
  • il ruolo e le difficoltà lavorative che influenzano altre aree d’interazione umana (ad esempio i rapporti familiari), aumentando il fattore di rischio per l’equilibrio e la salute psicofisica dell’individuo.

In questi ultimi venti anni sono stati sviluppati  modelli teorici di studio che tentano di concettualizzare la dinamica eziologica dello stress. Tra questi è opportuno ricordare il Person Environment Fit Model di French, Caplan e Van Harrison (1982).

Il Person Environment Fit Model  è stato sviluppato da un gruppo di psicologi sociali e del lavoro dell’Institute for Social Research dell’Università del Michigan, e si inscrive nella teoria del campo psicologico di derivazione lewiniana in cui il comportamento umano è funzione degli aspetti personali ed ambientali: ecco perché per comprendere e descrivere il fenomeno stress  si tiene conto non solo delle abilità, aspettative, motivazioni o rappresentazioni sociali della persona, ma anche dei fattori e delle variabili connessi all’ambiente lavorativo.[12]

Queste tipologie di modelli hanno il merito di equilibrare la valutazione personale e soggettiva degli eventi stressanti con le dimensioni organizzative e le caratteristiche oggettive date dalle competenze, dalle attitudini e dalle abilità professionali proprie delle risorse umane.

Dal punto di vista del lavoratore viene studiata la relazione esistente tra i bisogni, le aspettative della persona e la possibilità che l’organizzazione ha di soddisfarli; mentre dal punto di vista dell’organizzazione vengono analizzate le capacità che ha il lavoratore di far fronte alle richieste lavorative. Questi modelli operano quindi una distinzione tra la valutazione soggettiva dell’individuo nei riguardi dell’ambiente in cui è inserito e della propria immagine lavorativa, rispetto alla valutazione oggettiva delle caratteristiche intrinseche al lavoro ed alla persona stessa.

Secondo queste impostazioni le dimensioni più importanti da verificare sono: le caratteristiche dell’ambiente lavorativo (tipo di organizzazione, compiti o mansioni attribuite al singolo, regole e metodi di lavoro); le caratteristiche della risorsa (competenza e professionalità, attitudini); la valutazione soggettiva delle richieste oggettive dell’ambiente (influenzata da stati emozionali, motivazionali ecc.); la valutazione soggettiva delle doti personali (valutazione di abilità, competenza, valore personale, quindi autopercezione delle potenzialità).

Per alcuni Autori tutta la vita sociale organizzativa è accompagnata da condizioni di stress e stati di ansia, inerenti sia la dimensione operativa, cioè le azioni e le decisioni che dovrebbero consentire il raggiungimento degli obiettivi prefissati, sia la dimensione relazionale, cioè il complesso intreccio di sentimenti ed emozioni che scaturiscono dalla collaborazione e dal confronto tra gli individui e dal loro lavorare insieme per il raggiungimento dei risultati desiderati.

Sembra che la stessa concezione di lavoro presupponga ansietà: l’idea di lavoro come produzione di beni o servizi che possono essere considerati utili, sembra infatti essere soppiantata dall’idea del lavoro come costante preoccupazione per la sopravvivenza dell’organizzazione stessa (la principale finalità del comportamento organizzativo non è quella di sopravvivere per lavorare ma quella di lavorare per sopravvivere?).

Sembra dunque un fatto naturale accostare gli stati di ansia alle sindromi di stress.

L’ansietà insita nelle organizzazioni è spesso legata ai temi della vulnerabilità e della provvisorietà. Il senso di incertezza che può accompagnare lo svolgimento dei compiti di lavoro non sfugge quasi  mai alla “longa mano” dell’ansia. Tra i fattori che contribuiscono a determinare condizioni di ansia e quindi di stress emotivo, ricordiamo i confini organizzativi: questi hanno la funzione primaria di proteggere l’attività operativa dalle influenze esercitate dall’ambiente esterno, e quando queste frontiere sono mal disegnate o mal gestite (confini diffusi) possono creare stress o ansietà, in quanto viene a mancare la necessaria barriera protettiva all’incertezza e alla turbolenza esterna. Un altro fattore è l’esercizio del potere: la dimensione del potere rappresenta un punto nodale particolarmente insidioso, in quanto l’esecuzione di ogni tipo di lavoro, dal più scontato a quello più complesso, apre in ogni occasione pericolosi interrogativi in tema di potere, anche il più banale: chiedere o rifiutare un consiglio, tentare o lasciarsi convincere, concedere tempo o darsi tempo per riflettere, rendersi disponibile… Gli individui, secondo Hirschorn, temono l’esercizio di autorità quando non hanno “Un’immagine di sé sufficientemente buona, cioè quando si sentono fondamentalmente cattivi…” (Hirschhorn L., Reworking Authority: Leading and Following in the Post-Modern Organization, MIT Press, Cambridge MA 1997). Infine la dinamica di ruolo: l’incertezza sulla presa di ruolo può indurre ad esempio a sottovalutarsi e a non ritenersi all’altezza dei compiti affidati, sostenendo in tal senso le istanze superegoiche di autoaccusa e di punizione che, non potendo proporsi come impulso positivo verso l’azione vengono proiettate verso l’esterno attribuendo ad altri il ruolo di persecutori (proiezioni attributive).

