EXAGERE RIVISTA - Ottobre - Novembre - Dicembre 2024, n. 10-11-12 anno IX - ISSN 2531-7334

Un sentiero contiene tante verità quante sono le persone che lo percorrono. Intervista a David Le Breton

di Gianfranco Brevetto

Camminare fa parte di quelle pratiche che lentamente vengono riscoperte in una società che non risponde più alla domanda di senso dell’esistenza. Ognuno va verso proprio santuario interiore, ci dice il sociologo David Le Breton nel suo ultimo libro La vita a piedi, una pratica della felicità (Cortina Editore). Professore, camminare, passeggiare, non è solamente un’attività fisica. Al di là dello sforzo, si possono ritrovare risorse poco conosciute, quali ad esempio ?

– Nelle nostre società materialistiche contemporanee, camminare diventa un tuffo in se stessi, per poche ore o poche settimane, un allontanamento dalle preoccupazioni della vita quotidiana, e un’immersione nel pensiero e nello sforzo, nell’interiorità, nell’attenzione all’ambiente, nell’essere disponibili a ciò che accade. In un mondo utilitaristico, dove tutto è necessario,  il camminare fa appello alla passione per l’inutile. Non serve a nulla se non a passare il tempo. Non porta nulla in termini finanziari o professionali, ma è fertile nella scoperta di sé, nell’intensità dei momenti vissuti, negli incontri, nella pacificazione. Pura generosità del vivere senza ulteriori giustificazioni. Concilia vita contemplativa e movimento fisico. Certo, il camminare va scelto, desiderato. Non si tratta qui delle marce dolorose dei rifugiati, dei migranti o degli uomini e delle donne di strada che sono costretti a una mobilità senza fine. Né è quella dello sportivo ossessionato dalla prestazione o dal mantenimento della sua forma fisica, né di quello che calpesta per ore il tapis roulant di una palestra guardando il suo smartphone.

  Sui sentieri il camminatore vive nella pienezza dell’unico potere del suo corpo, nel giubilo di sentirlo in ogni momento, nel sentirsi reale nei passi compiuti. Ma è lui solo che decide l’intensità dello sforzo previsto. Nessuno lo costringe ad andare più veloce o rallentare. Si abbandona allo spazio circostante: assapora il sole o la pioggia, il vento, la neve o la grandine. Si bagna in molteplici odori. Si confronta con un mondo che non aveva mai sentito prima. Vede sorgere l’alba o calare la luce con l’avanzare del giorno. Un’esperienza elementare, un ritorno al corpo attraverso un mondo liberato dalla pastoia tecnologica. Vive finalmente nell’ambiente che lo circonda, è immerso nell’immensità dell’esterno, abbandonato a se stesso, alla sua libertà. Si spoglia di tutte le comodità ma anche di tutto ciò che grava sulla sua esistenza. Camminando cambiamo il nostro corpo, le nostre percezioni sensoriali, le nostre emozioni, il nostro tempo, il nostro spazio. Ritroviamo la dimensione tellurica della condizione umana.

   Facciamo scorta di momenti privilegiati, momenti di grazia in cui ci sentiamo appassionatamente vivi. Alcuni luoghi danno la sensazione di attraversare un confine invisibile che si lascia alle spalle il mondo profano della vita quotidiana per entrare in un altro universo. Lungo il percorso i sensi si affinano e aumenta l’attenzione all’ambiente, agli animali, la sensazione di fondersi nello spazio e di parteciparvi in ​​modo sconosciuto ma tangibile. Qualsiasi rottura scompare. Non siamo più davanti al paesaggio, ma in esso confusi con tale insistenza da far sospettare in certi momenti il ​​desiderio del genius loci di dare il meglio di sé per riportare il viaggiatore a ricordi che sembravano scomparsi. Ho sentito spesso questa sensazione di una sorta di necessità di essere lì, questo tipo di illuminazione profana, come se tutta l’esistenza finisse in questo luogo a quell’ora precisa con questa luce che appariva l’unica possibile. Eravamo attesi, ma è impossibile esprimere a parole questa sensazione. Una sorta di momento cosmico di apertura al mondo, un privilegio che richiede di uscire dalla routine di casa propria.

– Lei scrive : noi non sogniamo le nostre escursioni a piedi, sono loro che ci sognano. Può spiegarci meglio questa bella e emozionante frase ?

