di Gerolamo Sirena
Emil Cioran è stato uno dei pensatori più originali dello scorso secolo. La sua opera sfugge alla categorizzazione di chi lo indica ora come un filosofo, ora come un letterato. La sua “filosofia” è antisistemica, la sua cifra letteraria è aforistica. Lui non avrebbe, probabilmente, gradito nessuna delle due indicazioni. Nato nel 1911 in Romania, nella Transilvania di cultura asburgica, visse a Berlino e successivamente fino alla morte, nel 1995, a Parigi. La sua fama, specie in Italia, è andata crescendo di pari passo con l’interesse per il nichilismo, una categoria concettuale, a dire il vero, piuttosto vaga che però, fatta coincidere con la Götterdämmerung nicciana e il pessimismo leopardiano, ha dato un’impronta di riconoscimento ad un pensiero refrattario alle accomodanti metafisiche.
Sia detto che attribuire a Cioran l’aura del nichilista confina l’autore nel topos improprio di chi si vota a officiante del decadentismo e della dissoluzione. Niente di meno vero. Cioran appartiene ad una generazione di raffinatissime intelligenze, per lo più compatriote come Constantin Noica, Nae Ionescu, Eugene Ionesco, Mircea Eliade e Petre Tutea. Nessuno di loro riteneva il nichilismo una chance, nemmeno Cioran, la cui proverbiale “amarezza” non si sottraeva alla “tentazione di esistere”.
Petre Tutea, l’amico con cui partecipa alla “Generazione Criterion”, compie un percorso antitetico a quello di Cioran e, dall’amarezza per gli eventi della storia che fanno precipitare la Romania nel tristemente noto regime dispotico, pur gravato da una lunga prigionia, trova il suo destino nel cristianesimo ortodosso. Poco importa, per l’epistolario che qui presentiamo, quali differenti destini avranno i nostri autori, quanto invece importa quel che resiste nell’insopprimibile necessità del legame.
Certo lo spirito che pervade l’intera opera di Cioran, in una sorta di percorso chenotico, giunge al parossismo imposto dalla malattia; paradossalmente, sarà la morte a restituire a Cioran, attraverso lo studio appassionato e amorevole dei suoi estimatori, un senso pieno, anzi denso a quello svuotamento. L’insonnia dello spirito occupa poche pagine, restituendo un epistolario che testimonia quanto Cioran abbia dovuto pagare il disincanto, o meglio sarebbe dire il discanto, della lucidità.
Interlocutore in questo epistolario, curato da Antonio di Gennaro con la garbatezza di chi è consapevole della fragilità umana che vi è implicata, è Petre Tutea, l’amico più fraterno di Cioran, di quella fatta di amici con i quali cade ogni velo narcisistico e ai quali affidiamo le infinite sfumature della nostra vergognosa umanità.
Nel leggere questo carteggio incontriamo un “altro” Cioran, quasi spoglio della pugnace, caustica ironia, cifra stilistica del suo pensiero (solo apparentemente) nichilista; alterità dialogica che, grazie a Tutea, restituisce a Cioran il tratto identitario del suo differire da se stesso, ad esempio del suo “sentirsi” austro-ungarico, tratto marcatamente immaginario ma mai ripiegato sulle logiche alias che sviliscono la contemporaneità”.
Questo epistolario è un tenersi sulla via della memoria, un in-viare alla reciproca accoglienza di due destini tanto diversi eppur consonanti nelle virtù che contano: umiltà, generosità, indulgenza. Nello “Spirito” e della sua “insonnia” torna il tema dell’origine che ha, nella definizione dei luoghi fisici (la Transilvania, piuttosto che Parigi o il carcere dove fu imprigionato Tutea), il sembiante di un luogo senza fine, un’eredità “comune” a Cioran quanto a Tutea, in grado di mantenere vivo un legame pur nell’ inappartenenza a un “comune” destino. E’ nell’insonnia che non tramonta lo spirito di quel legame ed appartiene all’insonnia quell’eccedenza che rende, in qualche modo, i due interlocutori intangibili e proprio per questo non addomesticabili, inadeguati a qualsiasi luogo finito, a qualsivoglia “posto”.
Vien da pensare che lo “sconforto” di Cioran e la “conversione” di Tutea siano le figure di quell’eccedenza in cui l’uno accoglie l’altro accompagnandosi nel viaggio dello spirito. Un’apologia involontaria, perciò vera, dell’ospitalità che ha reso Cioran e Tutea più che fratelli.
C’è poco da fare, l’amicizia rimane quell’affetto in grado di liberare dalle catene dell’esilio quanto del cielo; l’ingovernabile è la sua cifra, non ci si può dormire sopra. Cioran e Tutea, in ogni lettera il loro momento! Qualche volta il sentore della nostalgia, retaggio balcanico dell’interminabile della loro amicizia.
Lettere che attraversano l’Europa, attraversano la storia, giungono a destinazione come al finis terrae delle fiabe ma volgono lo sguardo oltre l’abisso del guardarsi guardare e scorgono mutevoli paesaggi dell’anima con tutta la loro enigmaticità.
Infine, pare quasi di vederli, Tutea e Cioran, che si stringono la mano come ai tempi in cui l’amicizia era fatta di gesti densi di rispetto e di sincera intimità. Poi ancora un momento, le mani sciolgono la presa e qualcosa di eterno si scrive.
Antonio di Gennaro (a cura di)
Emil Cioran, L’insonnia dello spirito.
Lettere a Petre Tutea (1936-1941)
Mimesis Minima/Volti
Milano 2019