di Gianfranco Pecchinenda
Riflessioni a partire da Galit Atlas, L’eredità emotiva. Una terapeuta, i suoi pazienti e il retaggio del trauma, Raffaello Cortina, Milano 2022
Un individuo si definisce altrettanto, e a volte di più, mediante ciò che gli sfugge che mediante ciò che conosce.
(Simone de Beauvoir)
L’io che parla si distanzia dall’io vissuto come ogni frase dall’esperienza da cui emana.
(Jean-Paul Sartre)
Raccontare vuol dire sostituire alla fluida ambiguità del vissuto i contorni definiti delle frasi … ben sapendo però che le immagini suggerite dalle parole sono cangianti e sfumate e l’informazione che esse comunicano non sempre sono così nettamente circoscritte.
(Simone de Beauvoir)
Reti di storie
Secondo una definizione di senso comune, ogni essere umano avrebbe una sua storia. Volendo assumere una prospettiva scientificamente più attendibile, sarebbe forse più corretto affermare che ogni essere umano, più che avere una storia, è egli stesso una storia.
Il fenomenologo tedesco Wilhelm Schapp sosteneva inoltre, a tal proposito, che ogni essere umano andrebbe definito non tanto dalla sua storia, rispetto alla quale egli non sarebbe empiricamente neppure distinguibile, ma dalle reti di storie a cui la sua storia sarebbe inestricabilmente intrecciata.
La vita di una persona, insomma, diversamente da quanto comunemente si crede, non inizia con la sua nascita, né termina con la sua morte; la vita è un processo permanente, come pure l’analisi delle storie di quella stessa vita.
Questa premessa, che trovo teoricamente ineccepibile, ci aiuta a collocare il recente lavoro della psicoanalista newyorkese Galit Atlas, intitolata “L’eredità emotiva”, all’interno di un ampio movimento culturale che da oltre un secolo si sforza di contribuire alla conoscenza del comportamento umano cercando di arricchire il metodo classico delle discipline scientifiche con quello di discipline che, pur non rispettando appieno i cosiddetti canoni scientifici, proprio partendo dall’analisi di storie narrate (biografiche o autobiografiche, documentate o di finzione, con fini artistici o terapeutici) riescono a fornire idee e stimoli teorici assai originali e talvolta indispensabili.
L’incipit con cui Galit Atlas apre il suo saggio possiede la sempre apprezzabile qualità della sintesi: “Tutte le famiglie – scrive – sono segnate da qualche storia traumatica. Ogni trauma è conservato all’interno di una famiglia in maniera unica e lascia il proprio marchio emotivo su quelli che ancora non sono nati”.
Riferendoci all’arcinoto “principio di Anna Karenina” secondo cui “tutte le famiglie felici si somiglierebbero”, mentre “ogni famiglia infelice sarebbe invece infelice a modo suo”, potremmo considerare l’incipit della Atlas come un deciso passo in avanti nella conoscenza delle più oscure motivazioni della condotta umana: Se tutte le famiglie (quelle felici come quelle infelici) “sono segnate da qualche storia traumatica”, allora viene da pensare che l’elemento discriminante per cui le famiglie “infelici” avrebbero un modo tutto particolare di esserlo, dipenderebbe, seguendo la Atlas, dai tessuti narrativi con cui i suoi membri sono in grado di intrecciare il proprio vissuto, coltivando il marchio emotivo che caratterizza la loro storia per trasmetterlo da una generazione all’altra.
Il libro della Atlas ha infatti come oggetto proprio le “esperienze nascoste” che appartengono non soltanto a noi, bensì anche ai nostri genitori, nonni e bisnonni, descrivendo il modo in cui esse impattano sulle nostre vite al punto tale da consentirci di poter affermare, in conclusione, che è la vita segreta e non analizzata di coloro che ci hanno preceduto quella che ognuno di noi finisce per vivere. “Questi segreti – scrive la Atlas – che spesso ci impediscono di esprimere tutte le nostre potenzialità, condizionano la nostra salute fisica e mentale, creando discontinuità tra ciò che desideriamo per noi stessi e quello che siamo in grado di ottenere, perseguitandoci come fantasmi.”
La letteratura e i nostri fantasmi
Il riferimento a Tolstoj può essere inoltre utile anche perché ci consente di ricollegarci alle fonti letterarie principali sull’argomento cui attinge l’intero immaginario che ha caratterizzato la cultura occidentale novecentesca, i movimenti artistici come quelli scientifici, nonché la teoria psicoanalitica stessa.
