di George W. Saba
ITA/ENG
(versione originale in fondo)
Cosa lega il virus dell’HIV al desiderio di avere figli di una coppia, alla paura dell’infezione, alla loro migrazione da El Salvador, all’incarcerazione del marito negli Stati Uniti e tutte queste cose al medico sistemico?
L’approccio biomedico negli Stati Uniti
Fino agli anni ’60 i medici di base svolgevano un ruolo cruciale nell’ambito delle cure mediche in America. Facevano nascere i bambini, curavano le malattie croniche, effettuavano visite a domicilio e si prendevano cura dell’intera famiglia in ogni fase della vita sino alla morte. Ciononostante, proprio in quel periodo la medicina cominciava a cambiare in modo considerevole. In particolare, essa si sviluppava in un gran numero di specialità, come risultato del rapido incremento delle nuove conoscenze
sulle malattie e del notevole sviluppo della tecnologia medica (radiografia, procedure chirurgiche sofisticate e utilizzo dei computer). Tali progressi, in aggiunta all’avanzamento delle cure farmaceutiche e ad intraprendenti strategie di marketing, alimentarono la forte speranza che la scienza medica avrebbe trovato cure per ogni problema di salute, dal cancro ai comuni raffreddori. Il successo della teoria dei germi, e lo sviluppo di antibiotici e vaccini, erano visti alla stregua di innovazioni miracolose che avrebbero controllato molte delle malattie infettive che per generazioni avevano afflitto l’umanità (poliomielite, tifo, vaiolo).
L’opinione pubblica americana si convinse ben presto di poter vivere più a lungo e in buona salute. Gli annunci, diffusi al grande pubblico grazie al nuovo mezzo televisivo, propagandavano i progressi della medicina moderna e promettevano agli americani di poter sperimentare “una vita migliore grazie alla chimica”. Il dolore e lo stress, al tempo considerati gli inconvenienti quotidiani della vita moderna, avrebbero potuto essere sconfitti grazie a nuovi farmaci, come gli analgesici e i tranquillanti. Nel momento in cui farmaci ed interventi chirurgici diventavano estremamente diffusi, i medici si trasformavano in “fornitori dei servizi medici” e i pazienti in “consumatori dell’assistenza sanitaria”. Stava emergendo il complesso sistema di rapporti tra industria e medicina.
Lo sviluppo esponenziale delle conoscenze in medicina, la creazione di farmaci e specializzazioni, e l’elevata tecnologia in fatto di diagnosi e trattamenti, rappresentavano una sfida per la sopravvivenza del medico generico. Gli specialisti divennero esperti di ogni singola parte del corpo o sistema di organi, e gli americani pretendevano l’esperienza dello specialista altamente qualificato come garanzia di ricevere le migliori e più aggiornate cure a disposizione. Ad esempio, si consideri il caso di una coppia che desidera avere un bambino. Dopo sette mesi di tentativi infruttuosi, la coppia decide di richiedere un consulto medico. I coniugi stanno affrontando anche altri problemi di salute rilevanti e complessi. Il marito ha il diabete ed è sieropositivo, mentre la moglie è HIV-negativa. In un tale regime di specializzazioni, il marito deve chiedere aiuto ad almeno tre medici – uno specialista in malattie infettive, un endocrinologo e un urologo; la moglie ha bisogno di consultare un internista e il suo ginecologo. Inoltre, per la coppia sarà probabilmente necessario essere indirizzati ad uno specialista della riproduzione per il trattamento dell’infertilità.
In passato, il medico di base avrebbe svolto molte di queste funzioni. Tuttavia, con la sola formazione di base in medicina e un anno di tirocinio pratico, i “medici di famiglia” non potevano allora competere con gli specialisti, che contavano su un addestramento pluriennale, e hanno perciò cominciato a scomparire dal panorama della pratica medica in America. Lo specialista di ispirazione biomedica è così diventato la pietra angolare della cura e tuttora rimane una figura dominante negli Stati Uniti.
Le critiche di Bateson al modello biomedico
Gregory Bateson nutriva non poche perplessità rispetto all’evoluzione della medicina negli anni ’60: “Essendo dottori, essi hanno certi fini: curare questo e quello; quindi i loro sforzi di ricerca vengono concentrati (così come l’attenzione mette a fuoco la coscienza) su quelle brevi catene di causalità su cui essi possono intervenire con medicamenti o altro, per correggere stati o sintomi più o meno specifici e identificabili. Ogni volta che scoprono una ‘cura’ efficace per qualcosa, la ricerca in quell’area cessa e l’attenzione si sposta altrove. Ora possiamo prevenire la poliomielite, ma nessuno ne sa molto di più sugli aspetti sistemici di questa interessantissima malattia. La ricerca su di essa è cessata o, tutt’al più, è limitata al miglioramento dei vaccini” (Bateson, 1972). Prosegue l’autore: “Quindi la medicina finisce col diventare una scienza totale la cui struttura è sostanzialmente quella di un coacervo di trucchi […] È accaduto che i fini hanno determinato ciò che doveva diventare oggetto dell’indagine o della coscienza della scienza medica […] Se si lascia che siano i fini a organizzare ciò che diviene oggetto della nostra indagine conscia, ciò che si ottiene sono trucchi, alcuni dei quali magari eccellenti. È straordinario che questi trucchi siano stati scoperti: di questo io non discuto. Pure noi non sappiamo un fico secco, in realtà, del sistema d’interconnessione globale […] nessuno ha scritto un libro sulla saggezza della scienza medica, poiché la saggezza è proprio ciò che le fa difetto. Per saggezza intendo la conoscenza del più vasto sistema interattivo, quel sistema che, se è disturbato, genera con ogni probabilità curve di variazione esponenziali” (Bateson, 1972). Bateson riconosceva che il modello biomedico potesse essere efficace. Tuttavia, concentrandosi eccessivamente sul sezionamento di eventi e processi del corpo e della mente allargata, la medicina si è strutturata in relazione agli scopi, come un dispositivo di scorciatoie che consentono ai medici di raggiungere rapidamente i loro obiettivi, ma non di prendersi cura con piena saggezza (Bateson, 1972).
Bateson ha evidenziato i limiti di un simile approccio non soltanto in ambito strettamente medico. Ha infatti osservato il comportamento dei medici nell’ambito del contesto più ampio: “Non ha molto senso accusare i dottori di non inforcare gli occhiali olistici quando visitano i pazienti, se proprio nell’atto di muovere l’accusa noi stessi rinneghiamo la visione olistica. Sotto la lente olistica, la critica che rivolgiamo ai medici dimostra con chiarezza che ignoriamo il sistema totale in cui noi e i medici conduciamo l’esistenza, sistema che comprende tutta la nostra civiltà contemporanea. Non è ‘olistico’ concentrare tutta la nostra attenzione sui sintomi di una disfunzione e, allo stesso tempo, accusare i medici di non vedere altro che sintomi” (Bateson, 1991). Bateson sapeva perfettamente che la società in cui vivevano medici e pazienti alimentava il credo e la valorizzazione di un’epistemologia che sosteneva l’approccio biomedico. Pertanto, affrontare i limiti dell’approccio biomedico significava guardare al problema nel suo contesto.
Ad esempio, Bateson ha analizzato il fenomeno di quella che ha definito sintomofobia – un’eccessiva paura del sintomo; si tratta di un’abnorme focalizzazione sul sintomo, associata ad una scarsa considerazione del sistema in cui il sintomo si manifesta (Bateson, 1991). L’autore ha osservato che la sintomofobia era diventata un fenomeno comune nell’ambito delle istituzioni mediche, nel rapporto tra medici e pazienti, e nella società (università, chiesa, istituzioni economiche, relazioni familiari) (Bateson, 1991). Infatti, a causa del timore per i sintomi, Bateson riteneva che la medicina fosse fondamentalmente stimolata ad agire dai sintomi medesimi e che noi, utenti ed opinione pubblica, assieme ai medici, condividessimo questa “patologia”. In questo quadro, medici e pazienti osservano il sintomo in isolamento, lo trattano al di fuori del suo contesto e poi adottano strategie per evitare che esso si ripresenti in futuro. Scrive l’autore: “In questo modo milioni di dollari vengono impegnati in ipotesi di futuri aumenti di patologia. Dunque il medico che si concentra sui sintomi rischia di proteggere o incoraggiare la patologia di cui i sintomi fanno parte” (Bateson, 1991). Bateson citava l’esempio del dolore e delle varie modalità con cui viene affrontato. Un approccio medico classico prevede un anestetico locale per attenuare la sensazione di dolore o interromperne la trasmissione lungo i nervi sensoriali. Tuttavia, il trattamento del sintomo ha senso solo se il messaggio del dolore viene “ricevuto e considerato” (Bateson, 1991). Un’altra raccomandazione tipica è quella di sorridere e sopportarlo (il dolore). Ma, di nuovo, questo ha senso soltanto se il messaggio è stato assimilato (Bateson, 1991). Bateson suggeriva che, forse, un approccio più saggio sarebbe quello di prestare la dovuta attenzione al dolore e magari intervenire sul contesto sistemico, ovvero agire sul messaggio del dolore. Per Bateson il problema è quindi “come si faccia a passare dalla considerazione della parte alla considerazione del tutto” (Bateson, 1991). Tuttavia, tale salto è difficile da compiere nell’ambito di un approccio biomedico, che si concentra essenzialmente sull’approfondimento della natura del sintomo per trovarne la causa prevalente.