Si attiva così un processo di graduale disimpegno dal proprio ruolo nell’organizzazione: gli individui si allontanano dalla realtà lavorativa e si creano un mondo alternativo in cui gli eventi possono essere affrontati, come abbiamo detto con modalità difensive quali la fantasia di onnipotenza, la dipendenza o la negazione.

Se l’ansietà al lavoro è troppo grande, troppo difficile da controllare e da rielaborare, gli individui la fuggiranno, cioè tenderanno ad abbandonare il loro ruolo nell’organizzazione. Il ruolo infatti, rappresenta l’elemento che dà forma alla visione oggettiva della realtà di lavoro, per cui se gli individui  non possono tollerare la situazione di lavoro avranno bisogno di fuggire dal ruolo per fuggire dalla realtà. Bisogna notare che fuggire dal ruolo significa violare i legami ed i confini sociali ed interpersonali, cioè proprio quelle condizioni di costrizione e di rischio che spesso sono percepite come all’origine dell’ansia. L’obiettivo è quello di  costruire un mondo fantastico nel quale i legami  sono distorti  e modellati a proprio piacimento.

Una situazione di stress o di ansia psicosociale, se ripetuta e prolungata nel tempo, aumenta il logoramento individuale e produce danni funzionali strutturali (burnout): l’affrontare un problema complesso (ad esempio il tentativo di adattarsi ad una situazione psicosociale poco gradita o ostica) comporta l’attivazione di meccanismi di risposta identici a quelli dello stress che si manifestano di fronte ad una situazione fisica estremamente nociva.[13] La reazione allo stress come abbiamo già detto, dipende dal modo in cui il soggetto interpreta e valuta il significato di un evento pericoloso e potenzialmente dannoso. Tale valutazione è ovviamente basata sulle esperienze personali dell’individuo, su tratti specifici di personalità e su valori e circostanze di vita, abilità, intelligenza, addestramento e cultura.

 

Gli effetti dello stress lavorativo: una ricerca                                                       

L’ipotesi di una significativa relazione tra fenomeni di burnout lavorativo e sintomatologie ansiose è stato evidenziato anche in una abbastanza recente ricerca, relativa ai livelli di burnout e sintomatologia nevrotica in un gruppo di operatori dei Servizi per le Tossicodipendenze (Martellucci P.M., Pini M., Pullerà M., 1999), che  riteniamo utile presentare.

Secondo questi Autori, “la sindrome del burnout nel personale della sanità, considerato anche la rilevanza sociale del fenomeno, sta riscontrando un notevole interesse da parte della letteratura psicologica e psichiatrica (Santinello, 1990; Payne e Firth Cozens, 1999). Gli effetti dello stress lavorativo sulle condizioni di salute dell’operatore sanitario ed i conseguenti rischi di burnout coinvolgono numerosi fattori che si sviluppano diversamente in ogni individuo e/o in ciascuna categoria professionale. L’azione patogena degli stressors protratti nel tempo, argomento su cui è ormai disponibile una ampia casistica sperimentale e clinica (cfr. Pancheri, 1980; Biondi, 1997), anche se originariamente ristretti all’ambito lavorativo, può determinare reazioni disadattative che si estendono alla sfera extralavorativa fino a favorire l’insorgenza di quadri nevrotici o depressivi (Turnipseed, 1998; Baba, Jamal e Tourigny, 1998). Tale esito sembra essere molto frequente quando l’operatore percepisce una forte discrepanza fra aspirazioni di carriera e performance effettiva (Glass e McKnight, 1996). Rimane, tuttavia, ancora poco approfondito il problema delle caratteristiche personologiche dell’operatore predisponenti il burnout e le strategie di coping impiegate per fronteggiare lo stress nelle cosiddette helping professions  (Pini e Pullerà, 1998).

