EXAGERE RIVISTA - Luglio - Agosto - Settembre 2024, n. 7-8-9 anno IX - ISSN 2531-7334

Verso un’ecologia della psicoterapia

 

di Francesco Tramonti

 

 

Sono ormai trascorsi più di sessanta anni dalla pubblicazione dello storico e controverso articolo “Toward a theory of schizophrenia” (Bateson et al., 1956), e la figura di Gregory Bateson, pur rimanendo fonte di ispirazione per numerosi clinici e per specifici modelli terapeutici, appare piuttosto in ombra se si guarda al più vasto panorama della salute mentale. Il concetto di doppio legame[1] è spesso citato come esempio di teoria superata, emblema di una stagione ormai trascorsa e consegnata alla storia da una psicopatologia che negli ultimi decenni è stata rivoluzionata dalle progressive scoperte sui correlati neurobiologici dei disturbi psichici. Come spesso accade, in questo campo, “the winner takes it all, the loser has to fall”[2], ossia le contrapposizioni tra differenti approcci appaiono ancora marcate, nette, quando non apertamente astiose. La salute mentale soffre in altre parole di oscillazioni drammatiche nell’adozione di modelli esplicativi, con conseguente frammentazione del sapere e scarso investimento sul piano dell’integrazione e della dialettica. Anche l’ormai datata proposta di un modello biopsicosociale (Engel, 1977) in medicina appare accolta soltanto in parte, e talvolta in apparenza più che nella sostanza, proprio in un ambito, quello della salute mentale, dove dovrebbe esser più naturale riflettere in quei termini. Gli indubbi benefici – sul piano dei trattamenti – derivati dal progresso delle conoscenze sugli aspetti neurobiologici dei disturbi mentali non giustificano l’oscuramento di altre variabili, anche in ragione del fatto che i problemi di salute mentale non sembrano affatto diminuire e molti degli interrogativi che riguardano le relazioni causali nei rapporti tra processi biologici e psicologici rimangono ancora aperti (Deacon, 2013; Miller, 2010). Il sospetto è perciò quello di aver “gettato via il bambino con l’acqua sporca”, relegando agli annali una teoria che, pur certo insufficiente a spiegare l’origine delle psicosi, probabilmente evidenziava un nesso significativo tra comunicazione interpersonale e sviluppo della mente, un nesso che vale ancora la pena indagare[3].

Eziologia e complessità

È opinione diffusa che ancora molto si debba comprendere sull’eziologia dei disturbi psichici, un’eziologia che sempre più evidenze, ormai, tendono a definire come complessa e multifattoriale (Uher e Zwicker, 2017). Le conoscenze sulle predisposizioni genetiche di tratti psichici o caratteri psicopatologici sono cresciute considerevolmente negli ultimi anni, ma altrettanto cresciuta è la consapevolezza che il funzionamento dei geni medesimi è ben più complesso di quanto si tendesse a credere quando l’esplorazione del genoma umano è cominciata. Nulla appare predeterminato in senso stretto, quando si osservano da vicino i processi biologici, ma piuttosto ogni predisposizione sembra modulata – in grado minore o maggiore – dal contesto di sviluppo del fenotipo e dal dispiegarsi dei processi evolutivi. Perciò si parla oggi di epigenetica, ossia di tutti quegli effetti sul fenotipo che derivano dall’interazione tra il genotipo e il contesto evolutivo, in assenza di un’alterazione diretta della sequenza del DNA, e di ecogenetica, in riferimento al più ampio ambito di studio delle interazioni tra geni e ambiente (van Os, Rutten, e Poulton, 2008). Ciò non toglie peso ai geni quali variabili di enorme importanza nell’influenzare i caratteri psicologici e comportamentali, ma restituisce all’interazione tra geni e ambiente una dimensione evolutiva e dinamica che consente al contempo di meglio comprendere il peso dei fattori ambientali, dai quali l’espressione dei geni medesimi è modulata[4]. La dicotomia stessa tra geni e ambiente appare in ultima analisi obsoleta, giacché tali variabili risultano strettamente interdipendenti e interagiscono continuamente, influenzandosi a vicenda, nel plasmare lo sviluppo di tratti e caratteri. Piuttosto che a rigide istruzioni di sviluppo, le disposizioni genetiche sembrano corrispondere a fattori in equilibrio dinamico tra i vincoli codificati nel genoma e ciò che Bateson (1972) ha definito “potenziale non impegnato di cambiamento”, ossia caratteristiche che trovano compimento soltanto nella e attraverso la relazione – in questo caso il contesto evolutivo – e che pertanto rappresentano una misura della flessibilità, una flessibilità che si riduce man mano che il fenotipo segue il corso dello sviluppo e fissa, o comunque vincola maggiormente, determinati caratteri. Molto significative, da questo punto di vista, appaiono le evidenze del fatto che la presenza di alcune varianti genetiche possa esporre ad un aumentato rischio di sviluppo di determinati disturbi ma anche, al contempo, ad una più marcata sensibilità agli effetti positivi della stimolazione ambientale (Belsky, Bakermans-Kranenburg, e van IJzendoorn, 2007). Vincoli e possibilità sembrano perciò caratterizzare lo sviluppo dei correlati biologici dei caratteri psichici, come già suggerito dalla scienza della complessità, di cui Bateson può esser considerato a pieno titolo un importante precursore (Ceruti, 1986).

