EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

Tutti quanti noi! Chi più, chi meno.

 

di Giacomo Dallari

 

L’idea, del tutto intuitiva, secondo la quale un’informazione corretta nei contenuti induce le persone a modificare il proprio comportamento in direzione coerente con le indicazioni ricevute, non risulta sempre surrogata dai fatti. Ad una buona riuscita nel comunicare le informazioni, infatti,  non corrisponde necessariamente un adeguamento comportamentale che conduca le persone ad adottare tutta una serie di condotte ritenute salutari, dunque raccomandate. Esiste quindi una sorta di discontinuità tra conoscenza, coscienza e comportamento. Le motivazioni  potrebbero essere moltissime e molte delle quali sono del tutto naturali e umane. Chi, proprio come il sottoscritto, è un fumatore sa  benissimo che ogni sigaretta è, nei propositi, l’ultima. In certe situazioni, ammettere a se stessi l’intenzione di mettere fine ad una condotta dannosa è essa stessa una strategia per non ammettere il piacere, e con esso la vergogna, che si trae dalla stessa condotta nociva che si mette in atto. Esiste poi una forma di irrealistico ottimismo che conduce ognuno di noi, nelle più disparate situazioni, a valutare in modo distorto le probabilità che le conseguenze negative ci colpiscano effettivamente. Le raccomandazioni, inoltre, si scontrano spesso con modelli di comportamento diffusi e sedimentati nella nostra cultura per cui le vite spericolate e trasgressive di cantanti, attori e personaggi famosi risultano più persuasivi di un messaggio lanciato dal Ministro della sanità.

A tutto ciò si aggiunge poi una tendenza nascosta e silenziosa che potremo definire come una forma di scetticismo moderno e che vede come protagonista indiscusso quel personaggio che Paul Ricoeur ha definito maestro del sospetto. Certo, nelle intenzioni del filosofo francese, si trattava di una dissertazione che riguardava quelli che secondo lui erano i tre pensatori che hanno smantellato i capisaldi della civiltà occidentale – Karl Marx, Friedrich Nietzsche e Sigmund Freud – ma la definizione si adatta perfettamente anche ad un atteggiamento comune, che ritroviamo nelle strade delle nostre città, nelle pagine dei nostri social network  e che oggi preferiamo definire come cospirazionismo. «Se risaliamo alla loro intenzione comune – scrive Paul Ricoeur – troviamo in essa la decisione di considerare innanzitutto la coscienza nel suo insieme come coscienza falsa. Con ciò essi riprendono, ognuno in un diverso registro, il problema del dubbio cartesiano, ma lo portano nel cuore stesso della fortezza cartesiana. Il filosofo educato alla scuola di Cartesio sa che le cose sono dubbie, che non sono come appaiono; ma non dubita che la coscienza non sia così come appare a se stessa; in essa, senso e coscienza del senso coincidono; di questo, dopo Marx, Nietzsche e Freud, noi dubitiamo. Dopo il dubbio sulla cosa, è la volta per noi del dubbio sulla coscienza»[1]. Si tratta, dunque, di un atteggiamento che va oltre il dubbio metodologico di cartesiana memoria, inteso quindi come strumento di conoscenza e attitudine al sapere, e abbraccia e include il dubbio come connaturato alla nostra essenza, per cui anche noi ne facciamo parte: la verità è dunque una menzogna.

Quante volte le spiegazioni di eventi storici, di fatti imprevedibili  o di semplici circostanze, sono legate all’ipotesi che ci sia dietro qualcosa, che ci sia quel che si dice un grande burattinaio che ne muove i fili. Da una parte, si potrebbe ammettere che siano semplicemente delle spiegazioni con una forte connotazione paranoide – dei puri  assurdi  del pensiero – dall’altra parte, però, sembrerebbe che queste teorie del complotto vadano incontro ad una esigenza profonda dell’essere umano e cioè, di fatto, quella di dare un senso alle cose e di evitare quello che, in ultima analisi, è la cosa peggiore che ci possa capitare: la casualità.

Massimo Polidoro, scrittore, giornalista e segretario nazionale del Cicap – Il Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze, in un’intervista rilasciata per Rai Storia[2], ammette che ci possano essere dei fatti al di fuori del nostro controllo diretto e che possano avere le caratteristiche di un vero e proprio complotto come, ad esempio, la cospirazione ai danni di Giulio Cesare, Nixon e lo scandalo Watergate, ma chi vede complotti un po’ dappertutto, commette l’errore di mettere insieme coincidenze e fatti che sembrano andare in una determinata direzione, ignorando nello stesso tempo e consapevolmente tutto ciò che contraddice ciò che si tenta di difendere e dimostrare: in prima istanza si prende quindi una tesi preconcetta e si va in cerca delle prove a suo sostegno e si ignora tutto il resto. È un modo per cercare una spiegazione comprensibile e diretta a fatti particolarmente complessi che richiederebbero conoscenze specifiche, abilità particolari e che magari escono dal cosiddetto senso comune. Più queste teorie vengono smontate pubblicamente, più ne si dimostra l’inconsistenza, maggiore è la credenza che in molte persone si sviluppa.