Émile Zola, padre di quella corrente letteraria che, come è noto, tendeva a spiegare i comportamenti umani sulla base dell’ambiente storico ed ereditario, dava alle stampe nel 1890 un romanzo in cui il protagonista, dopo aver cercato di strangolare una donna, giustificava il proprio comportamento usando le seguenti parole: giunse a pensare di stare pagando per gli altri, per i padri, per i nonni che avevano bevuto, per quella generazione di ubriaconi da cui aveva ereditato il sangue viziato, un lento avvelenamento, una ferocia che lo trasformava in un lupo che sbrana le donne nell’oscurità dei boschi (E. Zola, La Bestia Umana).
In questa, come in molte altre opere tipiche del naturalismo, veniva sviluppata la tesi secondo cui la condotta può talvolta essere dettata da pulsioni incontrollabili, inconsapevoli e, soprattutto, legate ad una vera e propria «fêlure héréditaire». Si trattava di romanzi sperimentali che, sappiamo, ambivano ad elevare la letteratura, e ogni discorso sull’uomo, al rango delle scienze positive.
Anche se, come spiegava Popper, la psicoanalisi non è mai assurta al ruolo di una vera e propria scienza, va dato atto agli autori più sensibili che hanno fatto la storia di questa disciplina di essere stati in grado di cogliere e mettere a frutto una delle più acute intuizioni del suo padre fondatore: quella di spalancare le porte ai possibili contributi che l’arte e la letteratura hanno apportato allo studio della mente umana. In un celebre saggio del 1908, Der Dichter und das Phantasieren (Il poeta e la fantasia), Freud utilizzava il termine Dichtung come sinonimo di opera o creazione letteraria. L’autore stesso riconosceva che in questo testo egli intendeva insistere soprattutto sulla produzione dei fantasmi. A partire dal sogno, dal gioco infantile e passando per la reverie diurna e fantasmatica della vita psichica ordinaria degli uomini, fino alla creazione immaginaria dei poeti, si diffonderebbe un ampio spettro di significati di quest’attività, la Phantasieren, il fantasmatico o la produzione di fantasmi psichici, fonte di interesse permanente per Freud.
La Dichtung ha dunque rappresentato per la psicoanalisi un campo privilegiato per scrutare nei meccanismi così difficilmente percettibili, così segreti, che si stabiliscono tra la fantasia del creatore e la sua produzione poetica. La Dichtung – nell’idea freudiana – sembra designare un processo di elaborazione psichica che consiste nel trasformare le immagini sensoriali, i sentimenti e gli affetti dell’animo umano in immagini linguistiche, in un dire poetico, che preserva in sé stesso la freschezza di quelle esperienze primitive, primordiali. Essa sarebbe in contatto intimo con i fantasmi del desiderio di ogni individuo, ma è anche strettamente interconnessa con le leggende e i miti, quelle vestigia deformate dei fantasmi del desiderio proprie a delle intere nazioni ed ai sogni secolari della giovane umanità.
Come scrive con molta cura la nostra autrice, ognuno di noi ha i propri fantasmi. Tuttavia, non sono tanto le persone scomparse a tormentarci, bensì il vuoto lasciato dentro di noi dai segreti degli altri. “Dentro di noi alberga materiale emotivo appartenente ai nostri genitori e nonni: tratteniamo perdite che appartengono a loro e che non sono mai state pienamente espresse. Sentiamo questi traumi, anche se non ne abbiamo consapevolezza. I vecchi segreti di famiglia vivono dentro di noi”.
Freud ha avuto insomma il coraggio di fare entrare nello spazio del sapere scientifico la figura del Dichter, il poeta, lo scrittore, tenuto severamente in disparte dall’Accademia della sua epoca. Egli ha fatto dell’artista uno dei maggiori interlocutori della sua opera. Egli ha riconosciuto nella Dichtung una via d’accesso privilegiata alla verità psichica. In altre parole, gli scrittori, i poeti e gli artisti più in generale possono essere considerati fin dai primordi i migliori alleati degli psicoanalisti ispirati da Freud nell’esplorazione razionale della nuova scienza.
Seguire gli indizi: Freud e Sherlock Holmes
Nonostante l’analisi terapeutica contempli che si esaminino dettagliatamente le storie particolari di singoli individui, se si seguono accuratamente alcuni indizi e ci si focalizza come un attento investigatore sulle particolari traiettorie delle storie che vengono raccontate, si può notare come quelle che in genere crediamo essere delle situazioni specifiche, risultino essere realtà molto universali e diffuse; così come accade per l’analisi letteraria, una tale indagine terapeutica ci rivela insomma come l’unica vera specificità di questi casi sia la loro umanità.
