EXAGERE RIVISTA - Ottobre - Novembre - Dicembre 2024, n. 10-11-12 anno IX - ISSN 2531-7334

Teorie dell’Io

di Gianfranco Pecchinenda

Riflessioni a partire dal volume di J. LeDoux, I quattro mondi dell’uomo. Una nuova teoria dell’io, Raffaello Cortina, Milano 2024

  1. L’Io è le sue sinapsi

Joseph LeDoux, uno dei più importanti neuroscienziati contemporanei, attualmente direttore del Center for the Neuroscience of Fear and Anxiety di New York, riprende e sviluppa in quest’ultimo saggio il suo storico progetto dedicato ad analizzare come il senso di identità degli esseri umani possa scaturire dai suoi neuroni.

Già oltre vent’anni fa, ne Il Sé sinaptico, una delle opere fondative della ricerca sul rapporto tra identità e cervello, LeDoux scriveva:

Cartesio era nel giusto quando pensava ai processi mentali inconsci in termini fisici; tuttavia, commetteva un errore nel concepire la coscienza come non fisica. Il fatto che i meccanismi cerebrali sottesi all’esperienza conscia non siano ancora stati spiegati non significa affatto che essi rimarranno oscuri per sempre. In realtà, la ricerca più recente ha cominciato a compiere qualche progresso nella comprensione dei meccanismi cerebrali della coscienza[1].

Il contributo che lo stesso LeDoux ha provato a fornire nel corso della sua successiva ricerca dedicata a questo tema, è sempre stato prevalentemente orientato nella direzione tracciata nelle righe appena citate: quella di provare a spiegare i meccanismi biologici attraverso cui il cervello sostanzia e rende possibile i nostri “Io”. Rispondendo alle numerose critiche ricevute per il suo approccio ritenuto eccessivamente “materialista”, LeDoux ha più volte replicato che una tale idea, più che sminuire l’immagine e la qualità del nostro essere “umani”, dovrebbe a suo avviso essere considerata una semplice e plausibile spiegazione di come sia possibile il pacchetto di protoplasma psico-spirituale e socioculturale, enormemente complesso, che chiamiamo il nostro Sé[2].

La questione fondamentale che, a suo avviso, dovrebbe animare la ricerca neuroscientifica è insomma la seguente: come fanno la ghiandola pineale, le connessioni sinaptiche, o una qualunque determinata area del cervello, a rendere una coscienza quella che è? Come ha origine l’autocoscienza?

Per la verità, nel corso degli anni, è stato sempre lo stesso LeDoux – dimostrando in tal senso, oltre ad una sicura onestà intellettuale, anche una manifesta volontà di apertura alle scienze umane e sociali – a suggerire un possibile percorso da seguire:

Per comprendere la coscienza dobbiamo ancora spiegare in che modo gli apparati cerebrali sottesi a pensiero, emozione e motivazione (la trilogia mentale) si sviluppino sotto l’influenza della natura e della cultura, e in che modo questi sistemi ci consentano di gestire, percepire, apprendere, memorizzare e rievocare le esperienze. In particolare, avvertiamo la necessità di spiegare in che modo sistemi diversi interagiscano e s’influenzino reciprocamente. In assenza di tali interazioni, e senza l’integrazione mentale che esse producono, ciascuno di noi sarebbe soltanto una collezione di funzioni mentali più che una persona coesa[3].

Durante il suo lungo percorso di ricerca, le sue indagini si sono in seguito estese anche alla storia evolutiva dei viventi, ricostruita in un approfondito saggio con cui questo studioso ha inteso esplorare i quattro miliardi di anni di evoluzione per comprendere “come eravamo” e “come siamo diventati” umani.

  • Una lunga storia

Si tratta della titanica impresa di ricostruire “la lunga storia” dell’evoluzione della coscienza a partire dal modo in cui gli organismi più semplici hanno usato il comportamento per soddisfare gli stessi requisiti di sopravvivenza, fino ad arrivare agli esseri umani[4]. La tesi di questa ricerca, in estrema sintesi, è che il linguaggio, la cultura, la capacità di pensare e ragionare e la capacità di riflettere su chi siamo”, per quanto rappresentino una novità assoluta e rivoluzionaria nella storia dell’evoluzione, abbiano radici profonde che risalgono agli albori della vita.