Mente e apprendimento

Ad un livello di analisi differente possiamo osservare qualcosa di simile allorché analizziamo il rapporto tra organismi – sistemi viventi – e ambiente di vita. L’interdipendenza è in questo caso ancor più evidente, come efficacemente descritto da Bateson che, come noto, estese il concetto di mente al di fuori dell’individuo, sino a concepire come unità di evoluzione, o meglio ancora di co-evoluzione, proprio il sistema individuo-ambiente (Bateson, 1972). Quanto la mente dell’individuo sia profondamente interrelata al contesto di vita è da lunga data tema di studio di discipline quali la psicologia sociale e la sociologia, ma ciò che dona particolare sostanza e attualità al pensiero di Bateson è l’aver colto l’isomorfismo tra processi di sviluppo biologico ed evoluzione del pensiero (Bateson, 1979). Lo sviluppo della mente umana, in altre parole, non sembra sottostare a leggi differenti da quelle di altri processi naturali basati sulla selezione, e la mente medesima sembra piuttosto parte di una più vasta concatenazione di processi che, in questa prospettiva, assumono a loro volta caratteristiche mentali, ossia risultano descrivibili in termini di principi organizzativi che regolano l’interazione tra gli elementi di un sistema[5]. In questa chiave di lettura, la mente è il pattern che connette, l’organizzazione immanente ai processi vitali, entro e al di fuori dei confini del singolo organismo[6]. È bene precisare che non si tratta di un oscuro principio vitale istillato nella materia: si tratta piuttosto dell’organizzazione stessa della materia, ed è per questo che occorre distinguere, come suggerito dallo stesso Bateson, tra processi regolati dalle “forze e dagli urti”, e processi regolati dai segni, ossia da percezioni di differenze (Bateson, 1972).