Il presente contributo si propone di rilevare il fenomeno del burnout negli operatori del Ser.T, ipotizzando che gli indici forniti dal noto Inventario di Maslach (MBI) (Esaurimento Emotivo, Depersonalizzazione, Realizzazione Personale) possano associarsi, oltre che a specifiche condizioni strutturali del lavoratore e del compito (sesso, professionalità, anzianità di servizio, modalità di  rapporto con l’utenza), alla presenza di sintomatologia nevrotica a livelli subclinici, misurabile attraverso l’MHQ.

Ad un gruppo di 42 operatori dei Ser.T delle ASL di Livorno e Arezzo (15 M, 27 F), di età compresa fra 24 e 58 anni (età media 39,3 d.s. 6,5), composto da 10 Assistenti Sociali, 4 Educatori professionali, 8 Infermieri Professionali, 8 Medici 6 Psicologi 6 Amministrativi, sono strati somministrati:

  • Il Maslach Burnout Inventory (MBI), che come abbiamo già detto fornisce punteggi distinti relativi a tre scale: a) Esaurimento Emotivo (EE), che evidenzia una condizione cronica di tensione ed astenia; b) Depersonalizzazione (DP), che rileva una percezione negativa del proprio lavoro associata ad una  modalità di rapporto con l’utenza emotivamente distaccata e formale; c) Realizzazione Personale (PA), i cui valori sono espressi in direzione contraria alle altre due scale, valuta il grado di soddisfazione ed adattamento dell’operatore alle condizioni lavorative;
  • Il Middlesex Hospital Questionnaire (MHQ) di Crown e Crisp (1970), da cui si ottiene un punteggio totale, indice di nevroticismo, dato dalla somma dei valori relativi a sei dimensioni della sintomatologia nevrotica; 1) ansia liberamente fluttuante (A); 2) ansia fobica (F); 3) ossessività (O); 4) ansia somatica (S); 5) depressione (D); 6) isteria (H).

Al MBI il campione esaminato presenta un livello medio di Esaurimento Emotivo (17,4) e di Realizzazione Personale (33,2), unito ad un valore elevato di Depersonalizzazione (5,7). Fra le categorie professionali si osservano alcune differenze: gli educatori mostrano il grado più elevato di EE, gli infermieri di DP, mentre gli amministrativi evidenziano valori bassi di EE e DP che tuttavia si accompagnano ad uno scarso senso di realizzazione professionale (PA).

Il profilo medio MHQ del gruppo presenta una distribuzione omogenea fra le sei scale e non evidenzia valori di interesse clinico. Analogamente a quanto osservato al MBI, gli infermieri riportano il profilo più elevato, rivelandosi la categoria professionale dei Ser.T maggiormente a rischio di burnout.

Dall’analisi delle correlazioni di Pearson fra le variabili  MBI e MHQ, sono emersi alcuni elementi interessanti sulle relazioni fra burnout e sintomatologia nevrotica che confermano quanto recentemente riscontrato da alcuni lavori effettuati su operatori sanitari impegnati nel settore delle tossicodipendenze (Price e Spence, 1994; Elman e Dowd, 1997). I valori della scala di Esaurimento Emotivo del MBI si associano a punteggi elevati delle scale A (p<.01), F (p<.01), S (p<.01), D (p<.05) ed all’indice generale di nevroticismo (p<.01) del MHQ; analogamente, la Depersonalizzazione è risultata correlata in direzione positiva con le scale S (p<.01), D (p<.01) e col punteggio totale MHQ (p<.01). La Realizzazione Personale è correlata (negativamente) con F (p<.01), O (p<.01), S (p<.01), D (p<.01) e con il nevroticismo MHQ (p<.01).

Sono stati, infine, effettuati i confronti fra maschi e femmine (unpaired t-test) al MBI e al MHQ. Al reattivo di Maslach le femmine ottengono valori più elevati dei maschi alle scale EE a DP ed inferiori alla scala PA, tuttavia la tendenza non raggiunge la significatività; al MHQ le femmine evidenziano punteggi significativamente maggiori di Ansia liberamente fluttuante (t=2,2 p<.05).

