EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2024, n. 1-2 anno IX - ISSN 2531-7334

Uscire da ogni possibile isolamento. Intervista a Francesca Magni

di Federica Biolzi

 

Iniziamo così. Filippo è un ragazzino. Filippo, tra l’altro, va a scuola, è simpatico e intelligente. Lui è un bambino speciale, speciale come lo sono tutti i ragazzini della sua età. Ma lui è speciale in modo particolare: a lui piace disegnare le parole. Lui è semplicemente e argutamente dislessico. Filippo ha una mamma: Francesca, con la quale condivide molte delle sue storie. Da questo scambio, in cui tutto è possibile, Francesca Magni, giornalista, scrittrice e mamma di Filippo, ne ha tratto anche il suo libro Il bambino che disegnava parole, edito da Giunti.

– Perché scrivere un libro su questa esperienza con Filippo?

– Credo che la risposta stia in una forma d’urgenza. Noi, abbiamo scoperto la dislessia, quando mio figlio aveva 12 anni, quindi tardi. Ci ha colti di sorpresa, essendo sia io che mio marito giornalisti, avremmo dovuto sapere, avrei dovuto conoscere il problema e invece non ne sapevo niente.

– …e cosa avete fatto?

– In un primo tempo abbiamo provato una sensazione di solitudine e d’incomprensione anche rispetto agli amici più intimi. Forse perché la dislessia è ancora qualcosa che non si capisce, che si ingigantisce o si sminuisce, si oscilla sempre, a volte addirittura si nega. L’intera comunità scientifica la definisce come una neuro-varietà, come essere mancini, lo sei per tutta la vita. Ci sono dei momenti in cui la dislessia ti crea dei problemi funzionali, nel senso che se la scuola non è attrezzata a farti studiare a tuo modo, sei in difficoltà anche se ti è possibile raggiungere qualunque obiettivo. Conoscendo meglio la dislessia e la sua natura neurobiologica, quindi ereditabile, abbiamo capito che nella nostra famiglia ci sono molte persone che sono dislessiche, mio marito ad esempio… E mio padre, un uomo colto e bizzarro, che è diventato un chirurgo pediatra stimato ed è riuscito nei suoi obiettivi.

– Ritorniamo al perché del libro…

– Ho pensato che scrivere un libro volesse dire uscire da ogni possibile isolamento. Filippo, ha approvato il progetto e mi ha detto: mamma, fai bene perché tutti devono sapere!  È vero, c’è la dimensione personale, affettiva, la privacy, ma io credo che ci dobbiamo vergognare solo delle cose cattive che facciamo, non certo di come siamo fatti. Raccontare la mia storia è un modo per sentirsi vicini ad altri che come noi hanno esperienze analoghe alle nostre.

– Raccontaci di Filippo, cosa fa adesso?

– Filippo ora ha 16 anni e, dopo due anni di liceo classico, frequenta il liceo artistico. Lui ama da sempre progettare, disegnare, ma anche scrivere, ha un suo stile, inventa e reinventa spesso le parole. Io lo vorrei protagonista della sua narrazione e forse, in qualche modo, l’ho reso tale, scrivendo questo libro.

– In un’intervista rilasciata qualche tempo fa sostieni che bisogna unirsi per ottenere qualcosa. Pensi che questo sia sufficiente per affrontare tematiche delicate come la dislessia?

Io penso che andare avanti uniti sia sempre fondamentale. Con uniti intendo noi genitori, ma anche uniti con gli insegnanti. È necessario superare questo apparente contrasto che quotidianamente viviamo con la scuola. L’obiettivo è arrivare ad una triplice alleanza, dove ognuno fa la sua parte per aiutare questi ragazzi: dal lato della scuola, della famiglia e dei professionisti che operano nel settore, logopedisti, psicologi, neuropsichiatri. Sull’essere uniti non ho alcun dubbio, penso che sia un’esigenza che ancora non ha trovato veramente risposta e mi ci scontro ogni volta che vado a presentare il libro. 

– Cosa vuol dire per te, giornalista, avere un figlio dislessico?

– Ho anche il marito dislessico e giornalista…! Penso che essere dislessici sia come essere miopi, mancini, o essere stonati. Ma la dislessia s’inserisce all’interno di una persona, che ha un proprio carattere, una propria personalità ed una propria natura. Questa persona può arrivare a fare qualsiasi cosa.

– Perché non siamo ancora preparati o abituati alla dislessia?