– Il lavoro di preparazione, il sogno ad occhi aperti che precede la passeggiata, l’evocazione sul ritorno dei momenti salienti della compagnia, liberano esplosioni di immaginazione, creano un momento di rottura con le solite temporalità, un’esplosione temporanea del gusto di vivere. Sogniamo davanti alla mappa, davanti ai racconti che leggiamo sul percorso che vogliamo intraprendere, ricordiamo le parole udite dalle bocche dei camminatori che hanno già percorso gli stessi percorsi. Sogniamo i nomi dei luoghi che andremo ad attraversare. Sogniamo questa parentesi incantata dove le nostre preoccupazioni saranno alle nostre spalle e dove affronteremo un mondo che ancora non conosciamo. C’è anche un dialogo tra il paesaggio e il camminatore, lui non è davanti all’ambiente ma dentro, immerso in esso, nella sua risonanza. I paesaggi ci sognano tanto quanto noi li sogniamo. Essi abitano in noi come noi li attraversiamo, in tanto che noi li abitiamo.

L’homo caminans, è un modello antropologico del quale lei parla nel suo libro. Di cosa si tratta?

– L’acquisizione della posizione eretta e  l’emergere del bipedismo nell’uomo, ha liberato le mani e il viso, il viso non è più il muso. La bocca ora è favorevole al linguaggio, e questa metamorfosi ho accresciuto lo sviluppo del cervello e le facoltà di simbolizzazione, il passaggio dallo zoologico al culturale, dall’unità di una specie alla sua infinita diversificazione da un luogo e tempo all’altro. L’acquisito ora supera infinitamente l’innato, questa malleabilità induce l’estrema diversità di culture e di individui attraverso lo spazio e il tempo. Il bipedismo inventa il camminare, alza la testa e la rende più flessibile. Raddrizzando i nostri lontani antenati, ha dato loro una visione più ampia delle savane per scrutare l’ambiente circostante in cerca di selvaggina o per avvistare meglio predatori o altri ostili gruppi. La ricerca del cibo è stata facilitata, il trasporto di armi o attrezzi, bambini… I nostri piedi sono all’origine delle civiltà, ma queste ultime sono supportate dalle mani, dalle possibilità tattili e dalla palpazione, dalla destrezza dimostrata creando strumenti sempre più sofisticati. Dalla loro capacità di designare un animale durante la caccia, di segnalare un pericolo senza ricorrere alla parola, la loro importanza nella comunicazione. Le mani cessano quindi di essere strumenti di locomozione. Tutto il corpo si trasforma in un processo evolutivo, ma soprattutto il piede. Il pollice dell’antropoide è opponibile alle altre dita per afferrare i rami mentre avanzano su un albero, ma il pollice del piede degli uomini non è opponibile alle altre dita. Questa piccola differenza apre la strada all’umanità perché consente di camminare, di essere veloci nell’inseguimento o nella fuga, cose che sarebbero che sarebbero difficili con un alluce non in posizione laterale. Altre specie, ancora oggi, possono stare in piedi come gli orsi, gli scimpanzé, i bonobo, i gorilla, per esempio, ma su brevi distanze, occasionalmente e con meno efficienza degli umani. Il bipedismo umano permette di percorrere diverse decine di chilometri in automatico, senza troppa fatica. Favorisce non solo la camminata, ma anche la corsa, anche se manca di velocità a differenza di altre specie animali. La forza dell’homo sapiens è dovuta a questa combinazione di piedi, mani, occhi e un cervello capace d’infinite invenzioni, liberato dai vincoli della genetica o di eredità specifiche. Il corpo dell’animale è soggetto al suo modo di vivere, a differenza del sapiens che usa oggetti a lui esterni per espandere il suo potere sul mondo.

