EXAGERE RIVISTA - Ottobre - Novembre - Dicembre 2024, n. 10-11-12 anno IX - ISSN 2531-7334

Tra fisica ed etica: forme e fini della ricerca meteorologica di Epicuro nell’Epistola a Pitocle

di Dino De Sanctis

La nostra conoscenza sul pensiero scientifico nel mondo greco e sulle forme nelle quali è stato declinato si è accresciuta negli ultimi decenni grazie ad acquisizioni di volta in volta sempre più precise e affidabili, come dimostra lo sviluppo di una letteratura dettagliata, dedicata a questo tema.[1] Sin dalle prime osservazioni avanzate sulla realtà che si sono sviluppate tra i Presocratici, con al centro la ricerca di una arche, un principio comune di tutte le cose, in effetti, il cosmo nella sua poliedrica manifestazione fenomenica ha attratto l’interesse del philosophos, il cui profilo ha spesso finito per coincidere con quello dello scienziato, mosso dal desiderio della conoscenza. Non stupisce, ad esempio, che nel Teeteto (174a-174c), dialogo della maturità, Platone, arrivi a esemplificare l’interesse speculativo dei pensatori che lo hanno preceduto per l’appunto tramite il racconto tra Talete e la servetta trace. Mentre il filosofo, il primo filosofo che riconobbero come tale i Greci, è intento a sviluppare ricerche con lo sguardo rivolto al cielo in una assorta concentrazione, dimentico e ignaro di quello che ha davanti, sulla terra, cade in un pozzo. È allora che, con allegra ironia, la servetta commenta l’accaduto “dicendo che [Talete] si preoccupava tanto di conoscere le cose che stanno in cielo, ma non vedeva quelle che gli stavano davanti, tra i piedi”. Al di là del significato assunto nel Teeteto da questo interessante aneddoto, nel quale il pozzo è anche una metafora evocata per indicare le difficoltà nelle quali cade chi non ricorre nella vita alla corretta forma di dialettica, certo sfugge, pur nel filtro della rielaborazione letteraria, la portata che nella cultura greca ha rivestito un settore specifico della scienza, quello relativo ai meteora, un termine che indica tutto ciò che si verifica in cielo ma che spesso ha una concreta ricaduta sulla terra, a partire dagli astri. Sarebbe complesso ripercorrere le tappe dell’evoluzione che questa particolare parte della scienza nel mondo antico ha seguito tanto da risultare argomento troppo vasto da abbracciare nella sua interezza in questa sede. Nelle pagine seguenti, per tutto ciò, vorrei soffermarmi su un capitolo di estremo fascino e di particolare incidenza relativo a questo problema, al quale sto dedicando da tempo parte dei miei studi:[2] le ricerche che Epicuro, fondatore del Kepos, ha riservato all’indagine meteorologica nel primo Ellenismo, tramite uno scritto in forma epistolare, l’Epistola a Pitocle, tramandato da Diogene Laerzio, biografo tardo, lontano da Epicuro, vissuto intorno al III secolo d.C.[3] La posizione di Epicuro nell’ambito dei meteora, è decisiva, visto che si colloca per lo sviluppo del pensiero filosofico greco in una temperie socio-culturale che, pur mostrando caratteristiche peculiari, tende tuttavia a mantenere un forte e inscindibile legame con la tradizione arcaica e classica nel segno di una pensosa continuità.[4]

Come prima cosa, tuttavia, credo opportuna qualche precisazione pur se in forma schematica. Innanzitutto: perché leggere Epicuro quale espressione di una letteratura scientifica e un testo difficile sia sul piano filologico sia sul piano argomentativo come l’Epistola a Pitocle? Dinanzi a queste domande è importante ricordare qualche dato non marginale in modo da entrare più direttamente nella produzione letteraria del Kepos, la scuola che Epicuro fonda ad Atene sul finire del IV secolo dopo che la speculazione di questo filosofo ha già attratto, tra Mitilene e Lampsaco, un nutrito gruppo di seguaci interessati alle innovative idee atomistiche formulate sulla scia delle ricerche di Leucippo e Democrito.[5]

