EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Taumaturgie

 

di Giacomo Dallari

 

Chi ritiene che le favole siano destinate solo ai bambini, rimarrà sorpreso.

Un’idea assai diffusa stabilisce un’incompatibilità tra il pensiero logico, tipico delle matematiche e strenuo difensore delle scienze “hard”, e l’immaginazione, figlia del pensiero sregolato e scomposto, disordinato per natura, privo di misura e, per alcuni, disonesto. Il primo, solitamente, è visto come freddo, costante e serio, impeccabile e senza macchia; il secondo è coinvolto, appassionato e complice del soggetto. Attenzione però: immaginare non significa procedere senza coerenza, non vuol dire in alcun modo pensare a caso senza una struttura. La favola, la fiaba e il racconto mitico, pur nelle loro differenze stilistiche e metodologiche, ne sono straordinari esempi.

Quando si ragiona sulla favola, quando si ha a che fare con il classico incipit “c’era una volta …”, si pensa immediatamente ad un pubblico di bambini, si ritiene che il loro contenuto, erroneamente, sia semplice, superficiale o, meglio ancora, adatto alla loro tenera età e alla loro naturale immaturità.  Certo, la letteratura per bambini propone una visione del mondo accogliente per le giovani menti e, nel farlo, utilizza escamotage stilistici che la rendono rapida e diretta, senza fronzoli, spensierata e leggera, di una leggerezza che riguarda la forma, ma quasi mai la sostanza. La sostanza, spesso, apre l’accesso al complesso che si cela dietro la realtà, quella vera, quella che “c’è adesso”,  che si staglia di fronte a noi come un dato di fatto, logico per definizione, analizzabile e quantificabile, misurabile e confrontabile.

L’immaginazione che nutre la favola e che la fa crescere forte, è una forma di coraggio intellettuale, un atto di audacia nei confronti dell’abitudinario e del consueto. Un’immagine oramai divenuta ingenua dell’infanzia, vede nel bambino il paladino dell’immaginazione, il cavaliere “armato” della forza immaginativa del sogno che è contemporaneamente scherzo e utopia, burla e complessità, beffa e serietà.

L’immaginazione è stata per molto tempo una sorta di linea di demarcazione, un confine tra l’infanzia e il mondo degli adulti: da una parte lo scherzo, le biglie e i pantaloni corti, le ginocchia scorzate, le mani zozze, i piedi scalzi e le unghie nere; dall’altra la camicia inamidata e le scarpe chiuse, i pantaloni lunghi e gli impegni sull’agenda, il tempo rinchiuso, ragionato e programmato giorno per giorno.

Certo, potremmo addentrarci in discorsi antropologici e profondi e arrivare alla conclusione, tanto banale quanto inevitabile, che oggi qualcosa sia accaduto nel mondo gioioso dell’infanzia e scoprire, con inutile sorpresa, che sono crollate definitivamente alcune convinzioni secolari circa l’infanzia. Potremmo addirittura giungere alla conclusione che stiamo vivendo in una sorta di epoca che, nonostante la straordinaria prolificazione di meccanismi commerciali a loro destinati, trascura l’infanzia quella vera, quella fatta di corse all’aperto, di interminabili partite a nascondino e di escoriazioni su tutte le estremità del corpo. Non c’è da stupirsi che oggi i bambini siano giunti a rassomigliare molto di più gli adulti di quanto si sia verificato nei secoli passati. Adulti e bambini sono uniti nel mercato, sono  soggetti che acquistano e consumano alla pari. Il ruolo dei bambini non è più quello di creature innocenti, speciali e uniche, ma di esseri che condividono, insieme agli adulti, gli inevitabili oneri della vita.

C’è chi, però, non si lascia scoraggiare di fronte a tutto questo e accetta la sfida che l’attuale società ci impone: la sfida del pensiero. E la filosofia, da sempre, ha accettato questa sfida, affrontando il senso comune con spirito critico, collegando eventi e oggetti in modo differente e difforme. In questo si cela una differenza che ancora oggi separa il mondo degli adulti da quello dei bambini: noi adulti, di fronte al mondo, abbiamo un atteggiamento di passiva accettazione che ci conduce o alla stasi del “così è” oppure ad una forma di critica superficiale che si concentra sulla forma ma, difficilmente, arriva al contenuto; i bambini, al contrario, sono ancora dotati di quella spinta conoscitiva che usa la passione per affrontare l’ovvio aprendo le porte alle alternative. Forse i grandi filosofi del passato hanno provato a fare questo e, proprio come i bambini, hanno tentato di coniugare la narrazione dei fatti con il suo aspetto argomentativo, la descrizione della realtà, con la sua possibile alterazione, mostrandoci modelli di mondo alternativi, un’idea di società e di umanità differenti. I bambini provano continuamente a mettere in discussione la realtà, a dare vita a visioni alternative di ciò che gli accade. Basta poco, a volte molto poco, per vedere un bambino catturato da una storia, che diventa avventura e che lo aiuta a decifrare il mondo, a sperimentare le sue abilità, anticipando così le richieste che un giorno si troverà a dover affrontare.

