di Francesca Rifiuti
Il virus è un attacco al narcisismo del mondo contemporaneo, ci sta facendo perdere la percezione del nostro corpo. Ma questa crisi sta mostrando il ruolo cruciale delle donne, strette tra lavoro, cura, affetti. Con Giorgia Serughetti, ricercatrice dell’Università Milano Bicocca, abbiamo affrontato questi temi al centro del nostro quotidiano.
– Partiamo da un dato che ci pare sempre più attuale. Il progressivo spostamento online di parte della nostra esistenza, la prevalenza di ciò che è immateriale, ci ha allontanato dal corporeo, dal corpo come base della nostra esperienza soggettiva. Cosa sta accadendo?
– Quello che siamo vivendo da un anno a questa parte è un fenomeno per molti aspetti ambivalente. Da un lato, gran parte della nostra esistenza si è smaterializzata. Processi di questi tipo erano già in corso prima dell’arrivo della pandemia, ma il virus e le misure per contenerlo hanno impresso a tutto questo un’enorme accelerazione, e l’immersione digitale, specialmente per chi lavora da casa, sembra portare a compimento la spesso pronosticata “scomparsa dei corpi”. Vedo qui due effetti: uno è l’estrema fatica mentale che comporta questo stile di vita fatto di infinite ore di riunioni virtuali, seguite da momenti di svago virtuale – un concerto online, la presentazione di un libro su Facebook – senza lasciare mai la propria scrivania. Io l’ho chiamata “iper-stanchezza”, riprendendo l’idea della “società della stanchezza” di Byung-Chul Han e ripensandola alla luce della pandemia. L’altro effetto è la privazione sensoriale che stiamo vivendo, che ci rende sempre più estranei i corpi degli altri e che allontana in generale il contatto con le cose. Viviamo nell’assenza di tatto, attenti a non sfiorare superfici, a evitare una stretta di mano, un abbraccio, per non dire un bacio. Tutto questo potrebbe avere effetti profondi e duraturi sulla nostra psiche e la socialità. Però, secondo me, c’è anche un altro lato della storia. Perché la pandemia ci fa sentire la privazione, quindi l’importanza del contatto con gli altri per il nostro benessere. E ci rende consapevoli anche in un altro senso della nostra materialità: sappiamo che senza corpi in salute, a scuola e al lavoro, in casa o negli ospedali, in fabbrica o nei campi, negli esercizi commerciali o nei teatri, non è possibile nessuna sopravvivenza individuale, sociale ed economica.
– Occorre dire che la pandemia ci ha colto di sorpresa, ci ha messo di fronte al nostro corpo in modo violento, ci fa scoprire di non essere invincibili e immortali ma, al contrario, vulnerabili e fragili. Al di là delle vicende sanitarie e di cronaca, riuscirà a insegnarci qualcosa questo drammatico periodo?
– Io credo che un virus che passa dal pipistrello all’uomo e che colpisce l’intero pianeta, causando morte, dolore, povertà a ogni angolo del globo, sia un evento capace di incidere una ferita profonda nel narcisismo dell’Io contemporaneo. Ci porta a percepire il limite, la fragilità, la precarietà della nostra vita umana. Decenni di teoria politica e sociale femminista hanno messo in discussione il “mito” dell’autonomia individuale, cioè il modello antropologico di matrice liberale su cui si è fondata la modernità. Ora ci scopriamo tutti e tutte vulnerabili, perché non possiamo sfuggire alla nostra condizione di interdipendenza con gli altri. Siamo esposti al contagio, quindi vulnerabili, proprio perché non siamo autosufficienti, perché siamo costretti, per così dire, a entrare continuamente in relazione con altri, per la nostra sopravvivenza fisica ma anche per la nostra esistenza spirituale, in senso lato. Dagli altri, però, non viene solo il vulnus, la ferita, la malattia. Viene anche la cura. Questa consapevolezza dovrebbe indurre un completo rovesciamento dello sguardo sulla società e sulla politica, dovrebbe portarci a ripartire dalla corporeità, dai bisogni, dai rapporti di dipendenza dell’essere umano con gli altri e con l’ambiente naturale e sociale, dalle infrastrutture sociali necessarie alla vita.
– In che modo la consapevolezza della nostra vulnerabilità e della fragilità del corpo può proteggerci dalla mentalità narcisistica e quale ruolo ha la dimensione relazionale del concetto di responsabilità?