È noto che tra i molteplici aspetti del pensiero di Epicuro possiamo annoverare un drastico rifiuto nei confronti della cosiddetta enkyklios paideia, l’insieme delle arti liberali, la base portante della formazione culturale alla quale per tradizione è legata la crescita dell’uomo greco.[6] Distanziandosi dalle dottrine che sino al IV secolo a. C. avevano caratterizzato il sistema educativo dell’antichità, Epicuro pone al centro di ogni sua ricerca la physis, la natura, nella misura in cui questa rappresenta l’unico campo di indagine possibile e razionale per chi sia veramente sapiente o tale aspiri a diventare. Il rifiuto della enkyklios paideia, tuttavia, nei fatti non vuol dire che il sapere che sinora ha dato vita a numerose ricerche fisiche sia stato trascurato o ignorato nel Kepos. Epicuro, quale filosofo e pensatore dal nuovo profilo, dimostra chiaramente di conoscere con precisione e attenzione la tradizione scientifica che lo ha preceduto, una tradizione che spesso però rivela, a suo dire, punti deboli e visioni errate se non addirittura palesi fraintendimenti circa il funzionamento e lo sviluppo della realtà. La realtà che circonda l’uomo, infatti, è composta da atomi e vuoto, la condizione necessaria per la quale si possono creare innumerevoli congiunzioni atte a formare e delineare da sempre il reale fenomenico, dal cosmo all’uomo stesso, inclusa la stessa psyche, l’anima. Vero è anche che da questo reale fenomenico secondo Epicuro, come è bene ricordare, alieno appare l’elemento divino: contrariamente a una vulgata errata dovuta al filtro della polemica interna alle scuole filosofiche e radicatasi sempre più con il Cristianesimo contrapposto al materialismo del Kepos, la divinità esiste secondo Epicuro ma non può essere interessata, per via della sua perfezione superba e trascendente, a nessun problema che si manifesta sulla terra o in cielo. Da qui deriva un atteggiamento che possiamo definire umanistico in senso etimologico, proteso a un’attenzione particolare e programmatica verso l’uomo e la sua condizione mortale, un perno centrale e cruciale nella riflessione atomistico-materialistica di Epicuro. Se in altri termini non si dà ingerenza del divino nelle cose degli uomini, consegue che gli uomini, per vivere secondo la phronesis, la saggezza, devono conoscere essenzialmente la verità che giunge dalla physiologia, la scienza della natura, senza temere che si verifichi tutto ciò che minacciano false favole mitologiche. Il sophos, l’uomo sapiente, dunque, sarà tale nel momento in cui entrerà in possesso della conoscenza relativa alle leggi fisiche che dominano e regolano la natura. La vita umana solo in questo modo è in grado di perseguire l’ataraxia, la serena imperturbabilità, in una inesausta Sensucht verso il piacere catastematico.[7] Sul piano scientifico Epicuro traduce questa presa di posizione in un’operazione letteraria complessa, affascinante, con tratti di palese e fertile innovazione, certo mai tanto specifica sotto molti punti di vista nel panorama letterario scientifico dei Greci.