La critica di Bateson all’approccio biomedico riflette le sue perplessità rispetto ad un’epistemologia di tipo riduzionistico. L’approccio biomedico si fonda su alcuni presupposti e valori chiave: 1) l’essere umano è osservato attraverso le lenti del meccanicismo, ovvero come una macchina funzionale altamente organizzata; 2) la separazione della mente dal corpo, che Bateson fa risalire alla divisione cartesiana di mente e materia, dalla quale derivarono diversi errori commessi dalla medicina nel 19° secolo, quando “i biologi fecero grandi sforzi per smentalizzare il corpo e i filosofi disincorporarono la mente” (Bateson, 1991); 3) la materia del corpo è suddivisa in molte parti, e la somma delle parti medesime equivale al corpo nel suo insieme; 4) il riduzionismo non è semplicemente un modello per le scoperte scientifiche ma è il metodo privilegiato per la comprensione della salute, della malattia, della cura e dell’organismo umano; 5) nella malattia i processi causali sono di tipo lineare; 6) il pensiero dicotomico, o/o, è necessario per capire quali parti considerare e quali ignorare nella diagnosi, nel trattamento e nella ricerca; 7) si presume che la certezza sia raggiungibile; 8) la ricerca medica e i trattamenti sono incentrati sulla patologia e sulle malattie ; e 9) l’obiettivo della medicina e di qualsiasi trattamento è curare la malattia.
In particolare, Bateson nutriva seri dubbi sul ruolo della finalità cosciente nell’approccio biomedico. Come detto, per Bateson i “fini hanno determinato ciò che doveva diventare oggetto dell’indagine o della coscienza della scienza medica” (Bateson, 1972). Il paziente si presenta con un problema da risolvere; viene identificato il medico specializzato in quella malattia; vengono messi a fuoco la diagnosi e il trattamento per il suddetto problema. Scopo dello specialista è concentrarsi precisamente su quel problema. Qualsiasi altro problema al di fuori della sua attenzione è riferito ad un altro specialista. Come osserva Bateson: “La coscienza finalizzata estrae, dalla mente totale, sequenze che non hanno la struttura ad anello caratteristica della struttura sistemica globale” (Bateson, 1972). E nondimeno: “la mancanza di saggezza sistemica è sempre punita” (Bateson, 1972). Nella stessa sede Bateson si chiedeva: “Perché darsi pensiero di ciò?”. E proseguiva: “Ma ciò che dà pensiero è l’aggiunta della tecnica moderna al vecchio sistema: oggi i fini della coscienza sono realizzati da macchine sempre più possenti, dai mezzi di trasporto, dagli aerei, dalle armi, dalla medicina, dagli insetticidi, eccetera. La finalità cosciente ha ora il potere di turbare gli equilibri del corpo, della società e del mondo biologico intorno a noi. C’è la minaccia di un fatto patologico, di una perdita di equilibrio” (Bateson, 1972).
In un approccio di tipo biomedico, medici e pazienti dedicano particolare attenzione al “controllo” della malattia: ad esempio stabiliscono di controllare la pressione sanguigna, il diabete, il peso, oppure quanto velocemente cresce un tumore. Questi tentativi di controllare il sintomo possono mettere medici, pazienti e famiglie nella condizione di utilizzare strategie finalizzate all’ottenimento di risultati nel breve periodo, che talvolta possono peggiorare il problema e sottrarre opportunità di soluzioni più flessibili e sistemiche.
Non di rado, si verificano pattern di lotta simmetrica per il controllo. Bateson ha descritto la natura di questi processi di schismogenesi nella relazione tra l’alcolista e la bottiglia (Bateson, 1971). L’alcolista cerca di controllare l’alcol che, ovviamente, è in definitiva incontrollabile. Il processo può estendersi alla famiglia che cerca di controllare l’alcolista, che rifiuta di essere controllato, mostrando quanto può controllare se stesso bevendo di più. Questa dinamica si osserva spesso quando un paziente vuole che il medico arresti la malattia o risolva il problema di salute, e il medico decide di accontentarlo. Peraltro, un contesto sanitario ispirato al modello biomedico può incoraggiare, e persino ricompensare dal punto di vista economico, i medici che controllano le malattie dei pazienti (ad esempio attraverso il raggiungimento di livelli ottimali di emoglobina o di pressione sanguigna). Il medico può così rimanere intrappolato in una sequenza simmetrica, nel momento in cui cerca di “spingere il paziente” a prendere l’insulina, accettare di fare esercizio fisico o sottoporsi a mammografia. Se da una parte questo approccio può favorire l’aderenza al trattamento di alcuni pazienti, dall’altra possono presentarsi degli intoppi. Ad esempio, il medico può suggerire ad un paziente di assumere i farmaci per la pressione del sangue al fine di scongiurare l’evenienza di un ictus cerebrale. Tuttavia, il paziente potrebbe decidere di non farlo, per paura, per mancanza di soldi, per il fatto di non condividere il piano di trattamento o per non volersi sentir dire cosa fare. Nelle visite successive può verificarsi questa dinamica: il medico rincara le sue raccomandazioni e il paziente ribadisce le sue promesse di aderire a tali richieste. Ma in definitiva il problema rischia di persistere. Il medico si trova ad essere sempre più deluso e il paziente, un giorno, va effettivamente incontro ad un ictus. Medico e paziente provano risentimento e vissuti di fallimento. Ognuno cerca di controllare l’altro in maniera esponenziale. Il controllo prende il sopravvento per entrambi: l’esperto cerca in tutti i modi di non fallire, ed entrambe le parti in causa cercano di difendere la propria posizione. I membri della famiglia possono a loro volta prender parte a queste dinamiche, negli atteggiamenti che adottano l’uno verso l’altro, ad esempio laddove si concentrano eccessivamente sul controllo dei comportamenti a rischio del proprio caro (raccomandando di assumere i farmaci, rimproverando sulla dieta).
Bateson vedeva gli effetti potenzialmente deleteri della finalità cosciente splendidamente descritti nella storia biblica di Adamo ed Eva. Tuttavia, interpretava l’esito dell’aver mangiato il frutto in modo diverso rispetto alla versione ortodossa. Vedeva nella decisione miope di Adamo ed Eva una rottura, una ferita inflitta alla natura sistemica del tutto. Per Bateson, Dio non ha bandito Adamo ed Eva dal giardino dell’Eden. Piuttosto, sono loro che hanno scaraventato Dio, o la “mente”, fuori dal giardino (Bateson, 1982). Gli effetti della finalità cosciente possono essere osservati anche attraverso la lettura del Libro di Giobbe, una delle storie preferite da Bateson sulla mente e la malattia. Giobbe è tormentato dalla malattia, dalla morte e dalle infinite sofferenze della sua famiglia. I suoi amici accorrono per consolarlo e si siedono al suo fianco per sette giorni e sette notti, in silenzio, piangendo e cospargendosi il capo di cenere. Si siedono in compassione come atto di guarigione più significativo che potessero fare. Purtroppo, cominciano però a manifestare a Giobbe le loro opinioni sui motivi per cui sarebbero accadute tutte quelle tragedie, motivi che lasciano intendere che lui abbia fatto qualcosa per meritarsele. Le loro buone intenzioni di dare conforto a Giobbe si trasformano così in interpretazioni che lo incolpano e aggravano il suo tormento.
Nella medicina di stampo biomedico, quando i medici cercano coscientemente di risolvere un problema in modo lineare spesso ne creano di nuovi. Vedono soltanto archi di circuito, ossia segmenti di pattern più complessi, e concludono che tali segmenti siano rappresentativi del tutto e che siano le sole informazioni necessarie per la valutazione e il trattamento dei problemi di salute. Tuttavia, Bateson ci rammenta che trattare quei singoli aspetti al di fuori del loro contesto rischia di farci ignorare altri elementi e messaggi dell’ecosistema, i quali devono invece essere presi in considerazione per un processo di autentica guarigione.
La medicina sistemica e l’influenza di Bateson
Nel momento in cui si stava affermando l’approccio biomedico, gli Stati Uniti affrontavano importanti sfide sul piano sociale. La generazione del dopoguerra iniziava a comprendere le conseguenze della bomba atomica, ad osservare ogni giorno in televisione gli orrori della guerra nel Vietnam, a vedere la violenza del razzismo e le lotte del movimento per i diritti civili, nonché a prendere atto dei danni inflitti all’ambiente. La visione del mondo si modificava passando da quella che contemplava una serie di nazioni, classi o razze separate, a quella di un ecosistema inestricabilmente interconnesso e bisognoso di cambiamento. Era in corso una rivoluzione.
In tale contesto, anche il disincanto nei confronti del modello biomedico aumentava, dal momento che le cure infallibili per tumori e raffreddori stentavano a materializzarsi. Molti esperti sostenevano che i cambiamenti su larga scala in ambito di sanità pubblica, come ad esempio la sanificazione e l’igiene, rappresentavano le vere ragioni per cui malattie come la poliomelite, il tifo e il vaiolo erano state debellate, più che per il contributo di vaccini e antibiotici. Gli stipendi dei medici specialisti aumentavano, così come le spese mediche. I medici temevano di essere denunciati e acquistavano assicurazioni per gli errori dovuti a negligenza, dal momento che i pazienti si appellavano sempre più alle responsabilità dei loro facoltosi specialisti. Alcuni medici lamentavano la scomparsa del “medico di famiglia”, che era interessato sia alla cura che alla guarigione, che conosceva intimamente tutti i membri della famiglia prendendosi cura di loro dalla nascita alla morte. La preziosa relazione tra medico e paziente, tratto distintivo dell’epoca del medico di medicina generale, era andata perduta. Una nuova rivoluzione nelle relazioni tra medici e pazienti era alle porte, e il lavoro di Gregory Bateson sul pensiero sistemico rappresentava una guida.
