EXAGERE RIVISTA - Ottobre - Novembre - Dicembre 2024, n. 10-11-12 anno IX - ISSN 2531-7334

Sulle tracce di Gregory Bateson: ecologia, mente, epistemologia

 

 

di Sergio Manghi

 

 

 

 

Non cesseremo di esplorare

E alla fine dell’esplorazione

Saremo al punto di partenza

Conosceremo il luogo per la prima volta.

Thomas S. Eliot

 

Un’epistemologia ricorsiva

 

Versi amati da Bateson, questi di Eliot. Al punto da ricavarne quasi alla lettera l’incipit – “Torno al luogo da cui sono partito e conosco il luogo per la prima volta” (Bateson, 1991, trad. it. p. 454) – della conferenza tenuta a Londra nel 1979, invitato dall’Institute of Contemporary Arts a svolgere quella che gli sarebbe piaciuto considerare la sua Last lecture. Nato nel 1904 nei pressi di Cambridge, viveva da tempo negli Stati Uniti, dove si era trasferito in seguito al matrimonio con Margaret Mead, e quel ritorno al punto di partenza, lo stesso anno della pubblicazione del suo Mente e natura, l’anno dopo che gli era stato diagnosticato un cancro ai polmoni, era per lui carico di suggestioni.

Ma questi versi non erano un mero spunto letterario per dare avvio alla lecture. In essi, come ho già avuto modo di argomentare (Manghi, 2002, 2004), è compendiato il modo d’intendere la conoscenza, ovvero l’epistemologia, che Bateson cercò di praticare in tutti i campi, numerosi ed eterogenei, che gli accadde di attraversare: antropologia, biologia, teoria evoluzionistica, cibernetica, comunicazione animale e umana, apprendimento, gioco, psichiatria, ecologia, religione…

Con un indiretto omaggio al nostro Giambattista Vico (omaggio forse meno peregrino di quanto possa apparire a prima vista), potremmo anche definire “ricorsiva”, questa epistemologia, in quanto fatta di esplorazioni e di ritorni al punto di partenza, attenta a includere l’osservatore nel mondo osservato e ad allargare le domande più che a saturarle con le risposte. Ma c’è già un bel nome, preciso e appropriato, per questa epistemologia, inventato dallo stesso Bateson, nel titolo dell’opera che gli ha dato notorietà: ecologia della mente (Bateson, 1972), e a quello ci atterremo.

In queste note cercherò, in breve, di portare alla luce il significato peculiare, appunto, di questa locuzione, evidenziando come essa richieda, quanto meno nella mia esperienza di lettura di Bateson (Manghi, 1990, 2004, 2016), uno spaesamento radicale, rispetto alle nostre più profonde abitudini di pensiero, diciamo moderno-occidentali. Abitudini al cui riguardo Bateson non si pone tuttavia come un estraneo, come vorrebbe il canone razionalista, illuso che del mondo, e financo dei propri modi di pensare, si possa parlare from nowhere.

Fedele a quel movimento “ricorsivo” richiamato sopra, egli cercò ininterrottamente di assumere quella che, proprio nel citato Mente e natura, giunse a formalizzare come “doppia descrizione”, compiuta insieme dall’esterno e dall’interno, associando linguaggi analitici e linguaggi partecipanti, senza ridurli al contempo gli uni agli altri. E cioè operando da scienziato (“un manovale impegnato nelle scienze occidentali”: Bateson, 1978, trad. it. p. 408), ma senza mai dimenticare di appartenere comunque egli stesso, e in forme comunque largamente inconsce, a quella più ampia “danza di parti interagenti” (Bateson, 1979, trad. it. p. 27) che costituisce il mondo di cui ogni scienziato è parte, insieme a quelle porzioni di questo mondo che volta a volta attirano la sua curiosità; una “danza” le cui partiture – le cui potenzialità, il cui punto di partenza – rimangono inafferrabili, nel bene come nel male, da parte della ratio scientifica, e vorrei dire più ampiamente scientifico-filosofica. Non deve dunque stupire, da questo punto di vista, che lo scienziato Gregory Bateson tornasse tanto spesso sulla questione di che cosa accada agli esseri umani nell’esperienza che chiamiamo estetica, e neppure che negli ultimi anni della sua vita il discendente di una famiglia atea da diverse generazioni si sia spinto ad affrontare la questione del sacro in una chiave non solo antropologica ma anche, e inseparabilmente, a modo suo, religiosa (Bateson, Bateson, 1989; v. Manghi, 2016).