Un imprescindibile punto di partenza per questa operazione è offerto dal grande trattato scritto da Epicuro, il Peri physeos, Sulla natura, oggi perso nella sua interezza, sebbene molti dei 37 libri che in origine lo costituivano siano stati restituiti dai papiri carbonizzati rinvenuti durante gli scavi borbonici della cosiddetta Villa dei Pisoni a Ercolano.[8] Nel trattato, come oggi possiamo sapere con relativa sicurezza, Epicuro ha ripercorso, spiegato e analizzato singole questioni della fisica, intrecciandola, non di rado da quello che ci è dato capire, ad ampi spazi desinati alla critica e alla polemica militante nei confronti di illustri rivali. Ma il grande trattato è un’opera difficile, troppo lunga, e, per così dire, troppo specialistica perché possa raggiungere un vasto pubblico. Il suo linguaggio è ricco di una terminologia per addetti ai lavori che abbiano una conoscenza specifica e meditata su una ampia costellazione di testi filosofici. Nelle intenzioni di Epicuro, il sapere che ha una funzione benefica e salutare, invece, in un afflato di universalità deve essere rivolto al più alto numero di uomini, anche a quelli che sono impossibilitati a frequentare direttamente e assiduamente la parola del maestro, la scuola, il Kepos.[9] Ecco perché con Epicuro si sviluppa, parallelamente al grande trattato, il compendio di questo, quella che oggi potremmo chiamare la riduzione in pillola del sapere, il riassunto a uso di un folto gruppo di uomini, anche non specialisti, ai quali si riserva la possibilità di raggiungere la felicità.[10] Sul piano letterario Epicuro condensa il suo sapere per lo più nella breve forma della massima, espressione della quale è garantita dalle Kyriai doxai e dalla raccolta di sentenze contenuta in un codice Vaticano, ma soprattutto nelle cosiddette tre Epistole maggiori: la prima indirizzata a Erodoto, sui problemi fisici, la seconda rivolta a Pitocle, sulla meteorologia, l’ultima scritta per Meneceo, sull’etica, come ho ricordato, conservate e citate interamente da Diogene Laerzio.[11] Nell’Epistola a Erodoto, non a caso, Epicuro imbocca le strade della fisica, scorge nelle dinamiche del reale l’inesauribile movimento atomico che pervade il tutto; passa all’Epistola a Pitocle rivolgendo lo sguardo ai fenomeni celesti tra stelle e manifestazioni fisiche di sostanze acquose, ignee e aeree; termina, infine, con il maestoso affresco dell’etica, offerto nella Epistola a Meneceo, un’etica che invita chiunque a concretizzare uno stato di perfetta beatitudine tra gli uomini, seguendo il philosophein del maestro. Nelle cosiddette Epistole maggiori, per tutto ciò, oggi troviamo condensato un cammino netto e programmatico della dottrina del Kepos, nel quale possono essere riconosciuti i punti principali di una filosofia nella quale, secondo l’immagine della periodeia, il percorso circolare, cara a Epicuro, costante e basilare risulta l’indissolubile intreccio tra etica e fisica.[12] Non sorprende che la motivazione di questa scelta, il compendio, l’epitome del sapere, che corrisponde di fatto a una precisa forma letteraria, sia stata spiegata e teorizzata quale genere da Epicuro nei proemi di queste Epistole con funzione paradigmatica. Qui, più che in altre sezioni, è attentamente analizzato il motivo per il quale occorre una trattazione sintetica a lato di quella più estesa e dettagliata, che trova spazio nel Peri physeos: l’epitome è infatti utile a chi è già andato oltre nel cammino della conoscenza, a chi si è perfettamente formato su questo, tanto quanto a chi ne è rimasto lontano. Il percorso proposto in queste lettere, come è evidente, muove dalla fisica all’etica quale inevitabile approdo della riflessione e dell’argomentazione generale, un’etica mai scissa dal pensiero atomistico, intesa sempre come una meta alla quale l’uomo può giungere solo tramite la salda conoscenza dei fenomeni legati alla natura.

Per comprendere pienamente il senso di questo percorso, quale sia il suo scopo, nonché le forme nelle quali si snoda, seppure in rapporto alle conoscenze meteorologiche, vorrei osservare il lungo proemio dell’Epistola a Pitocle il cui incipit è concepito nella forma di una vera e propria fiction. Epicuro, infatti, qui afferma – o immagina – di offrire una risposta sollecitata dal suo allievo Pitocle che, per l’appunto, si è sempre mostrato benevolo nei suoi confronti e interessato a tenere sempre a portata di mano l’insegnamento del maestro sui fenomeni celesti. La lettera, dunque, presentata come un dialogismos conciso e ben delineato, è una sorta di ricompensa, un prezioso antidoron nei confronti di un giovane seguace nel quale possiamo immaginare siano sorti dubbi e angosce dinanzi allo spettacolo ammaliante, anche se il più delle volte spaventoso, dei fenomeni celesti.[13] Ma non solo. Dopo aver tracciato il profilo solerte dell’allievo, una sorta di modello auspicabile del perfetto e zelante membro della scuola, Epicuro aggiunge subito parole di estremo interesse (85-86):

“Per prima cosa, non si creda che esista altro fine della conoscenza dei fenomeni celesti – sia che vengano trattati in connessione sia che vengano trattati indipendentemente – se non l’imperturbabilità e la fiducia salda, come anche per le altre conoscenze. [86] Non si forzi l’impossibile, né si tenga il simile metodo di indagine per ogni problema, sia nei ragionamenti che vertono sui generi di vita sia in quelli deputati alla risoluzione degli altri problemi della fisica, come per esempio che il tutto è corpo e natura intangibile o che gli elementi sono indivisibili, come per ogni altra questione del genere che ha un accordo univoco con i fenomeni. Ciò non vale per i fenomeni celesti, ma questi invero hanno molteplice sia la causa del loro generarsi sia la spiegazione della loro essenza in accordo con le sensazioni. Per cui non si deve fare scienza della natura in base a vuoti assiomi e a leggi imposte, ma come reclamano i fenomeni”