La specie umana segue schematicamente dei comportamenti, alcuni dei quali, benché ripetitivi e sorprendentemente ricorrenti nel loro manifestarsi, hanno però la necessità di presentarsi sotto altre forme, come se dovessero nascondersi, mistificarsi. Tuttavia, non tutti sono disposti a volerlo riconoscere. Ciò su cui si concentra la nostra autrice è proprio questo: scandagliare i segreti che il paziente si sforza di tenere fuori dalla sua narrazione, partendo dal presupposto che le storie che maggiormente ci caratterizzano, in fondo, non sono quelle che ci raccontiamo, ma quelle che, per una ragione o per un’altra, abbiamo deciso di ignorare. Perché? Per il semplice motivo che la conoscenza, molte volte, può essere una minaccia; il sapere una maledizione.
“Questi segreti mirano a proteggerci, distorcendo però la realtà, e ci aiutano a tenere le informazioni spiacevoli lontane dalla nostra consapevolezza. A questo scopo utilizziamo i nostri meccanismi di difesa: idealizziamo quelli verso cui non vogliamo provare ambivalenza, ci identifichiamo con il genitore che ci ha abusato, scindiamo il mondo in buoni e cattivi per strutturarlo in modo sicuro e prevedibile. Proiettiamo nell’altro quello che non vogliamo provare o quello di noi che, se reso consapevole, ci provocherebbe un’ansia eccessiva.
È il meccanismo di difesa emotiva della rimozione che banalizza i nostri ricordi, privandoli di significato. La rimozione ci protegge scindendo un ricordo dal suo significato emotivo. In questi casi, il trauma viene conservato nella mente come un evento non particolarmente rilevante, non importante. La separazione operata tra idee e sentimenti ci consente di proteggerci dal provare qualcosa di troppo devastante: al tempo stesso, però, mantiene il trauma isolato e inelaborato”.
Nel libro vengono descritti i molti volti del trauma e del segreto ereditato, nonché il suo impatto sulle generazioni successive. Nella prima parte, il lavoro si concentra sulla terza generazione di sopravvissuti, ovvero sul trauma dei nonni così come si presentano nella mente dei nipoti; la seconda parte è incentrata sui segreti sepolti nei genitori: le verità indicibili che precedono la nascita dei figli o la loro prima infanzia e che in un modo o nell’altro finiscono per plasmare la loro vita; la terza parte esplora infine i segreti che il paziente tiene nascosti a se stesso, le realtà della sua esperienza attuale ritenute troppo minacciose per essere riconosciute o che, comunque, non riesce ad elaborare del tutto.
Galit Atlas rivela in alcune pagine anche qual è il suo delicato metodo per preparare e affrontare i colloqui terapeutici ritenuti particolarmente spinosi, indagando non solo cosa possa significare un fatto – in generale – per il paziente, ma anche cosa possa significare quel determinato fatto “per lei” in relazione al paziente.
Si tratta, in questo caso, di uno degli aspetti più originali dell’approccio adottato in questo metodo terapeutico. Un metodo che mi piace definire di tipo esistenzialista: chiedersi cosa accade a lei (la terapeuta) mentre ascolta l’altro (il paziente); sentire al contempo la storia dell’altro e confrontarla con la propria, analizzare il sentire reciproco, la partecipazione emotiva al ricordo di determinati eventi.
La terapia è in tal senso anche sempre autoterapia. Nello stesso senso, forse, per cui quando educhiamo i nostri figli, educhiamo sempre anche noi stessi o per cui quando insegniamo qualcosa ai nostri studenti, insegniamo sempre qualcosa anche a noi stessi. E si tratta spesso di “qualcosa” di molto importante, anche perché non ce ne rendiamo immediatamente conto. È una consapevolezza non facile da acquisire, quest’ultima.
Evoluzionismo, epigenetica e terapia esistenzialista
Un altro dei grandi meriti di questo lavoro è, infine, quello di realizzare il non facile esercizio di integrare le conoscenze psicoterapeutiche connesse al metodo appena descritto, con l’ampia letteratura sull’epigenetica e sul trauma ereditato emersa nel corso degli ultimi decenni.
