intervista di Gianfranco Brevetto
Siamo andati a trovare Cesare Moreno nella sede di Maestri di Strada a Napoli. Pochi fronzoli, l’attenzione è indirizzata verso un unico soggetto: i giovani. Aiutarli, sostenerli, evitare la dispersione scolastica in un mondo che diviene sempre più complesso. E di questa complessità, Napoli ne esprime, anche solo stando alle cronache, l’aspetto magmatico, magnetico e tragico. Mentre attendiamo Cesare, ci tengono compagnia suoni e rumori di un laboratorio in piena attività.
– Ho qui una serie di domande, ma subito ti chiedo cosa state preparando?
– Un progetto che interessa i bambini da 0-6 anni, uno dagli 11 ai 17. In genere distinguiamo tra progetti leggeri e quelli impegnativi, i più leggeri prevedono un lavoro in classe, a scuola, in collaborazione con gli insegnanti e interessano circa 300 alunni. Quelli più impegnativi sono destinati ai ragazzi che vengono con noi a fare laboratorio pomeridiano e riguardano 70-80 ragazzi. Cerchiamo di evitare una concentrazione di casi complessi. Noi facciamo un lavoro socio-educativo e, se io metto insieme solo ragazzi ultra problematici, non ci sono quelle interazioni che consentono il miglioramento reciproco.
– E quando andate nelle scuole?
– Noi andiamo in classe con l’accordo di scuole e insegnanti, proponiamo loro delle attività. C’è da dire che si tratta, in generale, di classi considerate difficili oppure in cui ci sono casi particolarmente difficili. Invece, i ragazzi che vengono ai laboratori pomeridiani si selezionano da soli. Noi invitiamo tutti, loro vengono volontariamente ma quelli che arrivano sono sempre quelli che più ne hanno bisogno. Questo è un fatto importante: riusciamo a captare i ragazzi più motivati, coscienti del fatto che noi stiamo dando loro un’opportunità.
– Immagino che ci siano anche delle segnalazioni da parte dei servizi sociali…
– La segnalazione dei servizi introduce un elemento di coercizione che rischia di fare danni. Invece di scegliere i ragazzi noi ci facciamo scegliere dai ragazzi. Noi non lavoriamo su ciò che è oggettivamente necessario ma lavoriamo sul desiderio, su ciò che le persone sono soggettivamente disposte a fare per migliorare se stesse. Non ci interessa di sapere se uno è morto di fame, ci interessa sapere quali risorse mette in campo per migliorarsi. Il problema principale è capire se hanno voglia di migliorare se stessi, se le persone avessero voglia di migliorare non ci sarebbe nessun problema. Un educatore lavora sul desiderio, ci dobbiamo fare scegliere, non scegliere noi su criteri oggettivi. In uno dei progetti finanziati dal comune di Napoli, comunque teniamo conto dei casi segnalati, ma l’approccio è sempre “morbido”.
– Si parla molto, anche in ambito scolastico, d’inclusione ma, ti chiedo, inclusione per cosa e in che cosa?
– Io non ho nessuna voglia di includere nessuno. Usiamo il termine inclusione perché va di moda ma noi ci proponiamo un lavoro di cittadinanza attiva, non dobbiamo includere ma dobbiamo avere un’idea di cittadinanza che si allarga allargando i modi della partecipazione. Quando cerco di promuovere la cittadinanza di un ragazzo della periferia – come può essere San Giovanni a Teduccio – non sto includendo lui ma sto includendo, lui e me, in un disegno più ampio. Invece l’idea d’inclusione è: io sto bene come sto e, generosamente, ti includo: non funziona. Nella motivazione del Premio Napoli, che abbiamo ricevuto, viene richiamato proprio questo aspetto: facendo crescere la cultura nelle periferie facciamo crescere la città.
– E allora come procedere in questo allargamento?