Come specificato nei “criteri del processo mentale”, dettagliatamente esposti da Bateson (1979) nel testo Mind and Nature, l’informazione è da intendersi come la notizia di una differenza: “L’interazione fra le parti della mente è attivata dalla differenza e la differenza è un fenomeno asostanziale, non situato nello spazio o nel tempo; più che all’energia, la differenza è legata all’entropia e all’entropia negativa”. La differenza è ciò che in altre parole rappresenta un segno, uno stimolo significativo per il sistema (mente) che lo percepisce, e la percezione non è qui intesa come mera trascrizione, o assimilazione passiva dello stimolo medesimo. Piuttosto, il sistema percipiente modifica se stesso in riposta allo stimolo e in base alle regole della propria organizzazione: “Nel processo mentale gli effetti della differenza devono essere considerati come trasformate (cioè versioni codificate) della differenza che li ha preceduti” (Bateson, 1979). È infatti così che funziona il sistema nervoso, ed è certamente significativo il contributo di Bateson a quanto verrà poi approfondito dalla teoria dell’autopoiesi di Maturana e Varela (1980) e dal costruttivismo (von Foerster, 1981). In sostanza, la mente funziona generando metafore in rapporto agli stimoli che percepisce e, quindi, al pari dello stimolo evolutivo attivato dalla differenza, occorre comprendere il potenziale conoscitivo insito nella somiglianza, ossia nel riconoscimento di fenomeni e stimoli come appartenenti a determinate categorie (Madonna, 2003). Negli interventi psicologici, difatti, è proprio il delicato equilibrio tra sintonia, riconoscimento e affinità da una parte, e differenza, potenziale novità dall’altra, che solitamente crea i presupposti per una terapia efficace.

Le implicazioni per la psicoterapia sono molteplici, e di grande rilevanza e attualità. Oggi si osserva infatti un’apparente contraddizione tra l’enfasi sulla tecnica – e sulla conseguente invenzione di infinite forme e varianti di psicoterapia – e l’evidenza di quanto, stando ai dati di ricerca che abbiamo a disposizione, la tecnica sembri in realtà spiegare il cambiamento e l’efficacia degli interventi psicologici assai meno di quanto non facciano i cosiddetti fattori aspecifci, tra i quali la qualità della relazione terapeutica (Norcross e Lambert, 2011; Wampold e Imel, 2011). Si può obiettare che la costruzione di una relazione terapeutica prevede essa stessa aspetti ascrivibili in qualche modo alla tecnica, ma anche al netto di una considerazione di questo tipo, le evidenze cliniche e sperimentali paiono scoraggiare l’idea che la psicoterapia possa esser ricondotta ad un puro esercizio di strategie efficaci. Senza togliere importanza alla competenza del terapeuta, al metodo e al saper fare, in mancanza dei quali non vi sarebbe alcuna distinzione tra psicoterapia e altre forme di supporto sociale, sembra infatti che il potenziale terapeutico decisivo risieda nell’attivazione di un sistema di cura efficace, caratterizzato da una significativa connessione tra terapeuta e paziente/i. Più nel dettaglio, la relazione terapeutica sembra rievocare la sintonizzazione che si osserva nelle relazioni di accudimento e che fonda le basi delle disposizioni comportamentali e relazionali che poi evolvono e si complessificano nel corso del ciclo vitale su impulso delle relazioni e delle esperienze successive (Boston Change Process Study Group, 2010; Stern, 2004).

La relazione è perciò al centro tanto dei processi vitali quanto, non a caso, dei contesti di cura, nei quali si creano, attraverso la relazione medesima, i presupposti per favorire quei processi di apprendimento che si verificano grazie al potenziale evolutivo della differenza, ossia degli stimoli che ampliano l’orizzonte di comprensione e di elaborazione del soggetto o dei soggetti in trattamento. Nella prospettiva di Bateson l’apprendimento è proprio il corrispettivo, a livello di mente individuale, di ciò che lo sviluppo, ossia l’evoluzione, rappresenta per la specie (Bateson, 1972). Se, come abbiamo detto, attraverso le relazioni pregresse si formano delle predisposizioni ad elaborare e reagire agli stimoli in modi preferenziali, attraverso il processo terapeutico si può avere l’opportunità di superare i vincoli che tali predisposizioni pongono, soprattutto nei contesti in cui rendono il comportamento scarsamente efficace in termini adattivi e di crescita personale. La psicoterapia diviene, in un certo senso, un’educazione al riconoscimento dei contesti, ma anche al loro attraversamento; un apprendere ad apprendere, in buona sostanza. È proprio la sensibilità ai contesti, peraltro, che risolve molte delle rigide dicotomie cui il nostro pensiero troppo spesso cede. Ed è questa l’altra faccia del doppio legame, quella che genera creatività invece che patologia, e che crea terreno fertile per gli apprendimenti più fecondi. Ma l’apprendimento non può essere istillato dal terapeuta con manovre di controllo, dal momento che, pur responsabile degli stimoli che procura, il terapeuta non ha un controllo unilaterale sulla relazione terapeutica, tanto meno sul suo interlocutore (Keeney, 1983). Perciò l’apprendimento non può che emergere da una trasformazione dell’epistemologia di chi apprende, ossia delle premesse con cui vengono abitualmente interpretati, a livello sia cognitivo che emotivo, gli stimoli. Tale trasformazione può esser dal terapeuta favorita ma mai determinata in senso stretto, e ciò probabilmente spiega perchè la tecnica occupi uno spazio così modesto tra i fattori che favoriscono la cura[7].