 

 

A una spanna da terra

 

Dice un apologo zen che prima dell’illuminazione le montagne sono montagne e i fiumi sono fiumi, che praticando lo zen le montagne non sono più montagne e i fiumi non sono più fiumi, poi con l’illuminazione le montagne tornano a essere montagne e i fiumi a essere fiumi. Ma a quel punto li si vede come da una spanna da terra. Questo apologo – senza qui nulla implicare, naturalmente, riguardo alla specifica nozione buddista di illuminazione – può aiutare a intendere il tipo di movimento concettuale che a mio avviso richiede l’incontro con l’epistemologia batesoniana. Un movimento, potremmo dire, di scomoda torsione concettuale, relativo alle parole chiave ecologia e mente, al cuore della nota espressione batesoniana. Preparandosi ad attraversare un guado incerto lungo il quale, potremmo dire semplificando, l’ecologia non è più l’ecologia, e la mente non è più la mente. Lungo il quale, insomma, occorre sospendere, tenendolo a bada, se si desidera giungere sull’altra riva, il significato di queste due parole che ci viene più immediatamente tra le mani, in quanto appartenenti alla “tribù” dei moderno-occidentali, ogni volta che ci capita di udirle, pronunciarle, leggerle, scriverle. Sospenderlo, questo ingombrante significato – annidato in profondità nel nostro punto di partenza –, per poterlo reincontrare in seguito, ri-formato dal nostro osservarlo a una spanna da terra. Sapendo che siamo noi ad attribuire alle parole ecologia e mente il significato che siamo abituati ad attribuirgli, in vista degli interessi che ci stanno a cuore, e non una qualche realtà presuntivamente oggettiva e uguale per tutti e per sempre – verrebbe quasi da dire: per motivazioni politiche, e non asetticamente cognitive.

Il significato di queste due parole di gran lunga prevalente nel senso comune della “tribù” cui apparteniamo è sovradeterminato, mi sembra di poter dire con una certa tranquillità, da quella separazione tra scienze del vivente e scienze della psiche – questa intesa come entità individuale specificamente umana –, che nelle nostre università è sancita da tradizioni disciplinari, intere biblioteche, scrupolose regole concorsuali e di finanziamento della ricerca, solidamente incorporate in opere murarie inequivocabilmente segreganti. Una segregazione frequentata nell’ordinario qui e ora dell’esperienza con una tale scontatezza che se qualcuno pensasse, che so, di definire l’ecologico attraverso il mentale, circolarmente, o viceversa, ignorando la fitta segnaletica che separa questi due mondi, verrebbe preso per strampalato assai.

Ebbene, è proprio questo che si è provato a fare Bateson: definire l’un termine attraverso l’altro, circolarmente. E passando infatti spesso per strampalato assai. Qualcuno, ebbe occasione di osservare, mi accusa di pensare come uno schizofrenico; e in effetti – riassumo qui per brevità – un po’ ha ragione, aggiungeva in tono compiaciuto, e con argomenti a lungo meditati sulle somiglianze tra il modo di pensare per metafore chiamato schizofrenico e quello, analogico, che innerva da oltre quattro miliardi di anni la storia del vivente (Bateson, 1980).