Dunque risulta confermata, anche a livelli subclinici, l’ipotesi di una corrispondenza fra grado di burnout lavorativo e manifestazioni sintomatologiche dell’ansia, in particolare con le sue espressioni somatiche e con le modificazioni del tono dell’umore in senso depressivo, quali indicatori di un disagio lavorativo che tende a coinvolgere aspetti più generali della personalità dell’operatore sanitario impegnato nel settore delle dipendenze. Le differenze tra le singole categorie professionali, osservate nel gruppo esaminato, meritano, a nostro avviso, di essere ulteriormente approfondite in relazione alle caratteristiche personalogiche dell’operatore e alla tipologia del compito svolto”.

 

Alcune conclusioni

In conclusione ci domandiamo come accada che tra i molti individui che operano in medesimi contesti solo alcuni vengano colpiti dalla sindrome del burnout, e perché solo alcuni sviluppino gli aspetti sintomatici più gravi ed altri più lievi, ed inoltre come sia possibile che solo su alcuni soggetti si presentino caratteri di irreversibilità sino alle forme depressive più gravi.

Le risposte a questi interrogativi probabilmente risiedono nel mondo delle ipotesi dei ricercatori e vanno rintracciate nella storia della persona, nei suoi tratti di personalità, nei fattori costitutivi di vulnerabilità, nelle competenze di adattamento, ovvero nella complessità della personalità.

Inoltre questo ci porta a riflettere ancora una volta sul concetto di “malattia”, da intendersi sempre come il rapporto tra le caratteristiche dell’individuo, con la sua storia, la sua personalità, il suo temperamento e le regole dei contesti in cui vive, opera, lavora e si relaziona.

Comunque sia nella realtà lavorativa, come in quella privata, ognuno di noi sperimenta limiti motivazionali e frustrazioni, compromessi, insoddisfazioni e conflitti. Ognuno deve adattarsi modificando nel tempo schemi e atteggiamenti ritenuti intoccabili, abitudini e significati personali: l’individuo che in maniera più plastica e flessibile riesce a far fronte alle condizioni di stress attraverso strategie di significato e di comportamento, e soprattutto attraverso le resilienze che riescono a sostenere una efficace stima di sé, saprà trarre dalle situazioni sempre qualche elemento utile per rinnovare la motivazione personale. All’occorrenza saprà difendersi utilizzando il suo ruolo professionale usandolo come filtro selettivo e la sua identità a cui attingere le risorse residue.

Saprà anche conformarsi alla realtà per ridurre la sua esposizione agli eventi, ma riuscirà a non perdere la sua originalità e autenticità (in una parola la sua coerenza interna). L’individuo ben adattato saprà muoversi con gli eventi del suo tempo senza erigere barriere difensive troppo autolimitanti (se l’Io è troppo occupato a difendersi, riduce “nevroticamente” il suo spazio vitale e finisce per “arrendersi” al sintomo). Svilupperà di preferenza con gli altri colleghi, relazioni complementari anziché simmetriche e utilizzerà un modello di comportamento assertivo, anziché divenire preda delle naturali reazioni emotive aggressive o passive.

Questi individui sia chiaro, non sono immuni dalle depressioni o dalle cadute motivazionali, dalle delusioni o dagli errori, ma sanno rigenerarsi attraverso uno scambio con l’ambiente, in un dare e ricevere che nutre e rinnova il bagaglio ideo affettivo interiore attraverso cui rappresentano loro stessi e il mondo, in un divenire egosintonico.

Sovviene alla mente i dettami di certe filosofie orientali, di certe discipline marziali, come ad esempio il Judo che raccoglie in sé i significati di arte e cedevolezza (ju e do) e che sembra suggerire che dobbiamo imparare ad essere un pò come l’acqua di un fiume che scorre e che si muove adattandosi, nel suo divenire, al suo letto, incessantemente, flessuosamente e inesorabilmente, sino alla meta.

 

 

 

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[1]              Mattioli S.,Zanardi F., Baldasseroni A., et al.., Search strings for the study of putative occupational determinants of disease,

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[2]              Monaco E, Bianco G, Di Simone Di Giuseppe B, Prestigiacomo C., Patologie emergenti in medicina del lavoro: il mobbing. G Ital Med Lav Erg, 2004;26:28-32.