Al di là di tale questione, il monumentale lavoro di LeDoux è risultato particolarmente utile anche per introdurre un’altra serie di temi di assoluta centralità nell’ambito del dibattito relativo alla scienza della coscienza e al suo possibile rapporto con altre discipline umanistiche.

Innanzitutto, come ogni neuroscienziato che si rispetti, egli comincia ribadendo la sua posizione di vent’anni prima, che resta a suo dire incontrovertibile: l’essenza di chi siamo dipende dal nostro cervello.

Il cervello – egli scrive – ci permette di pensare, di provare gioia e dolore, di comunicare attraverso la parola, di riflettere sui momenti della nostra vita e di anticipare, pianificare e preoccuparci del futuro che immaginiamo[5].

Tuttavia, la diffusa tradizione secondo cui, al fine comprendere la nostra psicologia e, soprattutto, l’emergere della nostra coscienza, si debba guardare ai cervelli di altre specie animali e in particolare ai mammiferi e agli altri vertebrati, sarebbe secondo LeDoux una strategia sbagliata. Sarebbe un po’ come voler cercare di capire la storia dei computer digitali partendo dai primi dispositivi apparentemente simili ai computer di oggi: Commodore, Apple e Personal Computer IBM della fine degli anni Settanta.

A suo parere, per comprendere davvero le complesse funzioni psicologiche dei nostri cervelli, dovremmo invece prendere in considerazione la storia più profonda, andando alle radici della vita stessa, fino agli antichi microrganismi unicellulari. Questi ultimi, pur non avendo un sistema nervoso, né tantomeno un cervello, hanno comunque messo in atto comportamenti tesi a risolvere i problemi fondamentali della sopravvivenza, trasmettendo attraverso i millenni la loro soluzione a tutti gli organismi successivi.

Una delle questioni chiave da cui prendeva spunto l’opera di LeDoux era dunque proprio questa: studiare il comportamento umano non in quanto strumento della mente ma, soprattutto, come strumento di sopravvivenza organica. La connessione del comportamento con la vita mentale sarebbe, come la vita mentale stessa, soltanto una tappa di passaggio frutto del nostro portato evolutivo.

Per apprezzare veramente il modo in cui il nostro cervello ci fa essere quello che siamo – è una delle sue ipotesi principali – dobbiamo capire le strategie di sopravvivenza che sono state messe in atto in antichi organismi unicellulari, conservate in forme di vita primitive multicellulari, recepite da cellule specializzate, dette neuroni, quando nei primi invertebrati si è sviluppato il sistema nervoso, per essere poi mantenute nel sistema nervoso degli invertebrati antenati dei vertebrati, e successivamente usate dall’uomo e da tutti gli altri animali nella loro vita quotidiana, indipendentemente dal livello di semplicità o complessità del loro corpo[6].

  • I diversi mondi dell’Umano

Riprendendo il filo di queste stesse tematiche, nel recentissimo I quattro mondi dell’uomo LeDoux si è quindi dedicato ad approfondire ulteriormente il quadro generale di riferimento relativo al processo attraverso cui noi umani “siamo diventati quello che siamo” oggi. Allo stato attuale del dell’evoluzione – egli sostiene – ci troviamo di fronte a quelli che, schematicamente, possono essere definiti quattro diversi “mondi di esistenza”, ovvero: quello biologico, quello neurobiologico, quello cognitivo e quello cosciente. Tali mondi dell’esistenza umana sarebbero tutti attualmente co-presenti e tra loro strettamente interdipendenti.

Per illustrare tale interdipendenza, LeDoux propone il seguente esempio. Consideriamo il caso – egli scrive – di una qualunque esperienza cosciente (appartenente, cioè, al quarto mondo di esistenza da lui teorizzato).