– ll diritto dei diritti è la parola. Prendere la parola che non va inteso in senso politico spicciolo, ma è riconoscere a se stessi che quello che ho da dire è importante non perché devo innovare ma perché è espressione del mio essere: sono importante. L’allargamento della cittadinanza avviene nel momento in cui cresce il numero delle persone che si ritengono sovrane, che esercitano la sovranità popolare e questo passa attraverso la presa di coscienza di sé: il lavoro psicologico di accoglienza è immediatamente sociale e cognitivo. Nel momento in cui mi rendo conto di essere importante, come lo è quello che dico inizio anche a curare la parola, la relazione, e via di seguito. Per noi il lavoro di inclusione coincide con la creazione di spazi di pensiero nella coscienza delle persone.
– Sì, ma tutto questo deve fare i conti con il territorio in cui la malavita spesso non si preoccupa nemmeno di fare attività di reclutamento. Come hai sottolineato in un tuo scritto: è come un orso con la bocca aperta che attende solo che il pesce salti dentro.
– Il lavoro che facciamo è molto importante soprattutto dove lo spazio di pensiero viene occupato, confiscato, da pensieri brutti, tenebrosi. Dove l’animo delle persone è attanagliato dalla paura e dall’odio. Quando c’è paura e odio non c’è spazio per pensare. Il nostro lavoro cerca di contrastare gli effetti più devastanti del malessere diffuso e cronico che esiste nelle nostre zone. Per fare questo occorre anche lavorare a intese sul territorio, occorre affrontare il problema da più punti di vista.
– Prima hai detto “creare spazi di autonomia e di pensiero” ma, nella pratica, come si traduce questa espressione?
– Il nostro lavoro con i ragazzi si svolge su tre direttrici: l’attività socio educativa, cioè cercare di fare in modo che i ragazzi imparino ad avere rapporti con gli altri, innanzitutto con i compagni di scuola. É un’attività che la scuola non fa, non è una colpevole omissione: la scuola non è stata fatta per questo. Questa attività la facciamo sia in classe, perché la classe non sia un’accozzaglia di persone chiuse dentro una stanza. La seconda è un’attività cognitiva, migliorare la conoscenza delle discipline scolastiche. La terza è lavorare sull’empowerment, cioè migliorare l’accesso dei ragazzi alle proprie risorse. Ogni ragazzo possiede un cervello, un corpo, spesso non sa di avere questa ricchezza. Deve sapere che è proprietario di un cuore, di una volontà, di un desiderio. Bisogna togliere le persone da uno stato di passività, che è all’origine di ogni altra passività. Se non si fa questa operazione, lo sviluppo cognitivo e sociale, non funziona. Nei laboratori territoriali, non a scuola ma nel territorio, cerchiamo di schiodare la noia esistenziale, la disistima di sé, l’abulia, attraverso principalmente forme di arte. L’arte esprime ciò che rimane inespresso nella vita. La vita di questi ragazzi è ridotta ai minimi termini, noi attraverso l’arte vogliamo far ospitare il bello, cioè capire che tu puoi essere bello. Ospitare un sogno significa capire che tu puoi immaginare un futuro diverso da quello che è stato scritto dai genitori o dall’ambiente.
– Si tratta quindi di veri e propri laboratori teatrali..
– Sì sono laboratori di teatro-educazione. Attraverso il teatro è possibile far vivere ai ragazzi l’esperienza di uscire fuori da ruoli predeterminati, di sperimentare lo spazio traslato di copioni diversi. Ma abbiamo anche la musica, il canto, tutte le forme d’arte sono fondamentali per aiutare l’individuo a uscire fuori dal sé precostituito. Poi facciamo attività socio-educativa, cooperare assieme, collaborare. Il teatro, da questo punto di vista, è straordinario perché ti dà la possibilità di far muovere 50 persone con ruoli diversi dentro la stessa trama. A latere, cerchiamo anche di sviluppare la conoscenza delle discipline scolastiche. La rottura della passività non può avvenire attraverso prediche o discorsi ma con il contatto immediato reso possibile dall’arte. Chiariamo: queste cose sono molto diverse dalla musica come linguaggio alternativo, dal teatro come esperienza parallela. Non sono passatempi, sono attività in sé educative.
– Mi dicevi che si tratta di ragazzi che frequentano le scuole medie..
