di Giacomo Dallari
Il binomio genio e follia attraversa la storia della filosofia come una delle più ambigue e affascinanti articolazioni del pensiero occidentale. La follia, lungi dall’essere semplicemente una patologia o una mera devianza, è stata spesso interpretata – o per meglio dire reinterpretata – come un luogo privilegiato del sapere, un punto critico da cui mettere in discussione la razionalità dominante e le sue istituzioni. In questo senso il genio è colui che, nell’attraversare i confini della norma, rischia la follia, ma al tempo stesso la reinventa come possibilità sovversiva. In particolare nella filosofia contemporanea, questa relazione viene ripensata come tensione tra la logica dominante e quelle forme di pensiero che, pur apparendo eccentriche o irrazionali, portano con sé una verità profonda – magari scomoda – ma capace di aprire nuovi orizzonti.
Dopo la grande fiducia riposta nell’Illuminismo e nella razionalità scientifica, il Novecento si apre con un senso crescente di disillusione. Le due guerre mondiali, i totalitarismi e l’alienazione prodotta dal capitalismo avanzato, mettono in crisi l’idea che il progresso scientifico e tecnico coincida automaticamente con un miglioramento della condizione umana. In questo clima critico, Adorno e Horkheimer – due esponenti di spicco della cosiddetta Scuola di Francoforte – propongono una lettura rivoluzionaria della modernità nel loro capolavoro Dialettica dell’illuminismo (1947). Il loro punto di partenza è paradossale: l’Illuminismo – nato per liberare l’uomo dalla superstizione, dalla paura e dall’ignoranza – finisce per produrre una nuova forma di mitologia. «Il mito – scrivono infatti i due autori – è già illuminismo e l’illuminismo ricade nella mitologia»[1]. Anche la ragione dunque, se assolutizzata e ridotta a unico strumento di conoscenza, può diventare quindi ideologia: un pensiero rigido e normativo che esclude ogni alterità. Invece di interrogarsi criticamente, la razionalità moderna tende a trasformarsi in strumento di dominio: razionalizza, organizza, standardizza, riducendo l’individuo a un ingranaggio del sistema. È una ragione strumentale, come la chiamano loro: non si chiede più il perché o a quale scopo, ma solo il come. Non cerca quindi il senso, ma solo ed unicamente l’efficienza.
In un mondo governato da questa razionalità funzionale – come nelle fabbriche tayloriste o nelle burocrazie moderne – l’individuo si sente sempre più alienato e il pensiero critico, la creatività e la contraddizione non hanno più spazio e vengono percepiti come difetti o come anomalie. Ed è proprio qui che emerge la figura del folle – o del genio se preferiamo – come simbolo di resistenza: in un mondo che premia la conformità e la produttività, il pensiero che osa deviare appare folle ed è proprio questa deviazione a permettere di vedere ciò che la razionalità dominante non può o non vuole vedere. Il genio, proprio come il folle, rompe gli schemi e non si accontenta delle soluzioni date, rifiutando le categorie prestabilite. Il suo pensiero può sembrare disordinato, eccessivo e illogico, ma proprio per questo è capace di creare qualcosa di nuovo. È, in un certo senso, una figura scandalosa, che mette in crisi il linguaggio ordinario, l’autorità scientifica e la rassicurante stabilità del sapere comune. In quest’ottica, la follia è una voce che la modernità ha cercato di silenziare in nome della razionalità, ma che continua a tornare, come una ferita aperta, divenendo quindi una lente attraverso cui osservare le crepe della nostra civiltà razionale.
Friedrich Nietzsche è forse il filosofo che più radicalmente ha incarnato il legame tra genio e follia. La sua scrittura aforistica, poetica e tagliente rompe gli schemi accademici, mentre il suo pensiero mette in discussione i fondamenti della morale, della verità e della razionalità occidentale. Nella Genealogia della morale scrive che la razionalità moderna è figlia del rancore e della paura e che solo chi ha il coraggio di affrontare il caos può generare il nuovo[2]. Nelle ultime lettere, firmate Dioniso il crocifisso, Nietzsche sembra identificarsi con la follia come momento estremo di verità. Ma già prima, in Così parlò Zarathustra, aveva scritto: «Bisogna avere in sé il caos per generare una stella danzante»[3]. Qui il caos – spesso identificato con la follia – non è qualcosa da evitare, ma una condizione necessaria per creare e per ripensare oltre i limiti imposti.
Nel corso del Novecento, e ancor più nel contesto postmoderno, questo intreccio assume contorni nuovi che interrogano il ruolo della filosofia stessa come sapere del limite, capace di sfiorare l’abisso senza precipitarvi. Michel Foucault, nella sua opera Storia della follia nell’età classica (1961), esplora proprio questa dinamica. Per Foucault la follia non è semplicemente un oggetto della psichiatria, ma un costrutto storico che rivela i meccanismi del potere e del sapere. «Nel momento in cui il pensiero moderno prende coscienza di sé – scrive infatti Faucault – scopre nel folle non più un altro mondo, ma un altro da sé». Si tratta quindi di un rifiuto della follia e di un’alterità che la razionalità moderna ha escluso per legittimarsi. Questa riflessione apre la strada a una concezione della filosofia come controdiscorso o antidiscorso capace di ridare voce a ciò che è stato espulso: il delirio, l’eccesso, il non-detto e il non-dicibile. La grande reclusione dei folli nel XVII secolo, che il filosofo francese richiama nel testo, mostra proprio come la società moderna abbia cercato di neutralizzare il potenziale sovversivo della follia riducendola unicamente ad anomalia da rinchiudere. Eppure, in autori come Hölderlin, Artaud o Nietzsche, Foucault riconosce un altro volto della follia: quello di una parola che sfida la razionalità e la scardina dall’interno. «Nella follia – scrive a questo proposito Faucault – la cultura riconosce un momento di verità e di ritorno su se stessa»[4].