In questa parte del proemio Epicuro espone le basi delle sue ricerche meteorologiche, i presupposti necessari perché si concretizzi una perfetta indagine scientifica nei confronti della realtà fenomenica. Secondo Epicuro è necessario innanzitutto rendere evidente il telos, il fine, al quale tende la conoscenza dei phainomena, tutto ciò che appare in cielo e in terra e questo fine non può essere diverso dall’imperturbabilità dell’animo umano. Come sapremo nel leggere lo sviluppo dell’argomentazione proposta da Epicuro in una prosa ardita e non facile, l’uomo infatti non deve temere il bagliore a volte terrifico del fulmine, il rombo assordante del tuono, la formazione improvvisa e non meno aliena da fantasticherie del colorato arcobaleno o la rotta che in cielo seguono in limpide sere le stelle cadenti. Questi fenomeni rientrano chiaramente e perfettamente nella fisica e sono motivati da palesi, logiche e incontrovertibili leggi atomiche. Vero è, tuttavia, che per Epicuro, rispetto ai presupposti che regolano l’indagine fisica o etica, il mondo dei fenomeni metereologici gode, per quanto riguarda l’aspetto eziologico, il suo originarsi, di un più vasto orizzonte di cause. In questo senso Epicuro, come ha ormai dimostrato la critica, riprende, sviluppa e innova ad un tempo un presupposto di fondo insito già nell’indagine che Aristotele nei Meteorologica prima e poi soprattutto Teofrasto nei suoi trattati fisici avevano ufficializzato:[14] il cosiddetto pleonachos tropos, la consapevolezza di una serie di innumerevoli aitiai, cause per l’appunto, tutte razionali e efficaci, in base alle quali si può rendere conto della formazione e dello sviluppo di un dato fenomeno senza che una causa sia in contraddizione con un’altra sul piano epistemologico.[15] Con Epicuro il pleonachos tropos, contrapposto al monachos tropos della fisica, è un decisivo punto di partenza nella ricerca indicata nell’Epistola a Pitocle che, con precisione e consapevolezza, si articola tramite la successione catalogica delle motivazioni, delle cause evocate a lato di ogni fenomeno, scandite per lo più sul piano argomentativo dalla particella disgiuntiva “o” o dalla congiunzione “e”.

Ma perché Epicuro adotta il pleonachos tropos? Quale valore assume questa metodologia indicata all’uomo quale ineludibile prassi nella ricerca meteorologica? Quale è il suo significato in termini concreti? A queste domande offre una risposta quasi lapidaria l’affermazione finale che appare nel proemio che stiamo leggendo: “… non si deve fare scienza della natura in base a vuoti assiomi e a leggi imposte, ma come reclamano i fenomeni…”. Qui Epicuro prende le distanze da chi impone una ricerca sui fenomeni in maniera rigida e assiomatica. Per Epicuro, invece, la possibilità del reale è molto più ampia e merita di essere esaminata in tutti i suoi possibili risvolti. Ma non solo: a ben vedere, la necessità del pleonachos tropos deriva anche da una peculiarità costante nel pensiero di Epicuro che emerge spesso nell’Epistola a Pitocle. Sapere che un fenomeno celeste è originato – o si mostra originabile – per via di molteplici cause che sono poste sullo stesso piano di validità e con un analogo livello di autorevolezza e plausibilità porta l’uomo a eleminare da sé ogni possibile falso timore che sorge quando osserva il mondo che lo circonda. Il pleonachos tropos, in altri termini, serve a fugare le false credenze, le errate opinioni, la doxa fallace, la menzogna che Epicuro vede riflettersi nel mythos, un termine di difficile traduzione ma che in massima parte corrisponde con le opinioni popolari e irrazionali alimentate dalle credenze, per lo più riflesse nella poesia, con quella religio contro la quale, per gli efferati misfatti ai quali ha costretto l’umanità, si batterà con gli insuperabili esametri del De rerum natura Lucrezio, seguace romano di Epicuro.[16] Solo eliminando il peso errato e menzognero che esercita il mythos, l’uomo, ogni uomo, può concretizzare l’imperturbabilità che lo porta a condurre la forma più alta di esistenza.

Non a caso nel seguito del proemio Epicuro aggiunge un’ulteriore osservazione che va in questa direzione (87):

“Del resto, la nostra vita non ha bisogno di irragionevolezza e di vuota opinione, ma che noi la trascorriamo senza alcun tumulto. Ogni cosa, dunque, si trova ad essere priva di scosse per quanto riguarda ogni problema che viene chiarito definitivamente secondo il metodo delle spiegazioni molteplici, in accordo con i fenomeni, qualora, come si deve, si ammettano spiegazioni plausibili riguardo ad essi. Qualora, invece, uno ammetta una spiegazione, ma ne respinga un’altra che, similmente, sia in accordo con il fenomeno, è chiaro che precipita via da ogni studio sulla natura e cade nel mito”