Oggi l’eredità genetica non è più considerata come un destino irrevocabile. Anche i più recalcitranti tra i biologi tradizionalisti hanno oramai cessato di credere che i fattori ambientali non possano influire sul DNA e che, quindi, la crescita psicologica debba essere separata dalla nostra eredità genetica.
A partire dagli anni Settanta, finalmente, anche le neuroscienze hanno confermato quanto scoperto dall’arte, dalla letteratura e, come abbiamo appena visto, dalla psicoanalisi stessa, ovvero che gli individui reagiscono all’ambiente a livello molecolare, sottolineando come i geni abbiano una “memoria” che può essere trasmessa da una generazione all’altra. Che i traumi non elaborati – insomma – influenzano anche geneticamente la vita dei figli e dei nipoti.
Alcuni di questi studi – come riporta la Atlas – focalizzandosi sull’epigenetica e analizzando il modo in cui i geni vengono modificati nei discendenti dei sopravvissuti a un trauma, evidenziano scientificamente come l’ambiente (e il trauma in particolare) possa lasciare un’impronta chimica nei geni di una persona. Una ricerca empirica citata dalla studiosa evidenzia a tal proposito il ruolo fondamentale del cortisolo (il cosiddetto ormone dello stress) nello sviluppo del cervello e, quindi, dei meccanismi biologici attraverso cui il trauma si trasmette di generazione in generazione.
Secondo una prospettiva evoluzionistica, questo tipo di trasformazioni potrebbe mirare a preparare biologicamente i figli per un ambiente simile a quello sperimentato dai loro genitori e ad aiutarli a sopravvivere. Di fatto, però, queste trasformazioni spesso li rendono più esposti alla possibilità di manifestare i sintomi di un trauma che hanno vissuto in prima persona.
L’implicazione di queste nuove ricerche è duplice – scrive la Atlas: “il trauma può essere trasmesso alla generazione successiva, ma il lavoro psicologico può cambiare e modificare gli effetti biologici del trauma”. Stephen Stahl, professore di Psichiatria alla University of California, San Diego sostiene a tal proposito che la psicoterapia possa essere concettualizzata come una droga epigenetica, in quanto modifica i circuiti cerebrali in maniera simile o complementare alle droghe.
Per chi studia la mente umana, i risultati di questa ricerca non sono particolarmente sorprendenti. “Nel nostro lavoro clinico – commenta la Atlas – vediamo come l’esperienza traumatica invada la psiche della seconda generazione e si manifesti in modi inquietanti, spesso sorprendenti. Le persone che amiamo e quelle che ci hanno cresciuto vivono dentro di noi; proviamo il loro dolore emotivo, sogniamo i loro ricordi, conosciamo anche ciò che non ci è stato esplicitamente comunicato e tutto questo plasma la nostra vita in modi che non sempre comprendiamo”.
Insomma, ereditiamo i traumi familiari, anche quelli di cui nessuno ci ha parlato. Tutto quello di cui non abbiamo consapevolezza viene rivissuto, trattenuto nella nostra mente e nel nostro corpo, palesandosi attraverso i cosiddetti sintomi: mal di testa, ossessioni, fobie, insonnia possono essere segni di quello che abbiamo respinto nei più oscuri recessi della nostra mente. Come ereditiamo, tratteniamo ed elaboriamo vicende che non ricordiamo o che non abbiamo vissuto in prima persona?
Anche su questo aspetto, il contributo del lavoro della Atlas è molto originale, soprattutto per la sua capacità di riuscire a far emergere con grande sapienza, anche narrativa, lo straordinario contributo della prospettiva evoluzionista che ci suggerisce di osservare gli altri – e in particolare gli esseri che più amiamo, quali i nostri nonni, i nostri genitori, i nostri compagni o i nostri figli – come esseri umani complessi le cui reti di storie hanno sempre, in ultima istanza, un chiaro significato di fondo: la lotta per la sopravvivenza.
Forse la maggiore forza che si trova alla base dell’evoluzione, come sostiene Darwin, non è tanto il caso che governa la selezione naturale e l’impulso sessuale, ma l’insopprimibile desiderio, tipicamente umano, di cercare di fornire uno scopo e un significato al caso. E quando impariamo a identificare l’eredità emotiva insabbiata dentro di noi, le cose possono talvolta cominciare ad acquisire un nuovo significato esistenziale e le nostre vite appaiono più disponibili ad essere modificate.
In fondo – ribadirei in conclusione – di altro non si tratta se non della nostra perenne e ostinata lotta contro la mancanza di senso.