Una nuova specializzazione emerse per garantire ai medici la dovuta completezza in fatto di formazione, in modo da far tesoro dei notevoli progressi della medicina moderna, ma anche per recuperare quegli aspetti olistici e relazionali che erano stati così fondamentali nell’assistenza sanitaria. Nel 1967, la specializzazione in medicina della famiglia fu creata per formare medici sistemici che si sarebbero dovuti occupare dell’individuo, della famiglia e della comunità. Gli ideatori della nuova specialità furono profondamente influenzati da Bateson.
La rivoluzione che ha chiamato in causa i professionisti della salute e gli utenti nella messa a punto di approcci più relazionali e sensibili al contesto nel campo della salute e della salute mentale ha dato vita sia alla medicina di famiglia che alla psicoterapia familiare. I terapeuti familiari esprimevano infatti insoddisfazione per il modello riduzionistico in biomedicina e salute mentale, e divennero naturali alleati dei medici di famiglia nello sviluppo di modelli clinici e programmi di formazione (Bloch, 1983).
Negli Stati Uniti, la formazione per diventare specialista in medicina di famiglia richiede quattro anni di scuola medica seguiti da un praticantato di tre anni, durante il quale i medici fanno esperienza nei vari ambiti della medicina: pediatria, medicina per adulti, salute femminile, terapia intensiva, cure d’emergenza, assistenza medica ospedaliera, ostetricia, chirurgia generale e cure palliative. Essi imparano a praticare la professione medica in ambito sia ambulatoriale che ospedaliero. Diventano medici di base che garantiscono la continuità delle cure per le famiglie, occupandosi della maggior parte dei problemi di salute e facendo riferimento agli specialisti quando necessario.
Poiché l’85% dei problemi di salute presenta delle significative componenti psicologiche o comportamentali, i medici di famiglia imparano anche a praticare la psicoterapia. Nel nostro programma residenziale di formazione in medicina di famiglia presso l’Università della California a San Francisco (UCSF), messo a punto da Carlos Sluzki nel 1972, gli specializzandi ricevono oltre 400 ore di formazione in terapia sistemico-relazionale nel corso dei loro tre anni di frequenza (Sluzki, 1974). I medici di famiglia non sono psicoterapeuti o psichiatri. Piuttosto, forniscono assistenza sul piano biomedico e psicosociale da una prospettiva sistemica. Nondimeno, dato che non considerano mente e corpo come entità separate, si impegnano a trattare la persona nella sua globalità, così come la famiglia, il che richiede la formazione e lo sviluppo di capacità relazionali. Sono medici che estendono i loro obiettivi al di fuori della stanza degli esami, prendendo atto che il loro compito è quello di lavorare per curare la loro comunità, la società e il mondo. In questo modo, oltre ad apprendere la medicina clinica, acquisiscono esperienza nell’ambito delle politica sanitaria, della difesa dei diritti e della giustizia sociale, così da poter affrontare questioni più ampie che influenzano la salute (ad es. razzismo, povertà, cambiamenti climatici). Le cure che prestano si estendono quindi dal molecolare al globale e si ispirano all’epistemologia del sacro di Bateson.
L’epistemologia del sacro di Bateson e la medicina sistemica
Nelle ultime evoluzioni del suo pensiero, Bateson ha descritto l’interconnessione di mente e natura come qualcosa di ascrivibile al dominio del sacro: “Stiamo iniziando a prendere confidenza con i concetti dell’ecologia, e anche se nell’immediato tendiamo a banalizzare tali concetti nel campo del commercio e della politica, c’è per lo meno un impulso, nell’animo umano, a unificare, e quindi considerare sacra, la totalità del mondo naturale, di cui siamo parte e che noi siamo” (Bateson, 2010). Per Bateson, il sacro rappresentava la mente estesa, immanente alla materia, con la sua vasta rete di interconnessioni, circuiti di feedback e pattern di scambio di informazione, inglobati in un tutto organizzato in modo armonico, una totalità che tiene unite le sue parti. Per sua stessa natura, il sacro sfugge ad una definizione univoca, giacché come lo stesso Bateson sosteneva: “attraverso la nostra coscienza non riusciamo a vedere la mente come un ecosistema”, come una rete di circuiti autocorrettivi, ma piuttosto “vediamo soltanto archi di questi circuiti” (Bateson, 1982). Il sacro è tessuto insieme e accessibile alla nostra esperienza e meraviglia, in quanto contempla più livelli di organizzazione nella sua complessità e ci consente di concentrarci sulla bellezza della sua struttura anche di fronte al dolore, alla sofferenza e alla morte. Dal momento che il sacro può riparare la ferita cartesiana nel tessuto della vita, esso assume particolare rilevanza per il lavoro dei medici (Bateson e Bateson, 1987).
Sulla base di questa prospettiva epistemologica, Bateson ha identificato una serie di principi che possono fungere da correttivi per gli errori favoriti da un approccio biomedico di tipo riduzionistico:
- Interconnessione. Bateson concepiva la vita come costituita da molteplici sistemi interconnessi: individuo, relazioni interpersonali, società (Bateson, 1972). Pertanto, salute, malattia e guarigione devono essere inquadrati in questa cornice epistemologica piuttosto che in una cornice che promuove la separazione, la compartimentalizzazione e un’assistenza sanitaria incurante dei contesti. Benchè in medicina sia sempre esistito un approccio sistemico nell’inquadramento delle relazioni tra diversi organi, tale approccio sistemico rimane confinato, di solito, nella soglia della pelle dell’individuo. Pertanto, la concezione di mente e natura di Bateson e l’interconnessione dei processi vitali rappresenta un profondo cambiamento di paradigma per la scienza medica.
- Confini. I confini tra i sottosistemi della totalità più ampia possono favorire oppure ostacolare la co-evoluzione dei sottosistemi stessi, nel contesto dei processi di bilanciamento tra autonomia e interdipendenza. La malattia rappresenta spesso una breccia in tali confini, o una rottura delle cuciture del tessuto: un tumore maligno che metastatizza; un vaso sanguigno che si rompe nel cervello; un’infezione che colpisce diverse parti del corpo; oppure un neurotrasmettitore che non si lega ad un recettore. Bateson credeva che “tutta la vita mentale è legata al corpo fisico, come la differenza o il contrasto sono legati a ciò che è statico e uniforme” (Bateson, 1991). Quindi, l’epistemologia del sacro focalizza l’attenzione del medico sulla valutazione degli squilibri tra sottosistemi e sulla presa in esame di un insieme integrato di parti ed elementi. Abbiamo bisogno di gettare uno sguardo alle giunture per cogliere notizie di differenza – “la differenza che produce differenza” (Bateson, 1979).
- Osservazione partecipante. Diversamente da quanto si osserva attraverso lo sguardo oggettivante dell’approccio biomedico, Bateson sottolinea che non siamo separati dal nostro ambiente. Il medico non si limita ad auscultare il cuore di qualcuno ma piuttosto è legato all’altro capo dello stetoscopio. La persona del medico, con le sue specifiche conoscenze e assunzioni, non può essere separata dalla persona che visita. Il medico è un osservatore partecipante nel processo di diagnosi e trattamento. Per essere efficace, il medico deve sviluppare una capacità auto-riflessiva, ovvero osservare se stesso come parte del processo (Bateson, 1979).
- Pattern. Piuttosto che concentrare la diagnosi e il trattamento sulle “cose”, o sui singoli segmenti di sequenze più ampie, Bateson raccomanda l’identificazione dei pattern di connessione tra i sistemi. L’autore sostiene che “vedere il mondo in termini di cose sia una distorsione suffragata dalla lingua e che la visione corretta del mondo sia in termini delle relazioni dinamiche che governano lo sviluppo” (Bateson, 1991).
Un approccio sistemico e relazionale alla cura
Bateson non ha mai sviluppato un modello specifico di assistenza medica. Nutriva sospetti verso l’applicazione delle sue idee nel campo della terapia familiare e si definiva in un certo qual modo “scettico” rispetto agli effetti delle cure mediche (Bateson, 1984). Per questo, quanto segue riguarda nello specifico gli sviluppi della specializzazione in medicina di famiglia e in particolare il nostro programma di formazione residenziale presso l’UCSF.
La cura secondo un approccio biomedico implica che: 1) il processo di guarigione deve comportare una riduzione dell’incertezza e delle situazioni di conflitto; 2) la conoscenza viene trasmessa in modo gerarchico da un esperto (il medico) ad una persona che apprende passivamente (il paziente); 3) il medico detiene il controllo della situazione, benché sia il medico che il paziente aspirino ad un controllo unilaterale; 4) il pensiero razionale prevale sull’emozione; 5) i partecipanti al processo di cura sono fondamentalmente interessati alla protezione di sé; e 6) il valore del successo è decisamente enfatizzato, in antitesi al fallimento (Schön, 1983).