Non si tratta, si badi, di una mera operazione interdisciplinare, se con questo s’intende (come per lo più s’intende) la pratica di confronto o confluenza a valle tra diversi specialismi istituiti a monte come separati. Ma di un’operazione semmai trans-disciplinare, e insieme anche infra e meta-disciplinare, poiché per Bateson ogni processo conoscitivo mobilita, che lo si sappia o no, anche saperi non istituiti in disciplina scientifica e livelli del sapere che operano, come già dicevamo, attraverso modalità largamente o del tutto inconsapevoli, inaccessibili alla convenzionale ratio scientifica – saperi pratici, sapienziali, artistici, mitologici, sacro-religiosi…

 

Conclusione. Ecologico e/è mentale 

 

                                                                                                                     Se volete comprendere il processo mentale, guardate l’evoluzione biologica

                                                                                                                     e, viceversa, se volete comprendere l’evoluzione biologica, guardate il processo mentale.

                                                                                                                                                                                                                   Gregory Bateson

 

Non è forse vero che i nostri quasi-rifessi condizionati ci portano ad associare la parola ecologia all’idea di “natura”? Ovvero a quello che a noi occidentali moderni viene di chiamare con questo nome? Assumendo per lo più che esso indichi un insieme di “leggi” più o meno univoche, attingibili da quei saperi che noi chiamiamo, appunto, “naturalistici”? Presunte “leggi” che i saperi psicologici, o psico-antropologici, per parte loro, si troverebbero tra le mani già preconfezionate dagli studiosi dell’altra sponda? Magari assunti come fornitori delle “basi”, secondo una diffusa metafora biocentrica (basi biologiche, basi genetiche, basi neurali) per lo studio psico-antropologico del comportamento?

E non è forse vero che analoghi quasi-riflessi, complementari ai precedenti, ci portano ad associare la parola mente ai saperi psico-antropologici, separatamente intesi? E ancor più precisamente, a “qualcosa” che immaginiamo trovarsi dentro la scatola cranica, o comunque dentro l’epidermide, degli individui? E che dentro gli “individui” continuiamo a situare questo “qualcosa” anche quando miriamo “concedere” qualità mentali anche agli altri viventi?

A me pare che la risposta a queste domande, dando per scontate ovviamente le eccezioni, non possa essere che . Lo dico, per brevità, anche riflettendo sull’esperienza di decenni, ormai, di esperienze didattiche, formative e di ricerca che alla mia non più tenera età posso dire di aver avuto la fortuna di compiere. Osservando come sia sempre con queste idee di ecologia e di mente, l’una bio-centrica l’altra separatamente psico-centrica, che ci si inoltra nel guado che si diceva, cercando l’incontro con l’esigente epistemologia batesoniana.

Una volta nel guado, si può beninteso tornare indietro. E accade infatti spesso. Ma se interessa proseguire, la domanda diventa: cosa potrebbero mai richiamare, allora, queste due parole, di diverso dall’usuale, seguendo la “strampalata” epistemologia batesoniana? Sempre molto in breve, a me pare che si possa rispondere attraverso i due seguenti passaggi, circolarmente interconnessi:

– la parola ecologia, nell’opera batesoniana, richiama anzitutto l’idea di quella incessante e autogenerativa “danza di parti interagenti” di cui si diceva sopra, costituita da diversi livelli organizzativi reciprocamente dipendenti, da quelli più elementari fino a quelli più sofisticati, coinvolgente l’insieme planetario del mondo creaturale in evoluzione, dal suo primo germogliare sulla Terra fino ai nostri giorni, tempo dell’antropizzazione e della “tecnicizzazione” integrale del pianeta;

– tale “danza” va intesa come processo di ordine costitutivamente mentale, ovvero, nell’accezione di Bateson, capace fin dalle sue origini di auto-organizzazione e auto-correzione, ai suoi vari livelli, anche indipendentemente dalla presenza di una struttura cerebrale; come processo capace, per riprendere una bella locuzione piagetiana, di organizzare il mondo organizzando se stesso, non circoscrivibile agli esseri umani e non comprimibile all’interno degli individui, ma esteso all’insieme delle creature viventi e sempre anche transindividuale, inerente le autonome modalità auto-organizzative e auto-correttive operanti al livello delle diadi, delle triadi, dei branchi, dei gruppi, delle foreste, delle popolazioni, delle istituzioni, su su fino a quel livello globale cui diamo nome “pianeta”, comprensivo delle sue dotazioni tecnologiche.