Il bando della vuota opinione, la falsa doxa contrapposta alla verità che rappresenta il cuore della ricerca scientifica, è motivato nell’ambito di un’indagine dai contorni non semplici quale è quella sulle cause dei fenomeni celesti in vista di una vita da trascorrere athorybos e aseistos, senza agitazioni e scosse. Queste espressioni usate da Epicuro sono sintomatiche, nella misura in cui tendono a presentare la vita umana serena e calma, immune dalle agitazioni che sono per lo più dovute ai terremoti interiori dettati dall’irrazionalità. Solo la consapevolezza dunque di cause molteplici, di una messe pressoché inesauribile di spiegazioni che non siano mai in contraddizione con i fenomeni stessi, sarà in grado di realizzare questa condizione fondamentale per il conseguimento della serenità nell’uomo. Certo, sul piano puramente scientifico Epicuro potrebbe essere tacciato di estrema semplificazione, di eccessiva faciloneria, nel momento in cui alla base di un dato fenomeno crede di poter evocare indifferentemente motivazioni tra loro a volte opposte se non addirittura diverse. Ma ad un tempo è indubitabile che questa operazione che a noi può apparire ancora primitiva nella pratica, nella sostanza dei fatti si traduce in un’attenta osservazione dei fenomeni stessi, a volte tanto matura da apparire pionieristica.[17]

            Dopo il proemio l’argomentazione di Epicuro è serrata ed efficace, veloce e categorica, precisa e metodica. Procede per lo più nel giro di capitoli più o meno ampi ma sempre a sé stanti.[18] Si ha come la sensazione che i vari argomenti si susseguano con un ordine preciso e spazino, a poco a poco, secondo un percorso voluto e razionale: da tutto ciò che accade sulla terra il lettore dell’Epistola a Pitocle passa a conoscere tutto ciò che accade sul versante fenomenico in cielo. Dopo una definizione del cosmo come “porzione di cielo che abbraccia astri, terra e tutti i fenomeni, separata dall’infinito e terminante in un confine di costituzione rada o fitta, al cui dissolversi, tutto ciò che si trova in esso sarà soggetto ad uno stato di confusione”,[19] e dopo la precisazione del fatto che esistono, grazie al continuo movimento atomico, infiniti cosmi che possono avere varie forme, Epicuro osserva la nascita del sole, della luna e delle altre stelle, evocando una sorta di big bang ante litteram tramite il ricordo di un’aggregazione di sostanze sottili, di natura ignea o ventosa, come suggerisce la aisthesis, la sensazione (86).[20] Non poco spazio è offerto subito alla grandezza del sole e degli altri astri osservata in rapporto alla prospettiva dell’osservatore umano e spiegata alla luce di un esempio analogico; sono osservati i moti tropici del sole e della luna; senza appello è la critica contro le inutili macchine e i modelli artificiali degli astronomi; l’Epistola poi tratta del sorgere e del tramontare degli astri, delle eclissi, delle lunghezze diverse delle notti e dei giorni. Epicuro censura l’idea secondo la quale la natura divina motivi lo sviluppo dei meteora. Dopo una sezione relativa all’inefficacia irrazionale dei pronostici del tempo respinta drasticamente, Epicuro entra nel vivo della sua discussione fenomenica tramite l’applicazione sempre più attenta e convincente del pleonachos tropos. Analizza in questo modo la formazione delle nubi, nonché la creazione dei venti.[21] Un lungo capitolo, certo tra i più affascinanti, è riservato ai tuoni che nascono da lacerazioni di nuvole, da vorticosi mulinelli di aria. Osserviamo da vicino il testo (100):

“I tuoni è possibile avvengano sia per la rotazione di venti nelle cavità delle nubi, come accade anche all’interno dei nostri vasi, sia per il fragore che tra le nubi produce il fuoco alimentato dal vento, sia per lacerazioni e divisioni delle nubi, sia per sfregamenti e fratture delle nubi che hanno assunto una compattezza simile a quella del ghiaccio. E in generale anche in merito a questo specifico aspetto dell’indagine i fenomeni invitano a affermare l’esistenza di cause molteplici”