– La consapevolezza della nostra vulnerabilità e dipendenza implica anche un richiamo alla nostra responsabilità. Ma non si tratta di fare leva sulla “responsabilità individuale”, come spesso si sente nel discorso pubblico. La responsabilità individuale rimanda al fatto che ciascuno è imputabile per le proprie scelte: per i propri successi che sono frutto del merito personale, o per i propri fallimenti che sono il risultato delle proprie colpe. Ma se ognuno è responsabile per sé, la capacità di difendersi dal virus si eleva a merito individuale, mentre incorrere nel contagio implica una forma di colpevolezza. Allo stesso modo, ognuno può rivendicare il diritto di essere padrone della propria vita, di sfidare la malattia, di giocare a dadi con la morte, senza considerare le conseguenze sugli altri. Per far fronte a un evento come la pandemia serve invece un’idea di responsabilità di tipo relazionale: una responsabilità “per” gli altri. Nessuno, nemmeno l’individuo più accorto, può pensare di salvarsi da solo. Perciò nessuno può chiamarsi fuori dagli obblighi imposti dall’esistenza collettiva. Durante questi lunghi mesi di fatto tutti e tutte abbiamo dovuto assumerci una responsabilità, per noi stessi e per le persone con cui condividiamo un pezzo di mondo. Il gesto, in sé piccolissimo, di indossare la mascherina è la più perfetta rappresentazione di un’attenzione per gli altri cui gli altri rispondono (auspicabilmente) con la stessa attenzione.
– Viviamo questi tempi come proiettati in un prossimo e auspicabile futuro, quello in cui tutto questo finirà. Tanti parlano di ripartenza, forse con una fretta eccessiva. Perché invece, secondo lei, è importante sostare nella crisi e parlare di care crisis? Occorrerà modificare il nostro concetto di cura?
– Credo che per poter pensare al futuro dobbiamo innanzitutto capire la crisi che stiamo vivendo, che non ha colpito, come la crisi di dieci anni fa, sul piano immateriale della finanza, ma su quello materiale della salute dei corpi. Quella di oggi è una “crisi della cura”, che ha investito la sfera della conservazione e riproduzione della vita. Solo che di “care crisis” negli studi femministi si parla non da oggi ma da tempo. Cioè da tempo molte sociologhe e filosofe mettono in luce come nel tardo capitalismo sia stata fortemente compressa la capacità delle persone e delle comunità di generare e crescere figli, di curare le persone disabili e anziane, di proteggere la salute propria e dei propri cari, di alimentare i legami personali e sociali, di partecipare alla vita della propria comunità. Manca il tempo per questa attività, e spesso, dove lo Stato non garantisce un accesso universale alle cure o ai servizi, resta solo la possibilità di comprare sul mercato le prestazioni essenziali. Perciò sì, dobbiamo ripensare la cura, e la pandemia può essere un’ottima occasione per farlo. La pandemia ha messo a nudo a livello globale e in ogni paese un gigantesco, diffuso bisogno di cura. E questo si è imposto come un problema collettivo, non come una questione privata. Oggi abbiamo il dovere di pensare alla cura come a un problema che riguarda ogni essere umano, sia come ricevente, sia come care giver. E dobbiamo mettere questa questione al centro di una nuova politica, di un nuovo welfare.
– Una delle immagini simbolo della pandemia è stata la foto di una infermiera stremata alla fine di un duro turno di lavoro. Che cosa sta rivelando la pandemia sul ruolo della donna e quali dovrebbero essere gli obiettivi della riflessione filosofica a riguardo?
– Ovviamente tutti i fenomeni di cui parliamo sono strettamente connessi con l’ordine di genere della società, perché la sfera della conservazione e riproduzione della vita è segnata, storicamente, dalle forme più marcate di ingiustizia nella divisione sessuale del lavoro. La crisi pandemica ha mostrato il ruolo cruciale delle donne, che sono la maggioranza degli addetti nel settore della sanità, ma anche della scuola, e che spesso hanno sostenuto un doppio o triplo carico di lavoro in ambito domestico ed extradomestico a causa del lockdown e delle necessità di cura di familiari malati. Al contempo, la crisi colpisce le donne molto più degli uomini, a causa della strutturale sottoccupazione e precarietà di impiego delle donne, e della forte caratterizzazione femminile di attività penalizzate dalle chiusure come il commercio o il turismo. Siamo di fronte al rischio concreto di una recessione al femminile. Perciò credo sia tempo di cambiare in profondità le strutture economiche e sociali. La filosofia femminista può aiutarci qui a ribaltare il punto di vista: smettere di guardare alle donne come soggetti manchevoli che devono adeguarsi alla norma maschile, e smettere di guardare alla cura come a un dominio femminile e domestico. Cominciare invece a guardare alla cura come un compito universale, come una preoccupazione centrale della democrazia e come un asse portante di nuove forme di organizzazione del lavoro e sistemi di welfare.