Ogni evento di questo tipo è preceduto e permesso da un’elaborazione cognitiva non cosciente, o più precisamente precosciente. E sia la coscienza, sia la cognizione dipendono dall’attività neuronale sottostante. A sua volta, l’attività neuronale richiede che le cellule del cervello impieghino le proprie capacità metaboliche per produrre energia. Il metabolismo richiede che i prodotti della digestione (nutrimento) e della respirazione (ossigeno) siano pompati al cervello dal cuore attraverso il sistema circolatorio. Ma la consegna delle sostanze nutritive nel corpo richiede comportamenti di ricerca del cibo controllati dal cervello, e questi comportamenti dipendono, a loro volta, dal metabolismo del corpo. Spesso in animali come noi la cognizione e, in alcuni casi, la coscienza sono coinvolte nel pianificare cosa mangiare, dove ottenerlo e quando consumarlo. E ogni processo coinvolge ciascuno dei nostri mondi di esistenza gerarchici[7].

  • La questione della complessità

Partendo, dunque, dall’idea secondo cui tutti gli organismi, indistintamente, non sarebbero altro che sistemi viventi sostenuti da un costante interscambio tra una chimica interna e una chimica esterna, Joseph LeDoux distingue più specificamente il livello biologico originario da quelli cronologicamente successivi, basandosi sulla necessità evolutiva che gli organismi hanno avuto di dover aumentare la complessità legata alla gestione del controllo comportamentale non cognitivo e non consapevole, passando successivamente per un livello cognitivo che regola un controllo comportamentale cognitivo ma non cosciente, e infine un livello consapevole, che governa un controllo comportamentale sia cognitivo sia cosciente.

Quando si affronta il concetto di coscienza, tuttavia, è sempre opportuno distinguere – avverte al contempo lo stesso autore – tra una coscienza cosiddetta di sistema e una coscienza mentale.

La prima è riferita a uno stato di esistenza in cui un organismo è vivo, in stato di veglia e predisposto a rispondere con il comportamento a eventuali stimoli ambientali. Tale stato di coscienza dipende sostanzialmente dal metabolismo (per la sopravvivenza biologica) e dalle funzioni viscerali del sistema nervoso che, alimentando le funzioni neurobiologiche, consente l’esistenza cognitiva e l’eventuale emergere della coscienza mentale.

Questo secondo genere di coscienza è riferito, invece, alla capacità che l’organismo ha di esperire il mondo e la propria relazione con esso. Ciò che caratterizza e definisce questo stato mentale sono i contenuti di ciò che viene esperito. Tali contenuti, a loro volta, sono alimentati da diversi sistemi cerebrali che elaborano le informazioni in modo inconsapevole: i sistemi sensoriali, motori, mnestici e cognitivi. Inutile aggiungere che l’emergere della coscienza mentale sarebbe impossibile se non fosse preceduta da una coscienza di sistema.

È importante notare, per inciso, una significativa distinzione introdotta ancora da LeDoux tra un tipo di comportamento che prevede l’intervento di una mente cognitiva (che a sua volta precede l’emergere della mente propriamente cosciente), e comportamenti il cui controllo non prevede alcuna capacità cognitiva. Il criterio che consente l’emergere della cognizione è a suo parere legato all’esistenza di configurazioni schematiche e, più precisamente, alla “capacità di impiegare rappresentazioni interne dell’informazione per costruire modelli mentali del mondo”.

Detto più esplicitamente, insomma, LeDoux sostiene che per distinguere il controllo comportamentale cognitivo da quello non cognitivo, il criterio fondamentale sia la capacità di impiegare rappresentazioni interne dell’informazione per costruire modelli mentali del mondo.

  • Modelli mentali e coscienza autonoetica

Su questo aspetto, LeDoux propone l’idea secondo cui, per spiegare i diversi tipi di esperienza cosciente, bisognerebbe fare necessariamente riferimento ai diversi tipi di memoria implicati.

La memoria a lungo termine, come è noto, viene generalmente suddivisa in memoria esplicita e implicita. La prima – ad esempio la memoria semantica – è formata da ricordi prodotti e archiviati linguisticamente o con altri riferimenti simbolici, che possono poi essere recuperati nella memoria di lavoro e quindi esperiti in modo cosciente. I ricordi impliciti – come, ad esempio, la memoria procedurale che ci consente di andare in bicicletta godendo di una conoscenza immagazzinata in una serie di gesti “non consapevoli” – vengono invece stoccati, recuperati e poi espressi attraverso risposte corporee non verbali.