Al tuono è legata la sua manifestazione visiva: il lampo. Lo splendente fulgore del lampo è ricondotto allo sfregamento delle nuvole in cielo dal quale scaturiscono atomi adatti a creare questo fenomeno, o dall’attrito che in aria provocano i venti, o dalla pressione atmosferica, o da spinte aeree, o dalla luce che si sprigiona da alcuni astri o anche dall’incendiarsi di masse d’aria. Al termine di questa sezione nella quale il lampo si intreccia al tuono, Epicuro passa ad analizzare i cicloni nel loro differente modo di procedere sulla terra e sul mare, i terremoti fragorosi che vede operare nelle cavità della terra, i rumorosi venti che si propagano con impeti improvvisi, la grandine che si forma da condensazioni di acqua ghiacciata, precipitazione fredda che ha come peculiarità una forma tondeggiante, la neve candida il cui formarsi è ricondotto alla pioggia sottile o a una pressione più o meno violenta, la brillante rugiada, l’alone che appare intorno alla luna. A questo punto Epicuro rivolge il suo sguardo direttamente al cielo e qui scorge e spiega la nascita delle comete vaganti, le cosiddette stelle fisse, gli astri cadenti per i quali elenca innumerevoli cause relative alla loro formazione.

Dinanzi al vertiginoso spettacolo sviluppato dai fenomeni non è immotivato che l’atteggiamento di Epicuro sia sempre costante e solidale con le impostazioni della sua ricerca, le linee guida teorizzate all’inizio della lettera, come è ben esplicitato al termine di un denso capitolo riservato agli astri erranti (113):

“L’assegnare un’unica spiegazione a questi fenomeni, quando i fenomeni reclamano molteplici spiegazioni, è un’operazione folle e sconveniente, compiuta dagli zelanti seguaci dell’inutile astronomia che riconducono alcuni fenomeni che vanno a vuoto, visto che in nessun caso liberano la natura divina da attività impegnative”

È stato giustamente notato dalla critica che in questa sezione Epicuro mostra una profonda distanza nella forma di un’aperta polemica nei confronti della cosiddetta scuola di Cizico che, fondata da Eudosso nel IV secolo, propugnava un’indagine sulla realtà fenomenica opposta a quella del Kepos sia nella forma e nella sostanza sia soprattutto nel fine.[22] Con fiero atteggiamento di correttore, Epicuro riduce a mera follia l’indagine fenomenica suggerita dai suoi rivali, spesso basata sul ricorso agli organa, modelli meccanici del cosmo, sui quali anche i Ciziceni e in generale gli astronomi, ridotti a uno stuolo di servi (93), credono di poter esemplificare la realtà. Il mondo fenomenico, invece, secondo Epicuro non può essere ridotto a un modello unico, unilaterale e banale nel quale, peraltro, i rivali del Kepos non colgono le cause effettive della physis ma evocano un’impossibile e irriguardosa ingerenza divina.

Dopo questa lunga esposizione dottrinale non desta meraviglia l’impostazione che assume l’epilogo della lettera nella quale, secondo una prassi comune sul piano stilistico, Epicuro riprende il suo dialogismos, il dialogo a distanza con Pitocle (116):

“Dunque, tutti questi insegnamenti, Pitocle, memorizzali. In molte situazioni, infatti, ti terrai lontano dal mito e potrai comprendere subito ciò che appartiene allo stesso genere di questi insegnamenti. Dedicati soprattutto alla scienza dei principi e dell’infinito e di quanto è ad essi simile, poi dei criteri e delle affezioni, e di tutto ciò che rappresenta il fine del nostro ragionare, perché questi insegnamenti, una volta indagati con massima cura, faranno comprendere una ad una le cause dei problemi. Coloro che, invece, non amano assolutamente questo tipo di indagini, non potranno comprendere queste cose come si deve, né otterranno il fine per il quale le si deve conoscere”

Emerge in questo finale della lettera non per la prima volta nella produzione di Epicuro la necessità di una memorizzazione inevitabile del sapere offerto dal maestro, una memorizzazione che certo agevola la forma dell’epitome nella quale si condensa lo snodarsi dei fenomeni celesti indagati. Emerge ad un tempo di nuovo la drastica critica contro il mythos, l’insieme di favole inutili che non traducono i meccanismi della realtà ma rischiano solo di confonderli.[23] La parola autorevole del maestro e il suo insegnamento equivalgono a una cura salutare che agisce sia sull’anima sia sulla mente dell’uomo. In questo senso la riflessione metereologico-scientifica di Epicuro valica i confini dell’esposizione dottrinale e si salda con l’impostazione etica della scuola, diventandone una vera e propria testa di ponte dalla quale nessuno può prescindere.

