di Gianfranco Brevetto
Le nuove strade di ricerca dell’antropologia incrociano inevitabilmente il virtuale. Non potrebbe essere altrimenti. ll virtuale, in fondo, ha come punto di riferimento sempre l’uomo. Marco Aime, antropologo attento, si confronta con questi temi con l’atteggiamento di chi vuol osservare, conoscere, raccontare.
– Cosa significa oggi guardare la realtà con gli occhi dell’antropologo?
– Credo che sia tentare di coglierne i processi in divenire. Forse è il contributo che può dare l’antropologia alla comprensione della società attuale che stenta ad essere letta con le categorie delle discipline classiche, come la storia, l’economia e la stessa sociologia. Ci troviamo di fronte ad una accelerazione improvvisa, ad un quantità di flussi d’informazioni d’immagini di persone, di capitali che si muovono continuamente. Nel momento in cui il mondo occidentale, in cui viviamo, comincia ad essere frequentato da persone che prima stavano altrove, l’esperienza storica dell’antropologia, di contatto con gli altri e con la diversità, può essere recuperata per capire alcune dinamiche. Oggi si tratta, in primo luogo, di guardare noi stessi con gli occhi degli altri: è questo il valore aggiunto che oggi, credo, l’antropologia possa dare.
– Professore, noi immaginiamo gli antropologi nella visione classica ottocentesca, legati ai popoli primitivi, ai mondi inesplorati. Ma come si pone oggi l’antropologo nei confronti della realtà virtuale?
– Sì, nell’antropologia classica prevaleva lo sguardo dell’occidente sugli altri. Oggi assistiamo principalmente a sguardi incrociati, gli antropologi vengono dall’India, dall’Africa, dalla Nuova Zelanda. Guardano noi, guardano se stessi, quindi tutto è divenuto più complesso. Io non amo molto la distinzione virtuale e reale, preferisco dire on-line e off-line. In antropologia diamo molta importanza al simbolico, quello che definiamo virtuale alla fine è reale, io credo che tutto il mondo del web sia un terreno di esplorazione. Nel web stanno avvenendo dinamiche che, per certi versi, ripropongono quelle dell’ off-line, ma con delle differenze. Ad esempio, la rete non ha sviluppato ancora un lessico propriamente suo, tant’è vero che spesso si usa community, che è tipico della sociologia più che dell’antropologia. La community storica era radicata ad un territorio, la rete è quanto più deterritorializzato ci sia. Ci sono forme di aggregazione che non prevedono più un rapporto face to face, ad esempio posso creare un forum di discussione con gente che sta in cinque continenti diversi: basta mettersi d’accordo sull’ora.
La rete diventa un terreno di ricerca, studiare il web è una cosa molto difficile perché le cose succedono con una rapidità impressionante: si rischia di arrivare a delle conclusioni quando le cose sono già accadute. Credo che, uno degli errori che si è fatto un po’ tutti all’inizio, sia stato studiare le due realtà separate, quella on line e quella off line. Ma è anche molto interessante studiare come le due cose dialogano, penso, ad esempio, alle primavere arabe che nascono sul web ma poi si trasformano in manifestazioni di piazza concrete. Il web è uno degli oggetti di studio principali negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, dove sono molto più avanti negli studi sui social network. Importante è capire in che modo noi interagiamo e soprattutto l’uso che viene fatto di questi gadget elettronici in relazione alle generazioni. La mia generazione è di migranti digitali, siamo arrivati all’uso di queste tecnologie, lo smartphone lo vedo ancora come un sostituto del telefono, ma per un adolescente di oggi è un’altra cosa. Non è un telefono perché non sanno cosa è un telefono, i bambini non sanno riconoscere un vecchio telefono. Gli adolescenti guardano al mondo attraverso questi gadget, noi dobbiamo costruire strumenti per capire quanto sta avvenendo, ma forse sarà più facile per le generazioni successive. Noi viviamo ancora in un sistema ibrido, a scuola si studia ancora su dei libri e si scrive su dei quaderni, quindi siamo ancora in un modello in cui il digitale è presente ma non è ancora totalizzante e pervasivo
– Totalizzante, pervasivo e anche ineluttabile?