– All’interno della mia famiglia la persona che ha fatto più fatica ad accettare la dislessia è stato proprio mio marito: temeva che suo figlio fosse poco attrezzato per il mondo, un mondo competitivo, richiedente e sfidante. Credo che dovremmo fare un esercizio: analizzare le tipicità e le atipicità, perché ognuno di noi ha delle caratteristiche in cui è tipico, cioè ha tratti in comune con la maggioranza delle persone, e altre in cui è atipico, cioè ha tratti in comune con la minoranza delle persone. La dislessia ci fa paura perché è un’atipicità con cui noi non siamo ancora abituati ad avere a che fare. Inoltre commettiamo l’errore gravissimo di associarla ai bambini. Si parla di bambini e di ragazzi dislessici, ma non si parla di adulti. Abbiamo bisogno di categorie facili a cui aggrapparci, e la dislessia ci porta fuori da queste categorie: ci costringe a scoprire, per esempio, che una persona che non ha difficoltà a leggere può essere intelligentissima e molto capace. La dislessia ci interroga e ci spinge ad andare più in profondità nel valutare le persone. Io stessa, ho detto a mio marito: ti voglio più bene e ti capisco di più da quando ho capito che sei dislessico.

La dislessia è fuori da alcuni schemi, ti fa vedere le persone in un’ottica più completa, ma bisogna avere il coraggio di accettare che non c’è un solo modo di ‘funzionare’. In un certo senso la dislessia è sovversiva, non la si può annoverare tra le patologie ma è una normalità diversa.

– Cosa emerge dagli incontri che hai avuto in occasione delle presentazioni del tuo libro?

Ho incontrato centinaia di famiglie e vedo che hanno tutte lo stesso bisogno: raccontare la loro storia, farsi ascoltare E chiedere: chiedere “voi cosa avete fatto?”. C’è un grandissimo bisogno di confrontare le esperienze e di fare passaparola delle buone pratiche. Ho incontrato famiglie più serene e altre ancora molto travagliate… Presento il libro in compagnia di un attore dislessico che legge alcuni brani e che mi aiuta a far emergere un messaggio in cui credo molto: bisogna arrivare a un momento in cui della dislessia si può bonariamente sorridere. L’ironia è segno che si è capito e accettato davvero. Ma alle presentazioni sono felice soprattutto quando viene qualcuno che non ha figli o parenti dislessici ed è solo incuriosito: è fondamentale fare cultura perché più persone sanno e più combatteremo il rischio di giudizi discriminatori.

– Cosa ci puoi dire del rapporto con la scuola e con l’ambiente esterno?

– Nella mia esperienza, un percorso difficile, ed in parte continua ad esserlo. Spesso noi pensiamo che a scuola ci sia un livello omogeneo di conoscenza della dislessia, invece ogni persona ha il suo livello di conoscenza e la sua interpretazione. A scuola, spesso, ci si trova a far valere solo la normativa, utilissima, che però da sola non basta. La normativa, da chi non è sensibile, viene recepita come uno standard, dovete avere tutti questi strumenti compensativi… Però ogni persona è diversa e anche nella dislessia ogni situazione va valutata e trattata diversamente, soprattutto nell’ambiente scolastico.

Dalla tua esperienza, di mamma e di scrittrice, che idea ti sei fatta della dislessia, cosa è?

Io credo che i cosiddetti DSA, cioè i disturbi specifici dell’apprendimento di cui la dislessia è solo uno, siano la punta di un iceberg. Là dove c’è una disgrafia, una dislessia o una discalculia, se si va a ben guardare, c’è sempre qualcos’altro. Mi riferisco alla memoria, in particolare. Chi ha un DSA in genere ha un modo diverso di usare la memoria, ha difficoltà con la memoria del lessico (è per esempio uno che dice tucano al posto di pellicano anche se conosce perfettamente la differenza), fatica a memorizzare i nomi propri, i nomi astratti, i nomi etichetta (quelli della grammatica, per esempio)… E poi magari ha una memoria prodigiosa per le storie o per tutto ciò che per lui ha una valenza affettiva…

La dislessia è un modo di essere e di ragionare che diventa disfunzionale solo sé è inserita in un mondo che ritiene che si debba funzionare tutti allo stesso modo. Con mio figlio ho cercato di lavorare per dargli fiducia nel suo modo di essere, e di fargli capire che deve trovare la sua via per fare le cose. E che ce la farà.

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