Un approccio terapeutico sistemico e relazionale amplia l’orizzonte dell’approccio biomedico. Non lo disconosce, ma vede i suoi punti di forza attraverso una lente sensibile al contesto. Un medico sistemico non esiterà a trattare urgentemente uno shock settico o l’esacerbarsi di un attacco d’asma. Tuttavia, penserà maggiormente ad una dimensione più ampia e in relazione al contesto, sia prima che durante e dopo l’applicazione di un trattamento biomedico focalizzato (quali sottosistemi influenzano e sono influenzati dalla malattia?). Adottare un’epistemologia del sacro richiede un pensiero orientato al “sia/che”.
Bateson ha avuto un’influenza decisiva sul modo in cui i medici sistemici pensano alla salute e alla malattia, e a come allestire un contesto interpersonale che favorisca la guarigione. In un approccio sistemico alla medicina, il primo passo è quello di riconoscere che quando qualcuno si rivolge ad un medico per una richiesta di aiuto, deve essere attivato un sistema di cura che includa il sottosistema paziente/famiglia e il sottosistema medico/contesto sanitario. Questo sistema di cura deve mettere a punto le proprie regole per stabilire confini adeguati e prevedere chi prenderà specifiche decisioni, come si dovranno gestire eventuali disaccordi e come il processo di cura potrà essere favorito. Il singolo medico non lavora in isolamento ma è parte di un gruppo di professionisti della salute. Il paziente e la famiglia sono protagonisti attivi piuttosto che recipienti passivi di informazioni. L’equipe sanitaria e la famiglia/gli amici si impegnano in un processo di guarigione che somiglia più ad un percorso di apprendimento che ad una semplice cura.
Questo processo di apprendimento che avviene nel contesto del sistema di cura può esser compreso grazie al concetto di Bateson di deutero-apprendimento, in base al quale il cambiamento di un organismo non implica ipso facto una modifica delle sua capacità di apprendimento (Bateson e Bateson, 1987). Bateson riteneva che il cambiamento richiedesse di catalizzare i processi di interazione che attivano un sistema cibernetico. In contrapposizione ad un processo consapevole, intenzionale e fondamentalmente razionale, Bateson pensava in questo caso ad un processo primario che connette le persone al sacro (Bateson, 1972). Il ruolo dei medici sistemici, in questo processo primario, richiama ciò che Bateson ritiene necessario per controbilanciare i rischi legati alla finalità cosciente, ossia una “Teoria dell’azione all’interno dei grandi sistemi complessi, dove l’agente attivo è a sua volta parte del sistema e ne è un prodotto” (Bateson, 1991). Agli occhi dell’autore sembra che “i grandi insegnanti e terapeuti evitino ogni tentativo diretto di influenzare le azioni degli altri e, invece, cerchino di instaurare le situazioni o i contesti in cui certi cambiamenti (di solito specificati in modo imperfetto) possano avvenire” (Bateson 1991). I medici sistemici si propongono di adottare una prospettiva di questo tipo.
In questa prospettiva, tutti i partecipanti al sistema di cura devono scambiarsi informazioni autentiche e corrette, anche su questioni difficili e delicate. I conflitti interiori devono poter essere espressi e condivisi, così come eventuali opinioni negative. I medici devono essere in grado di potersi informare su atteggiamenti e comportamenti dei membri della famiglia, ed essere disposti ad accettare, a loro volta, che il loro comportamento possa essere messo in discussione. Delusioni, dubbi e sfiducie devono essere considerati elementi di discussione ammissibili. L’ambivalenza, le ambiguità e le incertezze vengono attivamente analizzate. Chi prende parte a questo processo di apprendimento è disposto ad indagare credenze, narrative e valori propri e altrui, per capire da dove originano eventuali situazioni di stallo. Il medico contribuisce a definire una cornice utile a comprendere che il problema di salute (ad es. diabete, cancro) sta avendo un impatto non solo sull’individuo ma sull’intero sistema. Concentrarsi eccessivamente sulla malattia, confinandola nella pelle del paziente, significa trascurare il pattern che include la dimensione interpersonale e ridurre la portata e l’ampiezza delle potenzialità di guarigione.
La protezione di sé è un obiettivo condiviso; è ciò che attiene alla ricerca della maniera migliore di tutelarsi a vicenda per spingere il sistema verso un processo di crescita; la protezione multilaterale di ogni membro del sistema di cura è di fatto lo scopo ultimo. Il medico non si preoccupa solo di proteggere la propria immagine o di scongiurare una causa per negligenza, e il paziente, a sua volta, non si preoccupa soltanto di essere giudicato o di omettere informazioni importanti a causa della paura di essere biasimato dal medico.
I compiti (ad esempio, affrontare l’ipertensione o la depressione) vengono gestiti in collaborazione. Un sistema di cura di questo tipo valorizza la libertà di scelta, favorisce l’assunzione di responsabilità e di eventuali rischi nel tentativo di ricercare nuove soluzioni, e monitora costantemente queste scelte. Questo modello non gerarchico favorisce la condivisione, da parte di tutti i partecipanti,
di competenze, processi di verifica e responsabilità per i risultati. Le decisioni relative ad eventuali indagini e accertamenti su problemi complessi (ad es. test per il cancro alla prostata), oppure la scelta delle strategie di trattamento (ad es. chirurgia, radioterapia, e/o chemioterapia per il cancro al seno), comportano un processo decisionale condiviso. È ammesso che possano esservi dei conflitti, così come le auspicate risoluzioni degli stessi, ed è incoraggiata la flessibilità nel vaglio delle soluzioni possibili.
Il trattamento implica domandare, far emergere e ascoltare i punti di vista di tutti coloro che sono coinvolti nel sistema di cura; implica inoltre condividere come si vuole procedere e concordare ogni singolo passo. I medici sistemici, gli specialisti consulenti, i pazienti e le famiglie possono non essere tutti d’accordo; far sì che i disaccordi vengano verbalizzati ed affrontati fa parte del processo di cura. Il sistema di cura, e questo è forse l’aspetto più importante, ricerca attivamente i punti di forza, le risorse e le capacità di recupero e resilienza, invece che concentrarsi unicamente sulla patologia. Come sottolinea Bateson: “Ragionare di patologia è relativamente facile, ragionare di salute è molto difficile. Questa naturalmente è una delle ragioni per cui esiste una cosa come il sacro e per cui del sacro è difficile parlare, perché il sacro ha un legame particolare con la salute” (Bateson, 1991).
Dato che l’apprendimento, nella prospettiva di Bateson, implica che il sistema sia dotato di capacità auto-riflessive, il modello qui presentato suggerisce ai medici sistemici, ai pazienti e alle famiglie tre strategie che favoriscono il riflettere e l’agire su pensieri, emozioni e comportamenti propri e altrui:
- i partecipanti devono ascoltare attentamente le rispettive opinioni e ripeterle a chi ha espresso il suo punto di vista. Questo esercizio promuove la capacità di comprensione empatica e di doppio ascolto, e consente di accedere alla complessità dando valore non ad una ma a molte versioni. Questa strategia può inoltre portare alla luce ambizioni e desideri nascosti che spesso rimangono celati dal modo in cui le persone raccontano, ad esempio, la storia di un conflitto. Tali abilità devono essere padroneggiate non solo dai medici ma anche da pazienti e familiari.
- i partecipanti devono riflettere sulle opinioni e azioni proprie e altrui. Ciò contribuisce a portare alla coscienza le assunzioni implicite.
- Bateson ha sottolineato che mettere in pratica nuovi comportamenti può consentire di elaborare nuove informazioni in modo da favorire l’emergere di nuovi modelli. Quindi, in questo approccio, i partecipanti si impegnano in cicli ripetuti di azione e riflessione che consentono la sperimentazione di nuovi comportamenti, la valutazione dei risultati e l’attuazione di nuovi modelli di pensiero e comportamento. Ciò permette alle persone di prendere decisioni su come modificare i propri comportamenti in corso d’opera.
Queste strategie riflessive incoraggiano medici e pazienti ad adottare un atteggiamento consapevole durante, e nell’intervallo, tra le visite mediche. Invece di essere distratti dai propri pensieri, emozioni e comportamenti, attraverso un atteggiamento consapevole i medici sistemici sono stimolati a percepire i rapporti tra i sottosistemi e l’attività dell’organismo e del sistema di cura nel suo insieme. Ciò aiuta i medici a non agire in maniera miope, con l’intenzione consapevole di concentrarsi eccessivamente sulla cura o sul “risolvere” i problemi dei pazienti e delle famiglie.
Il medico deve essere costantemente consapevole della presenza e dell’importanza delle emozioni all’interno del sistema, incluse le proprie, e dare a pazienti e famiglie il permesso di esprimerle, così da ricavare informazioni preziose sull’integrità dei confini e sullo sviluppo di sistemi e sottosistemi. Il
il medico pone domande che favoriscono la riflessione e l’azione, e ulteriori riflessioni, per raggiungere una posizione “meta” rispetto alla malattia e indagare i significati del sintomo nel contesto del sistema.