Nel primo caso, siamo di fronte a conoscenze fattuali e concettuali che ritroviamo alla base della formazione di quegli schemi o modelli che costituiscono un elemento strategico fondamentale per l’organizzazione della nostra esperienza cosciente.

Oltre a tale memoria “schematica”, esiste tuttavia anche un tipo di memoria più personale, che riguarda le nostre esperienze coscienti e che rende possibile un’ulteriore suddivisione tra una memoria semantica e una memoria cosiddetta episodica.

Una tale distinzione risulta essenziale per poter a sua volta proporre un’ulteriore divisione tra un tipo di coscienza definita noetica e una autonoetica. Gli stati di coscienza noetici – spiega LeDoux – hanno un contenuto mentale basato su concetti e fatti semantici (che spesso comprendono schemi o templates concettuali che attribuiscono un significato agli oggetti e alle situazioni di cui facciamo esperienza). Gli stadi di coscienza autonoetici, invece, hanno un contenuto mentale episodico in cui siamo “noi” l’entità che ha vissuto l’esperienza.

In altri termini, il primo tipo di coscienza si presenta attraverso una conoscenza fattuale (inclusa una conoscenza concettuale); il secondo presuppone un tipo di esperienza associata inestricabilmente con una conoscenza personale di chi noi siamo.

Per esempio, possiamo imparare fatti semantici riguardanti la Grecia leggendo un libro di viaggi seduti in poltrona a preparare l’itinerario verso questa regione. Ma ben altra cosa è vivere quella cultura in prima persona. Quando ci succede, formiamo ricordi che hanno un contenuto specifico. E quando li recuperiamo, includono un timbro del luogo dove noi eravamo, un timbro del tempo di quando noi eravamo là, e persino un timbro degli eventi relativi a cosa noi abbiamo visto e fatto e a chi era con noi. Il dove, il quando e il cosa sono componenti essenziali della cosiddetta memoria episodica[8].

La coscienza autonoetica – conclude LeDoux su tale questione – può a tutti gli effetti essere considerata una specie molto particolata e raffinata di creazione di modelli mentali.

Mentre il comportamento “non cognitivo”, egli chiarisce, è di carattere retrospettivo (poggia cioè su circuiti ereditari o associazioni tra stimoli appresi in passato), il controllo cognitivo fondato sulla memoria di lavoro è invece prospettico (ovvero proiettato al futuro e fondato sull’immaginazione o simulazione di soluzioni possibili, ma non ancora verificatesi nel mondo reale).

In altre parole, la cognizione è un insieme di processi cerebrali che trascendono il semplice apprendimento per prove ed errori e che consentono all’organismo di simulare mentalmente l’efficacia di azioni alternative, senza dover rischiare la vita o un arto. Questi processi, che sono radicati nella memoria di lavoro, costruiscono modelli mentali impiegando rappresentazioni interne basate sulla memoria a lungo termine – inclusi gli schemi – per fare predizioni quando percepiamo, prestiamo attenzione, ricordiamo, riflettiamo, decidiamo, proviamo sensazioni e agiamo nel mondo, o quando immaginiamo cose inesistenti e cerchiamo di capire chi siamo[9].

Tali simulazioni all’interno dei modelli mentali – va da sé – possono essere elaborati sia consapevolmente, sia inconsapevolmente.

Ed è a questo proposito che LeDoux riprende e ribadisce la sua tesi su ruolo determinate delle narrazioni nel processo di formazione della coscienza umana. Sarebbero proprio le narrazioni. derivanti da un modello mentale non cosciente ciò che consente l’emergere della nostra comprensione autonoetica di chi noi siamo. Narrazioni che però, se vogliamo avanzare una critica a tale approccio, appaiono nella sua teoria poco attente all’importanza della relazione con gli altri.

  • Il mentalese e la narrazione della coscienza

E sempre a proposito di tali questioni, LeDoux introduce nella parte conclusiva del suo lavoro il concetto di mentalese, ovvero di quel linguaggio interno attraverso cui la coscienza costruisce le narrazioni personali. Si tratterebbe di storie la cui funzione fondamentale sarebbe quella di collegare i vari aspetti dell’esistenza, fornendo loro coerenza, senso e significato. Secondo l’autore, una tale prospettiva potrebbe fornire nuovi spunti per riflettere e studiare la coscienza, intesa come una complessa mescolanza di modelli mentali sia coscienti che inconsapevoli.