– Sì, come spesso accade. Come è successo credo quando hanno inventato la scrittura o il fuoco. Quando si introduce una nuova tecnologia all’inizio c’è molto scetticismo, c’è sempre una visione apocalittica verso tutte le innovazioni perché mettono in gioco quello che sappiamo fare. Si stratta di quelle rivoluzioni epocali e, più che contrastarle, bisogna imparare a gestirle. Certo, ci sono degli usi distorti ma pensiamo, ad esempio, che oggi per un tuareg nel deserto l’iphone è una salvezza. Oggi si telefona agli amici dai villaggi più sperduti anche solo per salutare, per gli immigrati significa tenersi in contatto con le famiglie. Tutte le tecnologie non sono mai tutte buone o tutte cattive, anche con il nucleare possiamo far guarire un tumore o ammazzare centinaia di migliaia di persone.
– Rimane comunque una differenza tra un altro da sé reale e un altro da sé virtuale.
– Questo è uno dei problemi che vanno affrontati, l’altro virtuale non solo non possiede un corpo, ma non c’è quel fattore emotivo che c’è nell’incontro, la simpatia, il carattere. Attraverso il digitale queste cose vengono meno e c’è anche la possibilità di nascondersi dietro un’identità fasulla: posso essere chi voglio, avere identità multiple. Sono campi ancora da studiare. In alcuni casi, però, permette di abbattere blocchi inibitori proprio perché non c’è il pathos dell’incontro faccia a faccia.
– Rispetto alla concezione classica del dono, quella del dare-ricevere-restituire, cosa accade in rete?
– La rete espande enormemente la possibilità del dono, io posso donare a mezzo mondo e spesso non so da chi ricevo. C’è, tuttavia, un elemento essenziale che segna la differenza con quello che è il dono classico, nella concezione di Mauss, e sta tutto nella parola condivisione. Io posso regalare tutta le mia biblioteca musicale senza perderla, la condivisione porta ad una forma di dono che non comporta una perdita. La rete ha dato vita ad un serie di doni, come ad esempio le recensioni degli alberghi o ristoranti. Il fatto che io perda il mio tempo in una recensione in fondo è una sorta di dono che io faccio a quell’hotel o a quel ristorante. I forum tematici : ho un problema alla moto e qualcuno mi dà un consiglio, anche wikipedia è un dono, ognuno scrive, corregge, contribuisce.
– Anche un like su facebook?
– Anche un like, è un dono.
– Infine, come può l’antropologia rispondere ad un problema come quello della paura, la paura, ad esempio, dell’altro…
– È un problema difficile. L’antropologia non può rispondere se non cercando, attraverso le esperienze, di far capire che l’incontro con l’altro è sempre avvenuto, ci siamo mescolati tanto, sia geneticamente che culturalmente. Se partiamo dall’idea che abbiamo una cultura pura, e vediamo tutto il resto come una contaminazione, non andiamo molto avanti. Noi usiamo numeri arabi, mangiamo cibo che viene da tutto il mondo, cose come queste sono sempre avvenute. La differenza è che oggi avviene molto in fretta e ne abbiamo subito la percezione, se arriva oggi un barcone dall’Africa a Lampedusa lo sappiamo in diretta, una volta lo sapevi dopo tre giorni. Questa percezione, continua e ansiogena, è amplificata dai media. Bisogna ancora lavorare molto per smontare i pregiudizi e contestualizzare il tutto nel corso della storia dell’evoluzione di questi fenomeni.
(l’intervista è stata realizzata nel corso del festival Dialoghi sull’Uomo 2017 – Pistoia)