Bateson ha suggerito altre qualità che sembrano essenziali per i medici sistemici. Giacché nessuno è in grado di conoscere il sistema più esteso nella sua vastità, ciò che risulta fondamentale è una saggezza e un’umiltà che lui vedeva in netto contrasto con l’arroganza che talvolta la scienza mostra. Bateson aveva compreso che siamo parte di sistemi più vasti, e che la parte non può mai controllare il tutto (Bateson, 1972). Pertanto, dobbiamo accettare che il controllo esercitato dall’individuo sia limitato – “non siamo in alcun modo i capitani della nostra anima” (Bateson, 1972). I medici sistemici devono accettare questi limiti alle loro facoltà di controllo, il che può risultare difficile nel contesto di una cultura biomedica che afferma che il controllo è non soltanto possibile ma anche essenziale per la cura della malattia.
Bateson ha inoltre sottolineato che l’amore è l’esperienza più importante da promuovere (Bateson, 1972). Per lui, l’amore rappresentava proprio ciò a cui la coscienza intenzionale pragmatica e testarda era per sua natura allergica. L’amore è contrario al buon senso consapevole, perché l’amore contempla la totalità della mente sistemica.
Il pattern che connette
Nel 1973, Ransom e Vandervoort scrivevano che “la domanda cruciale è questa: a parità di paziente e problema di salute, che cosa farebbe un medico di famiglia di diverso da quello che farebbero altri specialisti?”. Ritorniamo alla coppia desiderosa di avere un bambino. In che modo le cure di un medico sistemico potrebbero essere diverse rispetto a quelle di un gruppo di altri specialisti?
Nella realtà, moglie e marito erano pazienti di uno dei medici di famiglia sistemici della nostra clinica universitaria presso l’UCSF. Il medico stava curando l’infezione da HIV e il diabete del marito, oltre che la salute generale della moglie. Dopo una prima visita medica, la coppia è tornata e ha richiesto aiuto per avere un bambino. Il medico ha raccolto la storia della loro relazione e ha scoperto che erano innamorati sin dall’infanzia nel Salvador. Tuttavia, il marito è emigrato negli Stati Uniti 5 anni prima per sfuggire alla violenza, ed era privo di documenti. È stato arrestato e imprigionato per un breve periodo prima di ottenere l’asilo. In prigione, ha dichiarato di aver contratto l’HIV a causa di uno stupro. La compagna si è trasferita negli Stati Uniti un anno fa e si sono sposati. Al tempo, entrambi parlavano soltanto lo spagnolo, svolgevano due lavori e avevano problemi economici. Hanno ribadito il loro desiderio di avere un figlio e hanno riconosciuto di avere raramente dei rapporti sessuali.
Alla visita successiva, due settimane dopo, il medico ha deciso di incontrarli individualmente. Il marito ha rivelato il suo dubbio che la moglie fosse rimasta sposata con lui soltanto per compassione rispetto alla sua malattia. Il medico ha poi incontrato la moglie da sola, la quale ha detto che amava sinceramente suo marito ma temeva di rimanere infetta in un rapporto sessuale, e che l’infezione potesse trasmettersi al loro bambino. Ha anche confessato di essersi chiesta se il marito si fosse davvero contagiato in carcere oppure se nascondesse un segreto più profondo. Il medico ha così appurato che nessuno dei due aveva rivelato i propri timori all’altro o ad altre persone.
In una terza visita, la settimana seguente, il medico li ha visti di nuovo insieme e li ha aiutati ad affrontare le rispettive preoccupazioni faccia a faccia. Il marito ha svelato i suoi timori rispetto al vero motivo per cui sua moglie è rimasta con lui. La moglie ha rivelato la sua paura dell’infezione e il dubbio che lui potesse nascondere un segreto. Il marito ha quindi cercato di rassicurarla su come fosse stato contagiato e su quanto profondamente l’avesse sempre amata. Lei ha dichiarato che si sarebbe sposata con lui per amore, non per pietà. Il medico li ha informati del fatto che, poiché l’infezione da HIV risultava a livelli non rilevabili, probabilmente il marito aveva un potenziale infettivo molto basso. Inoltre, il medico ha detto alla moglie che avrebbe potuto sottoporsi ad una profilassi per proteggersi dall’infezione e che i rischi di infezione per lei e per il bambino sarebbero stati bassi. Il medico era consapevole di un suo potenziale pregiudizio rispetto ai rischi della gravidanza e ne ha parlato apertamente con la coppia, in modo che marito e moglie fossero consapevoli del fatto che nutriva un appassionato ottimismo per ciò che riguardava la forza della loro relazione e i rischi che correvano. Ma ha anche detto che voleva che facessero presente un loro eventuale disaccordo. Il medico si sarebbe comunque preso cura di loro a prescindere dalla decisione. I coniugi hanno accettato di andare a casa e parlarne.
Tre settimane dopo, la coppia ha riferito che il loro rapporto era migliorato e la moglie ha richiesto un test di gravidanza. È risultato positivo. Hanno avuto un figlio; e a distanza di due anni la moglie e il bambino risultano HIV-negativi e l’infezione e il diabete del marito sono ben gestiti.
Probabilmente, ciò che ha maggiormente caratterizzato l’intervento del medico di famiglia sistemico è il non essersi focalizzato soltanto sull’HIV, sul diabete o sull’infertilità, ma di aver tenuto conto della necessità di includere i molteplici livelli di analisi dei sistemi interconnessi nel contesto della relazione di cura. Il “pattern che connette” è stata la creazione di una relazione tra i tre protagonisti che ha incoraggiato la riflessione sulle loro interazioni, la fiducia e la presa in carico, e ha lasciato spazio al coraggio e all’onestà, da parte di ognuno, di svelare le proprie paure. È stato messo a punto un sistema di cura che contemplava diversi sottosistemi, confini chiari e consolidati, processi condivisi di protezione e verifica, e che consentiva l’espressione sia di emozioni che di pensieri razionali, che incoraggiava l’espressione delle prospettive individuali e la riflessione sulle stesse e che forniva un contesto utile per imparare ad apprendere. Inoltre, tale sistema di cura si focalizzava sul messaggio (la loro difficoltà a concepire) piuttosto che soltanto sulla finalità cosciente (il concepimento), e ha fatto da catalizzatore per lo sviluppo della loro relazione, consentendo al loro reciproco amore di potersi esprimere.
Conclusioni
I medici sistemici possono trarre giovamento dalla lettura dell’ultimo capitolo del Libro di Giobbe nell’interpretazione che ne offre Bateson. Questi ha osservato che Giobbe chiede a Dio le ragioni per cui tollera le sofferenze, la malattia e la morte. E mentre la lettura tradizionale vede Dio che rimprovera Giobbe per il suo eccessivo orgoglio nell’interrogare il suo creatore, Bateson vede Dio che cerca invece di aiutarlo a comprendere la sua intima connessione con la natura. Giobbe risponde con rinnovata umiltà e adottando una posizione complementare nei confronti del creatore. Questa versione propone un esito diverso rispetto a quello di una catastrofe che si abbatte sull’Eden. Giobbe ne esce illuminato e comprende cosa significhi un’adeguata relazione con la mente e la natura, e il ripristino di tale relazione rappresenta sia il processo di guarigione sia il lavoro di chi presta cura. Per valorizzare il loro intento di ripensare la salute, la malattia e la guarigione, i medici sistemici devono adottare rispetto, riverenza, umiltà e amore per il sistema più vasto in cui operano, che a sua volta non è che uno dei tanti archi di circuito di quelle sequenze di pattern ben più vasti che costituiscono il sacro.
(Traduzione italiana a cura di Francesco Tramonti)
- Bateson, Steps to an ecology of mind, Chandler, San Francisco 1972 [Trad. it., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976].
- Bateson, A sacred unity. Further steps to an ecology of mind, Harper Collins, San Francisco 1991 [Trad. it., Una sacra unità. Altri passi verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1997].
- G. Bateson, The Cybernetics of ‘Self’: a theory of alcoholism, in “Psychiatry”, 34, 1-18, 1971, re-print in G. Bateson, Steps to an ecology of mind, Chandler, San Francisco 1972 [Trad. it., La cibernetica dell’ ‘Io’: una teoria dell’alcolismo, in G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976].
- Bateson, They threw God out of the Garden, in “Co-Evolution Quarterly”, 36, 62-67, 1982.
- Bateson, Mind and nature. A necessary unity, Dutton, New York 1979 [Trad. it., Mente e natura, Adelphi, Milano 1984].
- Bateson, M.C. Bateson, Angels fear. Towards an epistemology of the sacred, Macmillan, New York 1987 [Trad. it., Dove gli angeli esitano. Verso un’epistemologia del sacro, Adelphi, Milano 1989.
M.C. Bateson, With a daughter’s eye. A memoir of Margaret Mead and Gregory Bateson, Morrow & Co., New York 1984 [trad. it., Con occhi di figlia. Ritratto di Margaret Mead e Gregory Bateson, Feltrinelli, Milano 1985].
- Bateson, An ecology of mind (movie), http://www.anecologyofmind.com/thefilm.html, 2010.
D.A. Bloch, Family systems medicine: The field and the journal, in “Family Systems Medicine”, 1, 3-11, 1983.
D.C. Ransom, H.E. Vandervoort, The development of family medicine, in “JAMA”, 225, 1098-1102, 1973.
- Schön, The reflective practitioner, Basic Books, New York 1983.
C.E. Sluzki, Training to think interactionally, in Social Science & Medicine, 8, 483-485, 1974.
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(versione originale)
Toward a contextualization of health, illness and healing: Implications of Bateson’s epistemology of the sacred
What connects the HIV virus to a couple’s desire for children to the fear of infection to their immigration from El Salvador to his incarceration in the United States and all of this to the systemic physician?