– Sono soprattutto ragazzi delle medie, la fascia d’età più difficile, ma anche più grandi, adesso iniziamo ad avere educatori alla pari. Una cosa molto importante per noi è la formazione degli operatori. La nostra formazione non si basa su un accumulo di competenze per poi spenderle in un contesto, è il contrario. Andiamo nel contesto, recuperiamo una serie di stimoli, sollecitazioni, e poi li rielaboriamo. É importante che il sapere dell’operatore sia un sapere situato, un sapere collegato ai contesti, noi apprendiamo dai contesti. Il miglioramento professionale degli operatori che formiamo è anche il miglioramento delle proprie condizioni psichiche. Entrare in contatto con giovani che non hanno voglia di vivere, di impegnarsi, che sono aggressivi, violenti, scostanti; entrare in contatto con realtà di degrado umano è una cosa che ci fa male. Ogni settimana ricostituiamo le energie esauste dei nostri operatori con dei gruppi multivisione, una tecnica messa a punto da Balint che, a sua volta, ha applicato la teoria sullo sviluppo dei gruppi di Wilfred Bion. Questa metodologia ci serve per tenere insieme il gruppo.
– Occorre evitare il burnout degli operatori.
– Sì, ma l’aspetto che prevale non è quello difensivo, i gruppi, partendo da situazioni difficili, creano proposte nuove, digeriscono l’esperienza e producono proposte. I gruppi multivisione sono gruppi creativi: producono dimensioni umane nuove e legami profondi tra tutti.
– Quanti sono gli operatori attualmente impegnati? E, soprattutto, qualcuno è stato tentato dal rinunciare?
– 60 operatori, di cui 40 a tempo parziale. Ma ne avremmo bisogno di un’altra ventina, è una realtà non piccola. Non ci sono state persone che hanno rinunciato, alcuni sono andati via ma per fare “carriera”, il percorso che fanno con noi insegna molto sul lavoro educativo, psicologico e si combina con una visione pedagogica: occorre tradurre sempre l’analisi in proposte.
– Mi dicevi che i ragazzi che scelgono di seguire le vostre attività hanno storie difficili. Ma conoscete alche il proseguo di queste storie?
– In generale sì. Attualmente siamo nella zona est di Napoli, San Giovanni, Ponticelli, Barra. Si sta consolidando un altro polo, in città, a Forcella, da poco più di un anno. Anche lì abbiamo fatto un lavoro con i genitori e con i bambini. Poi andiamo sporadicamente dove ci chiamano, come a Scampia. I ragazzi che passano dalle medie alle superiori in qualche modo continuiamo a seguirli noi e poi alcuni stanno diventando educatori alla pari, collaborano con noi. Con i nuovi progetti che stiamo elaborando, i finanziamenti dovrebbero essere biennali o triennali e quindi ci daranno maggiori possibilità in questo campo. Vorrei fare come progetto di prevenzione del reclutamento criminale, un progetto che si sviluppa minimo su cinque anni e dovrebbe prevedere un accompagnamento dei ragazzi fino al diciottesimo anno di età, poi un anno di servizio civile obbligatorio. E’ un sogno, ma sappiamo che qualcosa faremo in questa direzione.
– Il territorio come vi percepisce. Vi accetta, collabora o vi vede come degli intrusi?
– Tieni conto che sul territorio ci stiamo da venti anni, sarebbe interessante capire come ci percepisce, ad esempio, la criminalità. Diciamo che noi operiamo in zone in cui non vi sono elementi di spicco delle organizzazioni criminali. Per certi versi siamo percepiti come gli unici che portano una qualche speranza. Occorre anche dire che noi rispettiamo le persone, le altre istituzioni non sempre. Vi sono forme di disprezzo, forme di ostilità preconcetta verso i ragazzi e bambini che provengono da famiglie connotate che fanno molto male. Ci sono molte persone che pensano che la lotta alla criminalità si fa odiando i criminali, ma non funziona. Si deve odiare la criminalità e devi sempre tener conto che, alla base di tutto, c’è una persona. La persona criminale è innanzitutto una persona schiava, un non-libero, è una persona che soffre, ne potrebbe fare a meno ma dovrebbe prendere coscienza della sua sofferenza e del perché soffre. Molto probabilmente riesce a riflettere solo se va in galera perché fuori è un po’ difficile. Noi non siamo abbastanza grandi da dare fastidio alla criminalità, facciamo attività sostanzialmente marginali e con soldi privati. Prossimamente mi auguro di poter arrivare a progetti un po’ più incisivi e, se incidiamo di più, dobbiamo anche preoccuparci di più. Stiamo lavorando per avere una sede per attività riservate a noi in una scuola semiabbandonata e quando si hanno dei presidi fissi bisogna stare più attenti.