Tracciare un bilancio complessivo di questa operazione condotta sul finire del IV secolo a.C., certo in periodo che siamo abituati a vedere e a credere come lontano, se non addirittura drasticamente diverso dai nostri giorni, credo possa essere utile per comprendere un dato di fondo che merita di essere sempre tenuto presente nel momento in cui si analizza l’uomo che si accosta alla ricerca.  Il binomio scienza ed etica appare, già nelle sue prime manifestazioni che si delineano nella cultura occidentale, inestricabile e produttivo nella forma dell’intreccio saldo e consapevole. Nel sistema fisico del Kepos anzi questo binomio diventa nella teoria e nella prassi inevitabile: per Epicuro non esiste una possibile riflessione sulla natura, sia che questa venga vista nei movimenti atomici, sia che questa sia osservata sul versante fenomenico, che non conduca l’uomo a concretizzare una vita serena e giusta, dunque in una possibile strada verso la felicità. Anche se ritengo difficile e forse inesatto parlare di modernità in generale quando si affronta il pensiero greco, applicare una categoria stereotipata per rintracciare nella classicità un inevitabile rapporto con il presente, perché ogni pensiero appare moderno di per sé proprio nel suo manifestarsi, come ogni riflessione sviluppata nella storia dell’uomo, certo il modello scientifico che ci ha lasciato Epicuro nei suoi scritti tende a presentarsi come paradigmatico sotto molti punti di vista, a tratti addirittura innovativo e pronto a inaugurare o dare l’avvio a nuove ricerche nel corso del tempo.[24] E forse più che in ogni altro aspetto per l’appunto in questa esemplarità sta se non la modernità di Epicuro almeno la sua validità metastorica che del resto ci porta e ci invita ancora a leggere, a studiare e a comprendere il pensiero dell’antichità classica per assicurare e rispettare nel miglior modo possibile la nostra posizione all’interno dell’umanità.

[1] A riguardo si vedano i saggi raccolti in si vedano anche i saggi raccolti in J. Barnes, J. Brunschwig, M. Burnyeat, M. Schofield (eds.), Science and Speculation: Studies in Hellenistic Theory and Practice, Cambridge University Press, Editions de la Maison des Sciences de l’Homme, Cambridge-Paris 1982

[2] Di prossima pubblicazione è una nuova traduzione della lettera da me curata a partire dal testo, corredata da un dettagliato commento a cura di Francesco Verde per i tipi della Nomos Verlag, Sankt Augustin, nella collana “Diotima”. Propongo in questo lavoro alcune traduzioni che qui appariranno. Si tenga conto però che il testo canonico per l’Epistola a Pitocle è quello presente in G. Arrighetti, Epicuro. Opere, 19732.

[3] Forse Diogene della cui vita si hanno scarsi se non minimi dettagli fu simpatizzante epicureo come ha sostenuto M. Gigante, Diogene Laerzio storico del pensiero antico, «Elenchos» 7 (1986), pp. 7-102.

[4] Un testo ancora fondamentale per la comprensione della scienza nell’antichità è ancora M. Isnardi Parenti, Filosofia e scienza nel pensiero ellenistico, Morano, Napoli 1991. Nello specifico, per la riflessione scientifica di Epicuro, si veda E. Asmis, Epicurus’ Scientific Method, Cornell University Press, Ithaca, London 1984.

[5] Sul rapporto tra Democrito ed Epicuro lucide pagine sono state scritte da M.L. Silvestre, Democrito e Epicuro: Il senso di una polemica, Loffredo, Napoli 1985.

[6] Su questo aspetto pagine fondamentali sono state scritte da G. Arrighetti, Poesia, poetiche e storia nella riflessione dei Greci. Studi, Serra, Pisa-Roma 2006, pp. 315-329.

[7] Si veda per questo problema E. Spinelli, Physiologia medicans: The Epicurean Road to Happiness, in L. Castagnoli, P. Ceccarelli (eds.), Greek Memories: Theories and Practices, Cambridge University Press, Cambridge 2019, pp. 278-291.

[8] A riguardo rimando al recente volume di F. Longo Auricchio, G. Indelli, G. Leone, G. Del Mastro, La Villa dei Papiri: una residenza antica e la sua biblioteca, Roma, Carocci 2020.

[9] Si veda anche M. Erler, Philologia medicans: La lettura delle opere di Epicuro nella sua scuola, in G. Giannantoni, M. Gigante (eds.), Epicureismo greco e romano: Atti del Congresso Internazionale, Napoli, 19-26 maggio 1993, Bibliopolis, Napoli 1996, Vol. II, pp. 513-526.

[10] Individua per la lettera e la massima questa funzione M. Tulli, L’epitome di Epicuro e la trasmissione del sapere nel Medioplatonismo, in M. Erler, R. Bees (eds.), Epikureismus in der späten Republik und der Kaiserzeit, Akten der 2. Tagung der Karl-und-Gertrud-Abel-Stiftung vom 30. September-3. Oktober 1998 in Würzburg, Steiner, Stuttgart 2000, pp. 109-121.