Biomedicine in the United States
Until the 1960s, general practitioners had been the cornerstone of American medical care. These physicians delivered babies, treated chronic disease, made home visits, and cared for the whole family during life and death. However, the field of medicine began dramatically changing. It evolved into a number of subspecialties, as a result of the rapid increase in new information about diseases and a surge in medical technology (radiographic imaging, sophisticated surgical procedures, and computers). These advancements, coupled with pharmaceutical sophistication and aggressive marketing strategies, generated considerable hope that medical science would discover cures for everything from cancers to the common cold. The dominance of germ theory, the development of antibiotics and the creation of vaccines had become the heroic innovations that would control many of the infectious diseases that had plagued humanity for generations (polio, typhoid, smallpox).
The American public soon believed they could live longer and healthier. Advertisements, disseminated to a broad audience through the new medium of television, touted the advances in modern medicine and promised that Americans would experience “better living through chemistry”. Pain and stress, now considered the daily inconveniences of modern life, could be eradicated by new medications, such as analgesics and tranquilizers. As pills and surgery became ubiquitous, physicians became “medical providers” and patients became “health care consumers.” The medical-industrial complex was born.
The exponential growth in medical information, the creation of subspecialty medicine, and the high technology of diagnosis and treatment challenged the viability of the general practitioner. Specialists became experts on a specific body part or organ system, and Americans wanted the expertise of the highly trained specialist to ensure they received the best and most current treatment. For example, consider the example of a husband and wife who desire to have a child. After seven months of unsuccessfully conceiving a child, they decide to seek medical help. They are also dealing with other complex health issues. He has diabetes and is HIV positive, and she is HIV negative. In this specialty environment, he must seek help from at least three physicians–infectious disease specialist, endocrinologist and urologist; she needs to consult with her internist and her gynecologist. In addition, they will likely need referred to a reproductive health specialist for fertility treatment.
In the past, the general practitioner would have served many of these functions. However with only their medical school education and one year of internship training, these “family doctors” could not compete with the multi-year trained subspecialist and began to fade from the American medical landscape. The biomedically-focused specialist became the cornerstone of care and remains dominant in the United States.
-Bateson’s Critique of Biomedicine
Gregory Bateson had concerns about the evolution of the field of medicine in the 1960s: “Being doctors, they had purposes: to cure this and that. Their research efforts were therefore focused (as attention focuses the consciousness) upon those short trains of causality which they could manipulate by means of drugs or other interventions, to correct more or less specific and identifiable states or symptoms. Whenever they discovered an effective “cure” for something, research in that area ceased and attention was directed elsewhere. We can now prevent polio, but nobody knows much more about the systemic aspects of that fascinating disease. Research on it has ceased or is, at best, confined to improving the vaccines (145).”1 He goes on to say that “Medicine ends up, therefore, as a total science, whose structure is essentially that of a bag of tricks…Purpose has determined what will come under the inspection or consciousness of medical science…If you allow purpose to organize that which comes under your conscious inspection, what you will get is a bag of tricks—some of them very valuable tricks. It is an extraordinary achievement that these tricks have been discovered; all that I don’t argue. But still we do not know two-penn’orth, really, about the total network system….nobody has written a book on the wisdom of medical science, because wisdom is precisely the thing which it lacks. Wisdom I take to be the knowledge of the larger interactive system which, if disturbed, is likely to generate exponential curves of change (439).”1 Bateson acknowledged that the biomedical approach could be effective. But by over-focusing on sampling the events and processes of the body and the total mind, medicine was organized in terms of purpose, a short cut device to enable physicians reach their goal quickly, but not to treat with maximal wisdom (439).1
Bateson did not blame the limits of a biomedical approach solely on the medical field. He viewed physicians’ behavior in context: “It makes but little sense to accuse the doctors of not using holistic spectacles when they look at their patients, if we shirk the holistic vision at the very moment of our accusation. Under the holistic lens, our criticism of the doctors becomes clearly an ignoring of the total system within which we and the doctors have our existence, and that system includes the whole of our contemporary civilization. It would not be ‘holistic’ to concentrate all our attention upon the symptoms of something wrong and, at the same time, to accuse the doctors of seeing only symptoms (295).”2 Bateson knew that the society in which patients and doctors lived had fostered the beliefs and values in an epistemology that drove the biomedical approach. To address the limits of the biomedical approach meant looking at the problem in context.
For example, Bateson identified the process of symptomophobia—a fear of the symptom; that is, an over-attention to the symptom and under-attention to the system (295).2 He observed that symptomophobia had become a common phenomenon in medical institutions, between doctors and patients, and in society (universities, churches, economic institutions, family relationships (295-6).2 In fact, because of the fear of symptoms, Bateson believed that medicine as a field was symptom activated, and that we, the public, and the doctors share in this “pathology”. Doctors and patients view the symptom in isolation, treat it out of context, and then organize future strategies to prevent it from reoccurring. He says, “Somebody gets paid to make the pathological trend more comfortable…So the doctor who concentrates upon the symptoms runs the risk of protecting or fostering the pathology of which the symptoms are parts (296).”2 He provides the example of pain and various ways that we approach it. A common medical approach includes a local anesthetic to dull the sensation of pain or cut the sensory nerve. However, methods of symptomatic treatment only make sense if the message of the pain is being heard and attended to. Another recommendation is to grin and bear it (the pain). But again this only makes sense if the message has been assimilated. Bateson suggested that perhaps a wiser approach is to attend to the pain and perhaps treat the systemic context— that is, act upon the message of the pain (296).2 For Bateson, the “problem was still how to jump from thinking about the part to thinking about the whole (297).”2 However, this jump is challenging to make in a biomedical approach, which focuses more on delving further into the symptom to find its root cause.
Bateson’s critique of the biomedical approach reflects his concerns with an epistemology of reductionism. The biomedical approach endorses a number of key beliefs and values: 1) the human being is viewed through a mechanistic lens, a highly organized, functional machine; 2) the mind is separate from the body which Bateson notes occurred with the Cartesian splitting of mind and matter which allowed medicine to commit a number of errors in the 19th century during which” the biologists worked hard to un-mind the body; and the philosophers disembodied the mind” (xvii)2; 3) the matter of the body is differentiated into a number of parts, and the sum of the parts equal the whole of the body; 4) reductionism is not simply one tool for scientific discovery but is the dominant method of understanding health, illness, healing and the human organism; 5) causality of disease is lineal; 6) dichotomous, either/or thinking is required to identify which parts to consider and which to ignore in diagnosis; treatment and research; 7) certainty is presumed to be achievable; 8) medical research and treatment is pathology and disease-focused; and 9) the goal of medicine and of any treatment is to cure the disease.
In particular, Bateson’s had grave concerns with how conscious purposiveness operated in the biomedical approach. For Bateson, “Purpose has determined what will come under the inspection or consciousness of medical science (439).”1 The patient comes with a problem to solve; they seek the physician who specializes in that disease; and they focus diagnosis and treatment on that problem. That specialist’s purpose is to focus on that problem. Any issues outside that her focus are referred to another specialist. Purposive consciousness pulls out, from the total mind, sequences which do not have the loop structure….Lack of systemic wisdom is always punished (440).”1 Bateson asked: “Why worry about that?” But what worries me is the addition of modern technology to the old system. Today the purposes of consciousness are implemented by more and more effective machinery, transportation systems airplanes, weaponry, medicine, pesticides and so forth… Conscious purpose is now empowered to upset the balances of the body, of society, and of the biological world around us. A pathology—a loss of balance—is threatened (440).1
In a biomedical approach, physicians and patients focus considerable attention on trying to “control” disease: for example they talk about controlling blood pressure, diabetes, weight, or how fast a tumor grows. This attempt to control the symptom can position physicians, patients and families to use short-sighted, purposive strategies that worsen the problem and miss opportunities for more creative, systemic solutions. Frequently, symmetrical patterns of control emerge. Bateson’s highlighted this process of schismogenesis in the relationship between the alcoholic and the alcohol.3 The alcoholic tries to control the alcohol, which of course is ultimately uncontrollable. This can be expanded to include the family who tries to control the alcoholic who refuses to be controlled, showing how they can control themselves by drinking more. This pattern often occurs between a patient who wants the physician to fix the disease or problem and the physician wants to comply. However the biomedical context can encourage and even financially reward physicians to control the patients’ disease (e.g., reaching evidence-based metrics for HgA1c, or blood pressure). The physician can become caught in a symmetrical sequence, trying to “get the patient” to take their insulin, agree to exercise, or get the mammogram. While this may encourage some patients to adhere to a treatment plan, it may result in what Bateson considers more profane patterns. For example, the physician may tell a patient to take their blood pressure medication or they will likely have a cerebral stroke. However, the patient may decide not to do so, because they are afraid, do not have the money, disagree with the plan or do not want to be told what to do. In future visits, a pattern emerges: the physician intensifies their warning and the patient intensifies their promise to comply. Yet there is no change. The physician becomes increasingly disappointed, and one day the patient does have a stroke. Physician and patient feel resentment and a sense of failure. Each tries to control the other in an escalating fashion. Control predominates for both: the expert strives not to fail, and both parties seek to protect their position. Family members can also engage in these patterns with each other as they overfocus on controlling the risky behavior of their loved ones (reminding to take medication, scolding them about their diet).