– Per la sede potreste anche utilizzare qualche immobile sequestrato alla criminalità.
– Stanno in posti impossibili e poi il nostro obiettivo è essere vicini alla scuola.
– Appunto, come sono i rapporti con le scuole?
– Ci sono buoni rapporti, portiamo risorse, ma complessivamente il nostro messaggio non passa. Mancano le condizioni minime, per esempio i docenti non hanno nessuna possibilità istituzionale di poter riflettere sul lavoro che fanno: ci sono troppi ostacoli rispetto all’affrontare il compito di educare i giovani. Esistono delle prassi educative degradate che cozzano contro quello che noi proponiamo, noi non vogliamo abbassare i livelli ma alzarli, a patto di alzare anche la qualità della relazione e delle proposte educative. Questo spesso è un compito che viene considerato troppo impegnativo. Ogni tanto vi sono singoli insegnanti che si avvicinano, ma la stragrande maggioranza degli insegnati è stanca, molti sono demotivati e in burnout.
– Ne viene fuori un quadro abbastanza complesso: una struttura sociale con dei limiti da un lato e dall’altro una scuola che non riesce ad attrezzarsi ed operare come dovrebbe. Concretamente cosa si può fare?
– Per esempio nei programmi educativi non vi sono soldi per una formazione dei docenti che si dedicano a questi progetti. Questa è una storia che va avanti da trent’anni, la formazione si fa ma in luoghi separati. Se si fosse dedicato un mese di formazione a turno degli insegnanti, rinnovando le loro metodologie, saremmo già a buon punto. Io non credo che non ci siano soldi, sono spesi malissimo. Se io fossi il Ministro dell’Istruzione, la prima cosa che farei sarebbe una grande campagna non di aggiornamento professionale ma di ricostituzione delle basi culturali dell’essere docente. Di fronte al docente non c’è un allievo astratto, ma un allievo concreto, con la sua complessità. Il docente singolo, dedicato alla semplice disciplina, non riesce a fare la voro educativo, non incontra la persona ma solo una parte della sua mente razionale. Per ripartire dalla persona è necessario che anche il docente sia curato come persona e guidato ad un professionismo complesso.
– Quindi ripartire dalla persona, sia essa uno studente o un docente.
Sono cinque secoli che esiste una scuola come la conosciamo oggi, sono stati fatti aggiornamenti, rappezzi, però ormai è il paradigma pedagogico che non funziona più. L’attuale è essenzialmente cognitivo-comportamentale, ora occorre un paradigma pedagogico con al centro le relazioni e la psiche, di chi apprende e di chi insegna. È necessario rinnovare la cultura degli insegnanti, la parola aggiornamento non va più bene, perché significa che c’è un corpus solido e sano che va aggiornato. Il corpus non è né solido né sano. Abbiamo bisogno di una cornice che non sia astratta e parolaia, ma di una cornice di tipo socio-educativo, di tipo psico-relazionale. Ma questo aspetto, purtroppo non sembra essere all’ordine del giorno di tutti i soggetti che si occupano di educazione in Italia. Il paradigma educativo è nato in un contesto semplice e semplificato, adesso ci troviamo di fronte ad una realtà ipercomplessa. Viviamo una crisi del modello educativo, non la crisi del modello scolastico. Su questi temi stiamo organizzando il 1° congresso mondiale della trasformazione educativa che avrà come tema “cura, bellezza e sogni: alle radici dell’educazione” che si terrà a Napoli alla fine del mese ottobre di quest’anno.