[3]              Pozzi G., Salute mentale e ambiente di lavoro: nuove competenze per lo Psichiatra,  in: Pozzi G.,  Salute Mentale e ambiente di Lavoro, Milano, Franco Angeli, 2008.

[4]              Pellegrino F., La Sindrome del Burn-out, Torino, Centro Scientifico Editore, 2009.

[5]              De Vries K., Miller D. (1992), L’organizzazione nevrotica, Raffaello Cortina Editore, Milano.

[6]              Del Rio G., Stress e lavoro nei servizi. Sintomi, cause e rimedi del burnout, Roma, NIS, 1990.

[7]              Volpi C., Ghirelli G., Contesini A., Il burnout nelle professioni di aiuto: modalità di intervento ed esperienze di prevenzione, in Oltre la psicoterapia. Percorsi innovativi di psicologia di comunità, Roma, NIS, 1993.

[8]              Bonetti D. (2011), Lo Stress Lavoro – Correlato: Definizione e Modelli Causali – Review, G Ital Med Lav Erg; 33: 3, Suppl 2.

[9]              Loriedo C., Vella G., Il paradosso e il sistema familiare, Bollati Boringhieri, 1989.

[10]            Laing R. (1955), L’io diviso, ed. Einaudi.

[11]            Favretto G. (a cura di), Le forme del mobbing, cause e conseguenze di dinamiche organizzative disfunzionali,  Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005

[12]            Questo modello, nella fattispecie ipotizza lo sviluppo di strain (simile alla nostra “sollecitazione”, inteso come manifestazione a breve termine di stress a livello fisiologico, psicologico e/o comportamentale), quando c’è discrepanza tra le richieste dell’ambiente lavorativo e le abilità della persona a rispondervi. Lo strain sarà più elevato se c’è prevalenza delle richieste sulle capacità o discrepanza tra le aspettative della persona e le risorse ambientali disponibili per soddisfarle.

[13]            Nel 1968 è stato avviato negli Stati Uniti il PSID, Panel Study of Income Dynamics, uno studio longitudinale su un campione rappresentativo di oltre 25.000 famiglie di lavoratori per monitorare le dinamiche del lavoro. In questo studio, gli autori espongono i risultati dell’indagine relativamente al periodo 1968-1991 sul rapporto fra cumulo di stress lavorativo e mortalità per ogni tipo di causa. La valutazione dello stress lavorativo è stata fatta mediante una matrice costituita dalle condizioni di lavoro riferite dai soggetti in uno scoring system appositamente costruito, il Job Characteristics Scoring System. Questo sistema prevede 29 items in 5 dimensioni: Possibilità di decidere il proprio lavoro (opportunità di decidere che lavoro svolgere e come svolgerlo), Esigenze psicologiche richieste dal lavoro (richieste percepite dal proprio lavoro e dagli altri sul posto di lavoro), Sicurezza del lavoro (grado di sicurezza espresso dal soggetto di conservare il posto di lavoro in futuro), Supporto lavorativo (supporto funzionale ed emotivo fornito da supervisori e colleghi di lavoro) e Esigenze fisiche richieste dal lavoro (livello di fatica fisica richiesta dal tipo di lavoro).
Secondo i risultati dello studio, lavorare in condizioni di basso controllo è associato ad un aumento del 43% di morte. Più in particolare, è stato trovato un significativo odds ratio di 1.35 fra mortalità e lavoro passivo, ossia scarso controllo sul lavoro insieme a scarse richieste psicologiche dal tipo di lavoro. Altre associazioni predittive sono risultate essere il pensionamento e la disoccupazione. I risultati di questo studio confermano l’importanza per la propria salute della dimensione psicologica del senso di controllo del lavoro. In particolare, un lavoro passivo, caratterizzato dal fatto che il soggetto vi esercita uno scarso controllo, ne è poco soddisfatto e che non richiede grossi sforzi psicologici per essere eseguito diventa un forte predittore di malattia e morte. Ciò dimostra ulteriormente come la salute in generale sia un costrutto complesso con importanti determinanti psicosociali. (Benjamin C. Amick, III, Peggy McDonough, Hong Chang, William H. Rogers, Carl F. Pieper, and Greg Duncan, Relationship Between All-Cause Mortality and Cumulative Working Life Course Psychosocial and Physical Exposures in the United States Labor Market From 1968 to 1992).

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