In conclusione, LeDoux sembra voler precisare in quest’ultima sua fatica come la sua posizione sul rapporto tra emergenza e costruzione del Sé si sia profondamente trasformata con il trascorrere del tempo, assumendo una direzione che mi pare si possa considerare in linea con quanto sostiene una certa sociologia fenomenologica.

Mentre in precedenza LeDoux tendeva ad abbracciare una concezione del come qualcosa che esiste al di sopra dei fenomeni (organici e neurocerebrali) sottostanti che lo costituiscono, adesso egli confessa di vedere le cose diversamente. “Io credo – egli scrive – che il mistero di cos’è il Sé svanirebbe se fosse considerato un’astrazione descrittiva su un individuo e non un’entità interna all’individuo che fa delle cose per il resto di quell’individuo” [10].

Al di là delle molteplici ipotesi che si potrebbero sviluppare a partire da una tale ipotesi, mi pare importante e più utile ritornare in conclusione sulla tematica di fondo relativa al rapporto tra coscienza e cervello, sottolineando il fatto che, così come non si può evitare di ammettere – con LeDoux e numerosissimi altri autorevoli neuroscienziati – che il nostro cervello sia indispensabile per consentirci di pensare, provare gioia e dolore, comunicare attraverso la parola, immaginarci il passato e, soprattutto, il futuro, è allo stesso modo necessario anche non dimenticare come non sia “il cervello” in quanto tale a pensare, a provare gioia e dolore, a comunicare attraverso la parola o a progettare eventi futuri.

Un cervello, infatti, non pensa, prova dolore o piacere.

È sempre e comunque un Io (o, se vogliamo, “una coscienza che dice Io”) a vivere tali esperienze puramente soggettive.

Certo, il cervello è indispensabile, ma non lo è più del corpo in cui esso stesso è incarnato o del contesto sociale (gli “altri” con cui inevitabilmente interagisce) in cui tale “cervello incarnato” è situato. Insomma, nessun cervello, di per sé, potrà mai diventare autonomamente cosciente.

Non a caso la coscienza continua a rimanere il vero problema irrisolto, la vera “sfida” di ogni approccio scientifico finalizzato allo studio del cervello in relazione al comportamento umano.

Al di là, insomma, di ogni possibile elucubrazione scientifica sulle Teorie dell’Io, è sempre utile ricordare la sentita raccomandazione del filosofo statunitense Alva Noë[11], secondo cui il miglior punto di partenza per affrontare il tema della coscienza resta sempre e comunque quello di smettere di guardare dentro al nostro cervello (o in qualunque altro anfratto della nostra corporeità o interiorità), per volgere invece lo sguardo alle relazioni.

Insomma, sforzarsi di osservare imodi in cui ciascuno di noi, nella sua interezza, porta avanti la propria vita in relazione al mondo che lo circonda, con esso e in risposta a esso. E questo proprio perché il soggetto dell’esperienza, non è una parte del nostro corpo e noi non siamo il nostro cervello.

È il cervello, piuttosto, ad essere una parte di ciò che noi siamo.


J. LeDoux

I quattro mondi dell’uomo. Una nuova teoria dell’io,

Raffaello Cortina 2024


[1] J. LeDoux, Il Sé sinaptico, Raffaello Cortina, Milano 2002, p. 17.

[2] Ivi, p. 18.

[3] Ivi, pp. 45-46.

[4] LeDoux, Lunga storia di noi stessi, Raffaello Cortina, Milano 2020

[5] Ivi, p. 31.

[6] Ivi, p. 34

[7] LeDoux, I quattro mondi dell’uomo, cit., p. 63.

[8] LeDoux, I quattro mondi dell’uomo, cit., pp. 275-276.

[9] Ivi, p. 183.

[10] J. LeDoux, I quattro mondi dell’uomo. Una nuova teoria dell’io, Raffaello Cortina, Milano 2024, p. 39.

[11] A. Noë, Perché non siamo il nostro cervello. Una teoria radicale della coscienza, Raffaello Cortina, Milano 2010.

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