È però abbastanza riduttivo ritenere che l’anima del complotto sia una semplice ed umana richiesta di spiegazione. Non è possibile, infatti, ammettere unicamente che la sola complessità di alcune questioni, giustifichi tout court l’idea che tali questioni siano celate o modificate volutamente da qualcuno o da qualcosa proprio per renderle incomprensibili e agire quindi alle loro spalle come fossero “specchietti per le allodole”.

Sembra quindi lecito porsi alcuni interrogativi: quando parliamo di complotto, a cosa ci riferiamo? Chi sono le persone che abbracciano questo modo di interpretare il mondo? Per quale motivo?

Per rispondere a queste domande è necessario scomodare alcuni dei più importanti studiosi ed interpreti del pensiero cospirazionista  e, nel farlo, tentare di tracciare un possibile percorso di liberazione da una forma di ragionamento tanto subdola, quanto pericolosa.

Uno dei più eminenti studiosi del pensiero cospirazionista, l’americano Rob Brotherton, comincia con il delineare la difficoltà di definire in maniera esaustiva la mentalità complottista e, di conseguenza, di dare una definizione chiara di cosa sia un complotto. Definire un complotto come una teoria secondo la quale una serie di eventi o di fenomeni si verifichino come diretta conseguenza di un piano ordito da alcune parti interessate, se da una parte ne stabilisce la struttura, dall’altra non riesce a descriverne i contenuti metodologici e psicologici. L’autore, quindi, preferisce non tanto darne una definizione univoca e onnicomprensiva, quanto darne una definizione pratica, che risulti sufficientemente utile per comprendere cosa sia un complotto.  Egli descrive le teorie del complotto come una modalità, sicuramente particolare, per fornire delle spiegazioni la quale possiede delle caratteristiche peculiari e comuni a tutte le teorie complottistiche. Brotherton evidenzia quindi alcuni elementi che compongono quello che lui definisce «il prototipo della teoria del complotto»[3] .

Il nostro maestro del sospetto, innanzitutto, ha una caratteristica peculiare: pone domande senza risposte o, meglio ancora, tratta gli argomenti in modo tale da non avere una risposta definitiva. È tipico di un complottista deviare in continuazione gli argomenti, sovrapponendo contenuti che appartengono a classi di ragionamento differenti e piani concettuali diversi. Un complotto, infatti, non si limita a descrivere semplicemente un evento accaduto o un semplice fatto, ma comprende un insieme di azioni più ampio e concettualmente molto vasto. Spesso una cospirazione non ha fine: se si smaschera uno dei suoi aspetti, eccone pronto un altro che arriva a sostegno dell’idea complottista originaria e via così. Il suo vero obbiettivo è rivelare trame finora sconosciute, nella speranza di far conoscere alle masse, ancora ignare e ingenue, la verità ultima, nascosta sotto il velo delle macchinazioni dei cospiratori. Si tratta quindi di una strategia che fa leva sull’idea di una verità che si lascia solo intravedere, ma non si lascia afferrare del tutto e scivola via saltellando qua e là tra piani concettuali differenti e, spesso, inconciliabili tra loro. La mancanza di risposte è quindi una sorta di carburante che alimenta il motore del complotto: se arrivassero le risposte – quelle vere e oggettive – l’idea di fondo del complotto crollerebbe miseramente aprendo le porte alla banale realtà. Di conseguenza, il pensiero cospirazionista si muove all’interno di un sistema nel quale le risposte sono praticamente impossibili e, nel migliore dei casi, generano ulteriore linfa che va ad alimentare l’aspetto misterioso ed enigmatico di cui le cospirazioni si cibano.

Ciò conduce ad una seconda caratteristica del cospiratore: nella sua concezione del mondo, nulla è come appare. Un virtuoso della teoria del complotto, infatti, è abilissimo a travisare le informazioni, deformare la realtà a proprio uso e consumo e ha produrre unicamente idee che non fanno altro che alimentare la sua visione del mondo. La capacità di generare un’idea simile implica necessariamente un altro elemento dello stile cospirazionista: tutto, ma proprio tutto, è sotto controllo. Il controllo da parte di un indefinito qualcuno, infatti, è una sorta di placet illimitato e indeterminato e, ovviamente, non dimostrabile in termini oggettivi. Il controllo, inoltre, necessità di straordinarie doti organizzative e logistiche per cui, spesso, i cospiratori vengono descritti come straordinariamente intelligenti. I più grandi teorici del complotto sembrano nutrire una sorprendente fiducia nelle capacità dei loro nemici e Brotherton spiega che le teorie complottiste ritraggono i cospiratori come persone dotate di competenze fuori dal comune, «praticamente dotati di onnipotenza»[4] e ovviamente liberi dai lacci dei grandi meccanismi sociali e culturali della storia e del presente.