   Intorno all’età di un anno, tutti i bambini  fanno i primi passi incerti, si raddrizzano e, in pochi mesi, iniziano un viaggio personale che riproduce la storia della specie umana. Ma per alcuni nostri contemporanei questa marcia non serve più. Il paradosso di questi ultimi decenni è che il bipedismo, con conseguente camminata e corsa, la liberazione delle mani, sta portando gradualmente a una regressione. L’umanità è ora seduta, ingombra di un corpo e di un bipedismo che vede sempre più come un handicap o che difficilmente desidera utilizzare. Per i transumanisti il ​​corpo è obsoleto, non dipende dalle tecnologie contemporanee, e la loro aspirazione è di sbarazzarsene per raggiungere un altro livello all’evoluzione, quello della virtualità o delle protesi. Il bipedismo è ai loro occhi, come il corpo, una colpa delle origini, il ricordo di un’umanità eccessivamente corporea, un anacronismo. Conosciamo tutti la vignatta che mostra la lenta verticalizzazione dei primati all’homo sapiens per poi mostrarlo, oggi, seduto dietro uno schermo con un bipedismo divenuto opzionale. Fortunatamente, i camminatori che vagano felici per il mondo mantengono il legame con la specie e scherzano su questo puritanesimo ambientale nato da una nuova religione per la tecnologia.

– Essere pellegrini. Le più grandi religioni hanno camminato sulle gambe dei loro profeti. Oggi i pellegrinaggi non sono più cose riservate ai solo credenti, perché ?

– Come ho spesso scritto, ogni passeggiata inizia con un’escursione ma gradualmente si trasforma in un pellegrinaggio nel corso delle ore o dei giorni perché implica la disponibilità, la meditazione incessante, il confronto con un mondo radicalmente diverso che non è più sotto l’egida della temporalità ordinaria. Il camminare, soprattutto nel lungo periodo, unisce molteplici spiritualità, a volte aspirazioni religiose, ma il più delle volte è sacro, cioè intimo, personale, inesprimibile. Per i camminatori di Compostela, ad esempio, la fede è per alcuni una motivazione primaria, per altri questa ricerca è più diffusa, ma la rinascita di questo antico percorso di pellegrinaggio riflette una resistenza al materialismo delle nostre società contemporanee, partecipa a una ricerca di valori,  significati,  incontri,  al di là delle condizioni sociali ed economiche che regnano oggi, come il culto della merce, la concorrenza, la velocità, ecc. Ogni cammino è un compromesso diffuso tra una ricerca di spiritualità e un desiderio imperioso di rinnovamento, di una temporanea uscita da se stessi.

 Il sacro sta nel movimento stesso del cammino, nel suo procedere, nell’incanto che genera. Il suo scopo è incidentale, è un pretesto per iniziare. Quando il camminatore si avvicina alla fine del suo viaggio, a volte sperimenta una diffusa malinconia, il rimpianto che presto il sogno sarà alle sue spalle, anche se probabilmente un altro desiderio prenderà il sopravvento. La sacralità del mondo dipende solo da come lo si guarda, traduce il senso e il valore dato alla strada. Sullo stesso sentiero, o sulla stessa strada per Compostela, ad esempio, si incontrano pellegrini, escursionisti, turisti, viandanti, sportivi, uomini e donne nutriti da una convinzione religiosa cristiana, altri che non ce l’hanno più o che cercano un’altra fede. La verità del sentiero non è nel sentiero ma nella mente del viandante. Un sentiero contiene tante verità quante sono le persone che lo percorrono. Questa esperienza di felice sobrietà, alla periferia dell’ordinario vincolo sociale, nell’allentamento dei vincoli della rappresentazione sociale, si riconnette con la tradizione del Camino. Ognuno va al proprio santuario interiore. Se le nostre società elargiscono benessere materiale, lasciano incolte le aspirazioni a qualsiasi forma di trascendenza, non rispondono più alla domanda sul senso della sua esistenza. Il consumismo non blocca la ricerca del senso, la ricerca di qualcosa di sacro che giustifichi l’esistenza. Certo, il religioso non scompare, ma si frammenta all’infinito, si ricompone secondo soggettività, tende a trasformarsi in una forma intima di spiritualità. Le credenze sono un fai da te, ma senza l’autorità dei vecchi sistemi religiosi che un tempo erano più o meno comunemente condivisi. Si individualizzano e fanno i conti con il pluralismo dei sistemi di spiritualità sul mercato oppure restano intimi, difficili da descrivere agli altri. Il camminatore sperimenta la sensazione di essere connesso al mondo, di avere un posto in esso.