Bateson saw the deleterious effects of conscious purposive action beautifully portrayed in the biblical story of Adam and Eve. But he interpreted the result of eating the fruit differently than the orthodox version. He believed that Adam and Eve’s short-sighted decision caused them to break up the systemic nature of everything. For Bateson, God did not banish them from the Garden of Eden. Rather, they threw God, or the “mind”, out of the garden.4 Conscious purposiveness can be seen in the Book of Job, one of Bateson’s favorite stories about illness and the mind. Job is plagued with illness, the death of his family and unending suffering. His friends arrive to console him and sit with him for seven days and nights in silence, weeping and covering their heads in dust. Sitting in compassion was perhaps the most healing act that they could make. Unfortunately, they begin to tell Job their views of why this tragedy occurred which all suggest he did something to deserve it. Their well-intentioned attempts to comfort Job result in narratives that blame him and add to his suffering.
In biomedicine, as physicians consciously try to fix a problem, in a lineal way, they often create new problems. They see only arcs or parts of patterns and conclude that these represent the whole and are the only information needed in the assessment and treatment to resolve health problems. However, Bateson would caution that by treating those arcs out of context risks ignoring other messages in the ecosystem that need to be attended to for the experience of real healing.
–Systems Medicine and Bateson’s Influence
As biomedicine flourished, the United States was in the midst of major societal challenges. The post-war generation had begun to grasp the implications of the atomic bomb, to watch the horrors of the Vietnam War televised daily, to see the violence of racism and the struggles of the civil rights movement, and to understand the damage being done to the environment. Their vision of the world shifted from a collection of disconnected nations, classes, or races to that of an ecosystem inextricably linked and in need of change. A revolution was underway.
In this context, disenchantment with biomedicine also grew, as cures of colds and cancers failed to materialize. Many experts argued that broad scale public health changes, such as sanitation and hygiene, were the real reasons such diseases as polio, typhoid and smallpox had been thwarted, not vaccines and antibiotics. Specialist physician salaries rose, along with medical costs. Physicians worried about being sued and bought malpractice insurance, as patients wanted accountability from their wealthy specialists. Some physicians lamented the loss of the “family doctor” who was interested in both curing and healing, who intimately knew each family member and cared for them from birth to death. The valuable doctor-patient relationship, a hallmark of the general practitioner era, was lost. A revolution among patients and physicians was developing, and Gregory Bateson’s work on systems thinking provided a guide.
A new medical specialty emerged to give physicians the breadth of training to deal with the substantial advances in modern medicine and to also recapture the relational and holistic aspect that was so essential for health care. In 1967, the specialty of Family Medicine was created to train systemic physicians who would care for the individual, family and community. The architects of the new specialty were deeply influenced by Bateson.
The revolution among health professionals and the public to develop more contextual and relational approaches to health and mental health spawned both family medicine and family therapy. Family therapists were dissatisfied with the reductionistic model in biomedicine and in mental health, and they became natural collaborators with family physicians in the development of clinical approaches and training programs.5
In the United States, training to become a specialist in family medicine requires four years of medical school followed by a three year residency during which doctors learn the broad spectrum of medicine: pediatrics, adult medicine, women’s health, intensive care, emergency care, inpatient medical care, obstetrics, general surgery, and palliative care. They learn to practice medicine in the outpatient and inpatient settings. They become primary care physician who provide continuity care for families, dealing with most health issues and referring to specialists when needed.
Because 85% of medical problems have a significant psychological or behavioral component, family physicians also learn to practice psychotherapy. At our family medicine residency training program at the University of California, San Francisco (UCSF), which was created by Carlos Sluzki in 1972, residents receive over 400 hours in systemic/relational therapy over the three years of their residency.6 Family physicians are not psychotherapists or psychiatrists. Rather, they provide both biomedical and psychosocial care from a systemic perspective. However, because they do not separate mind and matter, they must treat the whole person and family which requires relational training and skill. They expand their scope beyond the exam room, seeing they must work towards healing their community, society and world. Thus, in addition to learning clinical medicine, they gain expertise in community health, political advocacy and social justice to address broader issues that influence health (e.g., racism, poverty, climate change). Their work as healers extends from the molecular to the global and is grounded in Bateson’s epistemology of the sacred.
-Bateson’s Epistemology of the Sacred and Systems Medicine
In the final evolution of Bateson’s thinking, he conceived of the interconnectedness of mind and nature as reflecting something sacred: “We are beginning to play with ideas of ecology, and although we immediately trivialize these ideas into commerce or politics, there is at least an impulse in the human breast to unify and thereby sanctify the total natural world, which we are.”7 For Bateson, the sacred represented the larger immanent mind with its vast network of interconnections, circuitry of feedback, and communication patterns of information wrapped up in a beautiful organized whole that connects its branchings. By its very nature, the sacred eludes simple definition, as Bateson believed “we never see in consciousness that the mind is like an ecosystem – a self-corrective network of circuits. We only see arcs of these circuits.”4 The sacred is sewn together and available for our experience and awe, as it holds multiple dimensions of organization in its gaze and allows us to focus on the beauty of organizational process even in the face of pain, suffering and death. Because, the sacred can repair the Cartesian tear in the fabric of the life, it becomes relevant for the work of physicians.8
From this epistemology, Bateson identified a number of principles that can serve as corrections to the errors created by a reductionistic, biomedical approach:
1) Interconnectedness. Bateson conceived of life as comprised of multiple, interconnected systems: individual, interpersonal, society.1 Therefore, health, illness and healing must be understood from this epistemologic frame rather than from a perspective that values dissection, compartmentalization, and acontextual health care. While medicine has historically had a systemic approach when conceptualizing organ systems, its ability to think systemically stops at the individual’s skin. Therefore, Bateson’s visions of mind and nature and the interconnectedness of all life is a profound paradigm shift for the medical field.
2) Boundaries. The boundaries between subsystems can foster or hinder their co-evolution, as they strive to balance autonomy and interdependence. Disease often represents the breeching of boundaries or a breaking of the seams: a malignant tumor that metastasizes; a blood vessel in the brain that ruptures; an infection that affects multiple components of the body; or a neurotransmitter that does not link with a receptor. Bateson believed that “All mental life is related to the physical body as difference or contrast (311)”2 Thus, the epistemology of the sacred focuses the physician’s attention on scanning the gap between subsystems and appreciating an integrated set of parts. We need to keep our gaze on the seams to scan for news of difference-“the difference that makes a difference (228).” 9
3) Participant observer. Unlike the objective scientist of the biomedical approach, Bateson argues that we are not separate from our environment. The physician never simply listens to someone’s heart but is tethered at the other end of the stethoscope. The person of the physician, with their unique knowledge and assumptions, cannot be separated from the person they are examining. The physician is a participant observer during diagnosis and treatment. To be effective, the physician must become self-reflective, observing themselves as part of the patterning process.9
- Rather than focusing diagnosis and treatment on the “things” or arcs of sequences, Bateson requires that we search for the pattern that connects across systems. He says that “viewing the world in terms of things is a distortion supported by language and correct view is in terms of dynamic relations which are the governors of growth (311).2
–A Systemic and Relational Approach to Healing
Bateson did not develop a model of medical care. He was suspicious about the application of his ideas by the family therapy field and was personally “skeptical of the effects of medical treatment (176).”10 Therefore, the following discussion therefore reflects developments in the specialty of family medicine and in our residency training program at UCSF.
Treatment from the biomedical approach proposes that: 1) healing should reduce uncertainty and conflict; 2) knowledge is transmitted hierarchically from an expert (the doctor) to a passive learner (the patient); 3) the doctor retains control, but both doctor and patient want unilateral control; 4) rational thinking is valued over emotion; 5) participants are most interested in self-protection; and 6) success is emphasized over failure.11
A treatment approach that is systemic and relational expands the biomedical approach. It does not dismiss it, but does view its strengths from a contextual lens. A systemic physician will urgently treat septic shock or asthma exacerbation. However, they are also always thinking more broadly and relationally about the context before, after and during the application of focused, biomedical treatment (What subsystems influenced and are influenced by the disease?). Adopting a sacred epistemology requires “both/and” thinking.
Bateson has had substantial influence in the way systemic physicians think about health and illness and in how to build an interpersonal context to catalyze healing. In a systemic medicine approach, the first shift is to recognize that when someone comes to a physician for help, a healing system must be created that includes the patient/family subsystem and the clinician/health care subsystem. This healing system must develop its own rules to govern the formation of boundaries and to determine who will make decisions, how conflict will be handled and how caring can be promoted. The individual physician does not work in isolation but is part of a team of health professionals. The patient or family is an active participant rather than a passive receptacle for information. The health care team and the family/friends engage in a healing process that is more similar to learning than one of simply curing.
This process of learning in the healing system can be understood through Bateson’s concept of deutero-learning, in which an organism is changed without an alteration in its learning capacity (209).8 Bateson believed that change required catalyzing the interactional process which will activate the cybernetic system. In contrast to a process that is conscious, purposive, and primarily rational, Bateson proposed a primary process which links people back to the sacred.1 The role of the systemic physicians in this primary process resembles what Bateson said is needed to counter conscious purposiveness, which is a “Theory of Action within large complex systems where the active agent himself a part of and a product of the system.” He sees “that great teachers and therapists avoid all direct attempts to influence the action of others and, instead, try to provide the settings or contexts in which some (usually imperfectly specific) change may occur (254).” Systemic physicians would adopt this stance.