Altro aspetto fondamentale è la minuziosa attenzione che i maestri del sospetto dedicano alla ricerca e all’accumulo di anomalie delle teorie ufficiali, trasformandosi in accaniti investigatori e ricercatori. Questo atteggiamento si alimenta, secondo Brian Keeley, filosofo e autore di un interessantissimo saggio dal titolo Of Conspiracy Theories, proprio per una loro caratteristica interna:  «i complotti, incredibilmente, spiegano sempre di più rispetto alle teorie concorrenti». Ma tutto ciò è una semplice illusione perché, come continua Keeley, «data la natura imperfetta della comprensione che l’uomo ha del mondo, dovremmo aspettarci che perfino la teoria migliore in assoluto non riuscirebbe a spiegare tutti i dati disponibili»[5]. Le spiegazioni, in molti casi, non viaggiano sul piano razionale, ma preferiscono utilizzare l’afflato emotivo che, per sua natura, è facilmente influenzabile. In molte circostanze le teorie complottiste trovano spazio tra gli individui che, ad una straordinaria forza di carattere che mostrano nel momento in cui sono chiamati a difendere la loro idea, non fanno corrispondere una solida sicurezza personale. Piuttosto che affrontare la banale e triste realtà, preferiscono costruirne una del tutto nuova e, ovviamente, sentirsi degli “eletti” tra ingenui creduloni .

A conclusione del quadro del nostro prototipo di maestro del sospetto troviamo la natura inconfutabile delle teorie cospirazioniste: esse sono immuni da qualsiasi confutazione. Spesso, infatti, utilizzano proprio la confutazione come perno su cui aggiungere altri enigmatici messaggi:  «se sembra un complotto – continua ironicamente Brotherton – significa che è un complotto e se non sembra un complotto, era sicuramente un complotto. Le prove contro la teoria del complotto diventano prove del complotto stesso»[6].

Ricapitolando potremo quindi provare non tanto a definire cosa sia un complotto, ma a delinearle le sue caratteristiche peculiari:   è una domanda a cui non è stata data risposta e a cui non è possibile dare una risposta; presuppone irrimediabilmente  che nulla è come sembra; ritrae i cospiratori come persone dotate di competenze fuori dal comune e straordinariamente malvagie; si basa su una ricerca serrata dell’anomalia; ed è, in ultima analisi, inconfutabile. Far cambiare idea a chi crede in un complotto, infatti, è praticamente impossibile: solitamente rifiutano qualsiasi prova che non si adatti perfettamente alla loro visione del mondo e accettano esclusivamente prove che confermano convinzioni preesistenti. Rifiutano qualsiasi cosa contraria alla loro idea, sostenendo  che il motivo principale è che chi è contrario, faccia parte del complotto stesso. Pongono la questione in maniera tale da rendere impossibile qualsiasi forma di dibattito o dialogo ed entrano in una stato mentale in cui credono che il loro interlocutore sia il male assoluto.

Non ci resta, in conclusione, che provare a definire il profilo del complottista, cioè del  tipo di persone che tendono a ragionare per complotti. Anche in questo caso, però, Brotherton è lapidario e non lascia spazio a dubbi: «tutti quanti noi, chi più chi meno […]. Le teorie del complotto sono come sono perché rappresentano un prodotto della fantasia di qualcuno  e sono popolari perché si allineano con l’immaginazione di altre persone»[7].

Bibliografia

  • Brotherton, Menti sospettose, Tr.It. di G.L.Giacone, Bollati Boringhieri, Torino, 2017.
  • L.Keeley, Of Conspiracy Theories, In Journal of Philosophy, n°3, 1999.
  • Paul Ricoeur, Dell’interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano, 2002.

 

[1] Paul Ricoeur, Dell’interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano, 2002, p.46.

[2] http://www.raiscuola.rai.it/articoli/toolbox-ii-filosofia-la-teoria-del-complotto/38695/default.aspx.

[3] R. Brotherton, Menti sospettose, Tr.It. di G.L.Giacone, Bollati Boringhieri, Torino, 2017, p. 75.

[4] R. Brotherton, Menti sospettose, Tr.It. di G.L.Giacone, Bollati Boringhieri, Torino, 2017, p. 66.

[5] B.L.Keeley, Of Conspiracy Theories, In Journal of Philosophy, n°3, 1999, p. 119.

[6] R. Brotherton, Menti sospettose, Tr.It. di G.L.Giacone, Bollati Boringhieri, Torino, 2017,p. 72.

[7] R. Brotherton, Menti sospettose, Tr.It. di G.L.Giacone, Bollati Boringhieri, Torino, 2017, p. 75.

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