   L’uomo contemporaneo tende a rifiutare il religioso ma vive spesso momenti di trascendenza profana. Camminare, in generale,  fa sentire il camminatore appassionatamente vivo. È un’immersione nella sovrabbondanza del mondo, una sete di andare oltre le apparenze organizzate e asettiche delle nostre città o delle nostre campagne, è penetrare il più da vicino possibile in questa abbondanza che abbiamo smesso di vedere a causa degli schermi, delle tecniche che ora trasmettono qualsiasi relazione con il mondo. Prendendo la strada dei campi, prendendo i  sentieri piuttosto che le strade, giocando sulla lentezza del loro procedere, si svelano altre dimensioni dell’ambiente. Camminare è alzare di nuovo gli occhi sul proprio ambiente, purificare lo sguardo dalle routine che ti fanno non vedere più molto intorno, é spezzare l’ipnosi dei cellulari o degli schermi.

– I giovani restano spesso rinchiusi, ora complice anche la pandemia, nelle loro camere. Come spingerli a uscire e a mettersi in cammino ?

– La sedentarietà dei nostri giovani è un enorme problema di salute pubblica ma soprattutto di connessione con gli altri, di sentimento di appartenenza e di gusto per la vita. Questi sono prostrati tutto il giorno davanti al loro smartphone. Uso di proposito il vocabolario religioso. Hanno gli occhi bassi in un atteggiamento di sottomissione alla tecnica. Incarnano drammaticamente quella che ho spesso chiamato umanità seduta. I loro corpi non li servono più molto. È una sorta di rottura antropologica. Reclusione in un ambiente sociale formattato dal marketing, che sappiamo anche avere un forte impatto sulla difficoltà per loro di identificarsi con gli altri. La dipendenza dai social network porta a una diminuzione dell’empatia. Eppure si potrebbe dire che la spesa, l’impegno fisico per il mondo è una necessità antropologica. Se non si realizza nelle attività ordinarie, cerca compimento altrove. Durante i confinamenti legati all’emergenza sanitaria, adolescenti in cerca di sensazioni,  per sentirsi ancora vivi dopo giornate davanti al proprio smartphone, hanno cercato artificialmente un tumulto fisiologico ricorrendo al protossido di azoto, un gas esilarante contenuto soprattutto nelle bombolette di  panna montata. La piccola cartuccia viene svuotata in un palloncino prima di essere inalata. Questo gas esilarante a buon mercato si trova nei supermercati, non ha la reputazione di una droga e promette qualche minuto di euforia spesso accompagnata da risate incontrollabili. I suoi effetti sono temporanei e non impediscono loro, una volta superata la crisi, di ricongiungersi alle proprie famiglie come se nulla fosse. YouTube svolge un ruolo di iniziatore perché molti giovani pubblicano il video dove inalano il gas e si mostrano in questo stato di coscienza modificata che dà agli altri il desiderio di imitarli. Ma questa risata può costare caro, danni neurologici, allucinazioni, difficoltà respiratorie, ecc. Questi rischi sono aumentati dall’assunzione simultanea di alcol o droghe. Un’altra versione della scomparsa di se stessi che dura pochi minuti ma alleggerisce il peso dell’essere se stessi in una forma che sembra piacevole per certi giovani che non misurano il pericolo.

  In questo senso si comprende quanto il camminare sia uno strumento di apertura al mondo, di trasmissione, di apprendimento della libertà, sia che si cammini con i genitori o con gli amici. Ma d’altra parte, sempre di più, ne parlo nel libro, il camminare è usato dagli operatori del sociale per aiutare i giovani in crisi. Questi partono per settimane con un accompagnatore, senza musica, senza cellulare e in un paese con un’altra lingua. I giovani sollecitati in questi percorsi sfuggono a ogni cura, irriducibili, spesso attraversati da cruda sofferenza e da un infinito tumulto interiore, ribelli a ogni disciplina. Le comunità in cui si trovano,a volte, non hanno altra funzione che quella di allontanarli dai legami sociali dove la loro turbolenza è vissuta male dai parenti o dal vicinato. Vivono nel rifiuto di dare o di ricevere, in un vicolo cieco dell’esistenza. Girano in un tempo circolare che è quello del male di vivere con le proprie routine. Facendoli camminare, gli operatori cercano di aprir loro una porta, di creare una bella via di fuga che consenta di lasciarsi alle spalle ciò che li opprime ,per poter finalmente prendere il volo. Camminare può interrompere una storia personale dolorosa.


David Le Breton

La vita a piedi

Una pratica della felicità

2022, Raffaello Cortina Editore

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