All participants in this new healing system should exchange valid information, even about difficult and sensitive matters. Private dilemmas should be submitted to a process of shared inquiry, and public tests should be made of negative attributions. Doctors should be able to inquire about the family members’ behavior and be willing to have their own behavior questioned. Disappointment, doubt and mistrust are permissible elements of discussion. Ambivalence; ambiguity and uncertainty are actively explored. Learning explores one’s own beliefs, values, and narratives and that of others, in order to understand why they are stuck. The physician helps create a frame that the health issue (e.g., diabetes, cancer) is both affecting the individual and the entire system. To over focus on the disease only contained in the skin of the patient neglects the patterning that includes the interpersonal and reduces the breadth of potential healing.
Protection of self is a joint enterprise; that is everyone is concerned about how best to protect each other in a way that orients the system towards growth; multilateral protection of others is the goal. The physician is not only concerned about protecting their image or avoiding a malpractice lawsuit, and the patient is not only concerned about being judged or hiding information because of fear of retribution from the doctor.
The task (e.g., addressing hypertension, depression) is jointly controlled. The system values freedom of choice, fosters risk-taking in trying new solutions and monitors constantly the implementation of any choice. This non-hierarchical model fosters all participants to share expertise, control, and responsibility for outcome. Decisions about further testing of complex issues (e.g., testing for prostate cancer) or selecting treatment strategies (e.g., surgery, radiation, and/or chemotherapy for breast cancer) involve shared-decision making. There is an acceptance of conflict, as well as resolution, and creativity in discovering solutions is encouraged.
Treatment involves asking about and hearing from everyone who is involved in the system to offer their perspectives, sharing how they want to proceed, and deciding together how take the next steps. Systemic physicians, subspecialty consultants and the patient and family may all disagree; allowing disagreements to be vocalized is part of the healing. Perhaps most importantly, this healing system actively searches for strengths, resources and resilience within the system rather focus only on pathology. As Bateson says: “Pathology is a relatively easy to discuss, health is very difficult. This…is why there is such a thing as the sacred and why the sacred is difficult to talk about because the sacred is peculiarly…healthy (266).”2
Given that learning in Bateson’s view requires the system to be self-reflective, this model engages systemic physicians, patients and families in three strategies that encourage reflecting and acting on one’s own and others’ thoughts, emotions and actions. 1) Participants need to listen to each other’s views and repeat it back to the satisfaction of the one whose view it is. This fosters the skills of empathic understanding and double listening which attempts to open up complexity by hearing not just one story but more. This can bring to the surface, hidden ambitions and desires that are buried in the way people tell the conflict story. These are skills not just for physicians but for all patients and families to master. 2) Participants need to reflect on their own and others’ views and actions. This helps to make tacit knowledge move from the periphery into consciousness. 3) Bateson discussed that practicing the new behaviors enables one to put the pieces of instruction together to form new patterns. So in this model, participants engage in multiple cycles of reflection and action that permit the experimentation of new behaviors, the evaluation of results, and the enactment of new patterns. This allows people to make decisions about whether to change the course of their behavior while they are behaving.
These reflective strategies encourage physicians and patients to adopt a mindful attitude during and between medical visits. Rather than being distracted by their thoughts, emotions and behaviors, a mindful attitude can help the systemic physician scan the seams of the subsystems and the activity within the organism. This will help protect physicians from acting in short sighted, purposive and conscious ways to over-focus on curing or “fixing” the patients’ and families’ problems.
The physician needs to be continually aware of the presence of emotion in the system, including their own and give patients and families permission to express emotions to provide important information about the integrity of the boundaries and development of the systems. The physician asks questions that allow reflection, action, and further reflection to reach a meta-position in relation to the illness and discover the systemic message of the symptom.
Bateson suggested other qualities that seem essential to systemic physicians. Because they are not able to know all of larger system, what is required is wisdom and humility which he contrasted with scientific arrogance. Bateson realized that we are only part of larger systems, and the part can never control the whole (440).1 Therefore, we must accept that control is limited for the individual—“we are not the captains of our souls (444). ”1 Systemic physicians must accept this limited control which can be challenging in a biomedical culture which asserts that control is both possible and essential for curing disease.
Bateson also urged that love is the most important experience to foster (452).1 For him, love was precisely that to which the pragmatic, headstrong, purposive consciousness must always be allergic.4 Love is contrary to conscious common sense because love involves the total systemic mind.
The Pattern that Connects
In 1973, Ransom and Vandervoort asked, “The crucial question is this: With the same patient for the same problematic complaint, what would a family physician do that is different from what other specialists would?”12 Recall the couple who were interested in conceiving a child. How would a systemic physician’s care be different than the group of other specialists?
In reality, this wife and husband were patients of one of the systemic family physician residents at our UCSF training clinic. She was treating the husband’s HIV disease and diabetes and the wife’s general health. After having one medical visit, they returned and asked for help conceiving a child. She gathered a history of their relationship and discovered that they had been childhood sweethearts in El Salvador. However, he had immigrated to the United States 5 years ago to escape violence, and was an undocumented immigrant. He was arrested and briefly jailed before being granted asylum. In prison, he said he contracted HIV from a forced rape. She moved to the U.S. one year ago, and they were married. Both spoke only Spanish, worked two jobs and struggled financially. They reiterated their desire to have a child and acknowledged they rarely had intercourse.
At the next visit two weeks later, the physician decided to meet with them individually. The husband revealed his fear that his wife only remained married to him because she pitied him due to his infection with HIV. The physician then met with the wife alone. She said she dearly loved her husband but was afraid that intercourse would result in her becoming infected with HIV and also thought their child would also be infected. She also admitted wondering if he was truly infected in prison or was hiding a deeper secret. The doctor learned that neither of them had disclosed their fears to each other or anyone else.
In a third visit the following week, the physician had a conjoint visit and helped them discuss their fears face to face. The husband revealed his fear about why his wife stayed with him. She disclosed her fears about becoming infected and her worries that he might be hiding a secret. He tried to reassure her about how he was infected and of how deeply he had always loved her. She told him she was staying married to him out of love not pity. The physician informed them that because his HIV infection was at undetectable levels, he was not likely infectious. Also, she said the wife could take a pre-exposure prophylactic medication to protect her from becoming infected, and that the risks of her or the baby being infected would be low. The physician was aware of her own bias that a pregnancy would be safe for mother and child and overtly told the couple that, so they could be aware that she held a passionate belief in the risk and in the strength of their relationship. But she also said she wanted them to disagree with her if they did. She would still care for them regardless of their decision. They agreed to go home and talk.
Three weeks later, the couple said their relationship had improved, and the wife asked for a pregnancy test. It was positive. They had a child; and two years later the wife and child has remained HIV negative, and the husband’s HIV and diabetes are well managed.
Perhaps what differed from other specialists care was that the systemic family physician focused not just on the HIV, diabetes or infertility but also involved catalyzing the multiple levels of the interconnected systems in the context of a healing relationship. One of the “patterns that connects” was creating a relationship among the three of them that encouraged reflection on their own interactions, fostered caring and trust, and encouraged brave and honest disclosure of fears. A healing system was created that considered many subsystems, bolstered boundaries, shared control and protection, allowed for rational thought and emotion, encouraged reflection and disclosure of individual perspectives, provided a forum to learn how to learn, focused on the message (their difficulty conceiving) rather than only on the conscious purpose (the conception), and catalyzed their relationship to allow their deep love for one another to be expressed.
Conclusion
Systemic physicians can benefit from reading the last chapter of the Book of Job through Bateson’s eyes. He noted how Job demands God’s reasoning for permitting such suffering, illness and death. And while the traditional reading is that God scolds Job for his pride for questioning his creator, Bateson sees God helping him understand his connectedness to nature. Job responds with a new humility and with a complementary stance in relation to the creator. This story offers a different outcome than disaster in Eden. Job was enlightened and discovers a right relationship with mind and nature, and restoring such a right relationship is both the process of healing and the work of healers. To fulfill their promise to revolutionize health, illness and healing, systemic physicians must adopt a respect, awe, humility and love of the larger system in which their work is but one of many small arcs in the much larger sequences of patterns which constitute the sacred.
References
- Bateson G. Steps to an ecology of the mind. Northvale NJ: Jason Aronson, 1987.
- Bateson G. A sacred unity. (Ed. R.E. Donaldson). New York: Cornelia & Michael Bessie, 1991.
- Bateson G. The cybernetics of “self”: a theory of alcoholism. Psychiatry. 1971;34(1):1-18.
- Bateson G. They threw God out of the garden. CoEvolutionary Quarterly. 1982;Winter:62-67.
- Bloch D. Family, Systems and Health Journal. 1983-2018.
- Sluzki CE. Training to think interactionally. Soc Sci Med. 1974 Sep;8(9-10):483-5.
- Bateson, N. An ecology of the mind. Film. 2010. Accessed 6 May 2018 at http://www.anecologyofmind.com/thefilm.html.
- Bateson G, Bateson MC. Where angels fear. New York: Macmillan, 1987.
- Bateson G. Mind and nature. New York: E. P. Dutton, 1979.
- Bateson MCB. With a daughter’s eye. New York: Walter Morrow & Co, 1984.
- Schӧn D. The reflective practitioner. New York: Basic Books, 1983.
- Ransom DC, Vandervoort HE. The development of family medicine. JAMA. 1973;225(9):1098-1102.