[11] Per la funzione che le lettere assumono nella circolazione del sapere all’interno del Kepos si veda ora M. Erbì, Lettere. Frammenti e testimonianze di Epicuro. Introduzione, testo e commento, Serra, Pisa-Roma 2020, 1-49.

[12] Cfr. E. Spinelli, Physiologia medicans: The Epicurean Road to Happiness, in L. Castagnoli, P. Ceccarelli (eds.), Greek Memories: Theories and Practices, Cambridge University Press, Cambridge 2019, pp. 278-291.

[13] La struttura del proemio di questa lettera nella quale si evidenzia nella fiction letteraria un immediato passaggio dal bisogno di conoscenza del singolo Pitocle al bisogno universale dell’uomo è indagato da D. De Sanctis, Utile al singolo, utile a molti: Il proemio dell’Epistola a Pitocle, «Cronache Ercolanesi» 42/2012, pp. 95-109.

[14] Rimando a riguardo alla trattazione di F. Verde, L’empirismo di Teofrasto e la meteorologia epicurea, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica» 90/4 (2018), pp. 889-910. Ma si veda anche D. Sedley, Theophrastus and Epicurean Physics, in J. M. van Ophuijsen, M. van Raalte (eds.), Theophrastus: Reappraising the Sources, Transaction Publishers, New Brunswick-London 1998, pp. 331-354.

[15] Come hanno acutamente sottolineato F. Verde, Cause epicuree, «Antiquorum Philosophia» 7/2013, pp. 127-142, e M. Corradi, M., 2016, Πιθανολογεῖν tra Platone, Aristotele e Epicuro: Un dialogo metodologico a distanza, in M. Tulli (ed.), Testo e forme del testo: Ricerche di filologia filosofica, Serra, Pisa-Roma 2016, pp. 217-256.

[16] In Lucrezio permane spesso nell’indagine sui meteora il metodo del pleonachos tropos: si veda a riguardo F. Verde, Fenomeni fisici e spiegazioni multiple in Lucrezio e nell’Aetna pseudovirgiliano, «Giornale Critico della Filosofia Italiana» 99/2018, pp. 523-544.

[17] Una lucida analisi della struttura, dei rapporti con il Peri physeos e dei problemi che l’Epistola a Pitocle comporta è stata avanzata da G. Arrighetti, Epicuro, cit., pp. 76-103.

[18] Una scansione in questo senso ravvisa nella lettera M. Tulli, Epicuro a Pitocle: La forma didattica del testo, in M. Tulli (ed.), Φιλία: Dieci contributi per Gabriele Burzacchini, Pàtron, Bologna 2014, pp. 67-78.

[19] Cfr. L. Taub, Physiological Analogies and Metaphors in Explanations of the Earth and the Cosmos, in M. Horstmanshoff, H. King-C. Zittel (eds.), Blood, Sweat and Tears: The Changing Concepts of Physiology from Antiquity into Early Modern Europe, Brill, Leiden-Boston 2012, pp. 41-63.

[20] Cfr. F. Verde, Ancora sullo statuto veritativo della sensazione in Epicuro, «Lexicon Philosophicum: International Journal for the History of Texts and Ideas» Special Issue (2018), F. Verde, M. Catapano (eds.), Hellenistic Theories of Knowledge, pp. 79-104.

[21] Si veda a riguardo G. Leone, Epicuro e la forza dei venti, in D. De Sanctis, E. Spinelli, M. Tulli, F. Verde (eds.), Questioni epicuree, Academia Verlag, Sankt Augustin 2015, pp. 159-177.

[22] Si vedano su questo problema D. Sedley, Epicurus and the Mathematicians of Cyzicus, «Cronache Ercolanesi» 6/1976, pp. 23-54, e A Tepedino Guerra, L. Torraca, Etica e astronomia nella polemica epicurea contro i Ciziceni, in G. Giannantoni, M. Gigante (eds.), Epicureismo greco e romano: Atti del Congresso Internazionale, Napoli, 19-26 maggio 1993, Bibliopolis, Napoli 1996, Vol. I pp. 127-154.

[23] Rimando per l’analisi dell’explicit della lettera a D. De Sanctis, Strategie della comunicazione di Epicuro nell’epilogo delle sue opere, in F. Masi, S. Maso (eds.), Epicurus on eidola, Hakkert, Amsterdam 2015, 171-190.

[24] C. Wilson, Epicureanism at the Origins of Modernity, Clarendon Press, Oxford 2008.

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