Quando all’interno di questo processo ecologico/mentale complessivo è emersa la nostra specie, la sola geneticamente visionaria e iperaffettiva comparsa sul pianeta e poi sopravvissuta, va da sé che è comparsa una novità di vasta portata, tra i due estremi della creatività più sublime e della distruttività più cieca. Una novità giunta negli ultimi secoli, a partire da quel fazzoletto di mondo abitato da noi occidentali, a immaginare e tentar di realizzare il dominio per via tecnoscientifica del pianeta, in quella forma orgogliosamente unilaterale che Bateson, in uno dei suoi saggi forse più belli, paragona al folle proposito dell’alcolista di controllare, vanamente, e anzi con esiti via via più distruttivi, assurdamente opposti a quelli perseguiti in nome del “primato della finalità cosciente”, il demone della bottiglia (Bateson, 1971).

Ma non è tanto questa, o meglio non solo e non primariamente questa, diciamo “ambientalistica”, la “questione ecologica” che l’opera di Bateson ci porta, se ci interessa, tra le mani, quanto quella di apprendere a pensare, e insieme sentire, l’intero, incessante farsi e disfarsi delle dinamiche relazionali di cui siamo parte come un processo mentale, nel senso sopra brevemente richiamato, comunque più vasto. Ed è in questa precisa chiave di lettura, come anticipato sopra, che si può dire, ricorsivamente: ecologia è mente, mente è ecologia. E che Bateson può dire dell’ecologia della mente, confrontandola con la psicoanalisi freudiana, in una prospettiva non di opposizione ma di complementarietà: “La psicologia freudiana ha dilatato il concetto di mente verso l’interno, fino a includervi l’intero sistema di comunicazione all’interno del corpo […]. Ciò che sto dicendo dilata la mente verso l’esterno” (Bateson, 1972, trad. it. p. 502). Ovvero, verso l’insieme delle danze interattive, piccole e grandi, umane e non umane insieme, al fondo del tutto inconsapevoli, nelle quali ciascun individuo è trascinato fin dal suo embrionale affacciarsi ad esse. Fin dal punto di partenza.

 

 

 

Bibliografia

 

Bateson G. (1971), “La cibernetica dell’io. Una teoria dell’alcolismo”, in Id., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 2000, pp. 357-388.

Bateson G. (1978), “Innocenza, esperienza ed evoluzione, in Id., Una sacra unità. Altri passi verso un’ecologia della mente, a cura di R.E. Donaldson, Adelphi, Milano, 1997, pp. 408-422.

Bateson G. (1979), Mente e natura. Un’unità necessaria, Adelphi, Milano, 1984.

Bateson G. (1980), “Gli uomini sono erba. La metafora e il mondo del processo mentale”, in Id., Una sacra unità. Altri passi verso un’ecologia della mente, a cura di R.E. Donaldson, Adelphi, Milano, 1997, pp. 362-372.

Bateson G. (1991), “Ultima conferenza”, in Id., Una sacra unità. Altri passi verso un’ecologia della mente, a cura di R.E. Donaldson, Adelphi, Milano, 1997, pp. 454-463.

Bateson G, Bateson, M.C. (1987), Dove gli angeli esitano. Verso un’epistemologia del sacro, Adelphi, Milano, 1989.

Manghi (1990), Il gatto con e ali. Ecologia della mente e pratiche sociali, Milano, Feltrinelli, 1990,

Manghi S. (2002), “In wider perspective”, Foreword, in G. Bateson, Mind and Nature. A Necessary Unity, Hampton Press, Cresskill, NJ, pp. ix-xiii.

Manghi S. (2004), La conoscenza ecologica. Attualità di Gregory Bateson, Raffaello Cortina, Milano.

Manghi S. (2016), “Casa di vetro. Gregory Bateson, l’ecologia e il sacro”, in Dianoia, n. 23, a. XXI, pp. 347-379.

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