Tutta la letteratura per  bambini, quando prende forma per davvero, non evita le emozioni, non ne censura nessuna, non ignora la complessità e non la sottovaluta, anche se la descrive “truccata” da altro, come un personaggio: a volte è un drago, un lupo, un gatto parlante, una volpe, una fata, altre volte è un oggetto animato o un incantesimo.

Ermanno Bencivenga, logico, filosofo e saggista italiano di fama internazionale, ha tentato di individuare un punto di connessione e di contatto tra il mondo austero e chiuso della filosofia e quello dei bambini individuando, proprio nelle favole, uno strumento per combattere il cinismo con spirito costruttivo, facendosi carico di immaginare possibili alternative.  Il punto di partenza, ancora una volta, è la domanda, è il punto interrogativo che espropria il banale, scaccia l’ovvio e spalanca le porte all’inaspettato, al dissimile, all’inatteso e all’impensato. La domanda, prima ancora di ridursi a semplice richiesta, è una virtù da coltivare, da moltiplicare, una essenza che offre una modalità di analisi e di conoscenza che non ha necessariamente bisogno che venga soppressa dalla risposta. La domanda, proprio come nelle favole, sfida apertamente la rassicurante sicurezza della risposta, contrapponendosi al cinismo della realtà che, in molte occasioni, offre semplici scorciatoie che noi cominciamo a percorrere sovrappensiero e meccanicamente, sacrificando la nostra passione conoscitiva ad un rassicurante bisogno di certezze.

«Per i bambini – come scrive Pierre Bourdieu nelle sue Meditazioni pascaliane – domandare è gioia, è meraviglia e per Platone il mestiere dei filosofi consiste nel giocare seriamente, esattamente come fanno i bambini»[1]. Pubblicando le sue favole filosofiche, Bencivenga difende strenuamente l’istinto filosofico partendo proprio dai bambini, che sono naturalmente filosofi, inclini alla curiosità, appassionati e impertinenti, a volte dispettosi e arroganti, ma sempre tracotanti di vitalità e di desiderio. Se il mondo degli adulti, pur nella conoscenza e nella maturità, riuscisse a recuperare alcuni tratti infantili e immaturi, il conformismo avrebbe vita difficile e la banalità avrebbe un nemico contro cui scontrarsi. Potremmo essere come il famoso “Numero Quattro” delle favole di Bencivenga che, stanco di essere pari, banale e insipido, voleva a tutti costi essere dispari e che di fronte al Grande Matematico, conosce la sua vera essenza. E allora scopre non solo di non essere banale, ordinario e mediocre, ma addirittura di essere unico e irripetibile essendo il frutto della somma di due più due, ma anche della moltiplicazione di due per due e di essere, addirittura la potenza di due. «Questo è un fatto del tutto straordinario – dice il Grande Matematico – Tre più tre non è anche tre per tre e tanto meno tre alla terza! E poi tu che tanto ammiri il tre, non ti rendi conto che esso è già dentro di te , perché è vero che tu sei due più due, ma è anche vero che sei tre più uno, i primi numeri dispari di tutta un’infinita catena di numerica»[2].

Più che di risposte, forse, abbiamo bisogno di suggerimenti, di  sussurri che, a discapito di quello che si può comunemente pensare, possono scacciare il frastuono. Sono queste le indicazioni del filosofo italiano per condurre una vita appassionata, fatta di fantasia, che non è puro divagare, ma coraggio intellettuale.

Oggi che tra il mondo dei bambini e quello degli adulti sembra non esserci una differenza sostanziale, in una quotidianità dove le domande meravigliate dei bambini sono sempre più spesso fastidiosi rumori che spezzano la regolarità della vita adulta, le favole, proprio come la filosofia, possono riportarci ad una condizione di purezza intellettuale che si nutre di sguardi e di punti di vista e che ci esorta a ripensare e mettere in discussione i nostri punti di vista e i nostri pregiudizi.

Proprio come diceva Aristotele: «Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia»[3]. Ed è proprio la meraviglia, quella che anima i bambini, che ci invita a soffermarci sulle cose, gli oggetti e le persone. La favola, che si anima di innocenza e di leggerezza, apre le porte all’universo filosofico e ci aiuta a ragionare sui piccoli e i grandi perché dell’esistenza. I protagonisti delle favole, proprio come i filosofi, non sanno dove sia la verità, non conoscono la strada sicura che conduce alla salvezza, ma la rincorrono e la cercano con caparbietà e ostinazione scoprendo, attraverso la pratica del dubbio, il mondo e loro stessi.

 

Bibliografia

P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane, Feltrinelli, Milano, 1998.

E. Bancivenga, La filosofia in trentadue favole, Oscar Mondadori, Milano, 1997. Il libro è stato riedito in edizioni aumentate a quarantadue, cinquantadue, sessantadue e ottantadue favole rispettivamente nel 2007, 2011, 2014 e 2017.

G. Reale, Introduzione, traduzione e commento della Metafisica di Aristotele, Bompiani, Milano, 2004.

 

[1] P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane, Feltrinelli, Milano, 1998, p.78.

[2] E. Bencivenga, La filosofia in quarantadue favole, Oscar Saggi Mondadori, Milano, 2007, p.10-11.

[3] Aristotele, Metafisica, I, 2, 982b, trad. Giovanni Reale.

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