Gilles Deleuze, insieme a Félix Guattari, in L’Anti-Edipo: capitalismo e schizofrenia (1972), radicalizza questa posizione, leggendo la follia non come malattia, ma come produzione desiderante. Il folle è colui che rifiuta il regime edipico e le sue costrizioni, aprendosi a nuovi modi di essere e di pensare. In questo senso la follia diventa una forza creativa e sovversiva, capace di generare nuovi territori dell’esistenza. Il genio, allora, non è colui che è dotato di una razionalità superiore, ma colui che sa abitare i margini, che sa pensare altrimenti: «non siamo malati – scrivono infatti i due autori – siamo portatori di flussi»[5].
Anche Jacques Lacan, nel suo ritorno a Freud, interpreta la follia come una forma radicale di verità. In Scritti (1966) Lacan afferma che «la follia è la verità dell’uomo»[6]. Essa non è qualcosa da rimuovere, ma una dimensione costitutiva del soggetto, che si confronta con il reale e con l’impossibilità di simbolizzarlo. Il genio, nella lettura lacaniana, è colui che riesce a dare forma a questo impossibile e che crea parole nuove dove il linguaggio vacilla.
Jacques Derrida, nella sua riflessione decostruzionista, riconosce nella follia un elemento strutturale del pensiero. Nell’articolo Cogito e la storia della follia, contenuto nel testo La scrittura e la differenza(1967), Derrida contesta a Foucault di voler escludere la follia dalla razionalità cartesiana. Per Derrida, infatti, non è possibile pensare, senza assumere anche la possibilità della follia poiché ogni sistema è sempre minacciato dalla sua propria instabilità interna. Il genio, in questo senso, è un operatore di instabilità, colui che mostra l’inconsistenza delle fondamenta del sapere. «Non vi è sistema – afferma Derrida – senza punto di rottura e senza follia che lo attraversi»[7]
Nel contesto italiano, Franco Basaglia, con L’istituzione negata (1968), porta la riflessione sulla follia nel cuore del dibattito politico e sociale. Per Basaglia, infatti, la psichiatria tradizionale è uno strumento di controllo sociale e la follia è il grido di chi rifiuta l’alienazione. Il genio, in questo orizzonte, è colui che si fa carico di questo grido, che lo trasforma in parola pubblica e in gesto liberatorio. Scrive Basaglia che «la libertà è terapeutica»[8], sottolineando come la cura non possa prescindere dalla liberazione dell’individuo.
In conclusione possiamo affermare che la relazione tra genio e follia appare come una tensione costitutiva del pensiero critico. Filosofi, autori, poeti e clinici ci insegnano che l’eccesso e il fuori norma è spesso il luogo in cui nasce la vera novità. La follia diviene allora una potenzialità da ascoltare e il genio è colui che riesce a farne parola, gesto e creazione. In fondo, il rapporto tra genio e follia ci interroga su un punto decisivo: siamo davvero sicuri che il pensiero razionale sia sempre quello giusto? Non sarà possibile che, a volte, proprio ciò che appare strano, irrazionale ed eccessivo – cioè ciò che chiamiamo follia – possa essere il luogo da cui nasce il nuovo, il creativo e il rivoluzionario?
Bibliografia:
- Derrida, J. (1998). La scrittura e la differenza (G. Dalmasso, Trad.). Torino: Einaudi.
- Foucault, M. (1998). Storia della follia nell’età classica (F. Ferrucci, Trad.). Milano: Rizzoli.
- Lacan, J. (1974). Scritti (G. Contri, Trad.). Torino: Einaudi.
- Nietzsche, F. (2005). Genealogia della morale (S. Giametta, Trad.). Milano: Adelphi.
[1] Adorno, T. W., & Horkheimer, M. (2002). Dialettica dell’illuminismo. Torino: Einaudi; p.18.
[2] Nietzsche, F. (2005). Genealogia della morale (S. Giametta, Trad.). Milano: Adelphi; pp. 52-53.
[3] Nietzsche, F. (2005). Così parlò Zarathustra (S. Giametta, Trad.). Milano: Adelphi; p. 42.
[4] Foucault, M. (1998). Storia della follia nell’età classica (F. Ferrucci, Trad.). Milano: Rizzoli; pp. 14-15.
[5] Deleuze, G., & Guattari, F. (1975). L’Anti-Edipo: capitalismo e schizofrenia. Torino: Einaudi; p. 56.
[6] Lacan, J. (1974). Scritti (G. Contri, Trad.). Torino: Einaudi; p. 167.
[7] Derrida, J. (1998). La scrittura e la differenza (G. Dalmasso, Trad.). Torino: Einaudi; p. 88.
[8] Basaglia, F. (1968). L’istituzione negata: rapporto da un ospedale psichiatrico. Torino: Einaudi, p. 245.