 

Psicoterapia e contesto

 

Ciò detto, il mondo della psicoterapia è negli ultimi anni sollecitato da pressanti richieste di prove di efficacia che, pur legittime e ragionevoli, vengono talvolta accolte con scarsa capacità di elaborazione critica e difetto di riflessione teorica. A destar perplessità non è certo la richiesta in sé, né l’obiettivo di verificare l’efficacia di una pratica di cura elargita sia in ambito privato che mediante i servizi pubblici di sanità, quanto piuttosto i metodi applicati e le premesse epistemologiche che sembrano sottendere. In particolare, il modello dei cosiddetti Empirically-supported treatments (ESTs) si basa infatti su studi controllati e randomizzati (randomized controlled trials – RCTs) che sono considerati il gold standard per la valutazione dell’efficacia dei trattamenti farmacologici ma la cui applicabilità e appropriatezza in ambito psicoterapico è da più parti messa in discussione (Deacon, 2013). Tali protocolli di ricerca clinica presuppongono infatti una rigida manualizzazione dei trattamenti, che tradisce un’idea della psicoterapia basata sullo stretto controllo di quanto avviene nel contesto di cura che, come abbiamo appena visto, appare irrealistica e in ultima analisi contraddittoria rispetto a quanto sappiamo sul processo terapeutico e sui fattori cruciali per il cambiamento. In altre parole, si tende a considerare il trattamento come un principio attivo facilmente isolabile, ed assimilabile ad un chiaro procedimento di somministrazione, lasciando sullo sfondo variabili fondamentali – per la comprensione del trattamento medesimo, e non solo della sua efficacia – quali le caratteristiche del paziente, del terapeuta e della loro relazione. Sulle misure di verifica, inoltre, occorre un’approfondita riflessione, poiché non è così condivisa la definizione di obiettivi, né lo è la concezione di che cosa definisca efficace una psicoterapia, se ad esempio sia la riduzione degli eventuali sintomi, oppure il miglioramento della qualità della vita e delle relazioni interpersonali, o ancora l’emergere di quei processi di apprendimento sopradescritti che mal si prestano ad essere misurati poiché, tornando a quanto detto, non appartengono al mondo “degli urti e delle forze” ma a quello dei processi mentali. Infatti, benché la riduzione dei sintomi sia senz’altro obiettivo importante ed auspicabile di un trattamento psicologico, occorre che a sostenerla e a renderla duratura sia un cambiamento più vasto nella relazione tra individuo e contesto, onde scongiurare il rischio di “curare il sintomo in modo da rendere confortevole il mondo per la patologia” (Bateson, 1978).

Se, come di fatto molte evidenze suggeriscono (Feeney e Collins, 2015), il benessere dell’individuo è inseparabile dalla qualità delle sue relazioni, proprio il rapporto tra soggetto e contesto dovrebbe rappresentare l’oggetto d’analisi e di intervento precipuo di ogni psicoterapia, sia essa destinata ad individui, famiglie o gruppi. Questo ci porta a quello che forse è l’aspetto di più stringente attualità e significatività del pensiero di Bateson in rapporto alla psicoterapia. Perseguire obiettivi di benessere psicologico, infatti, non può che significare coltivare la qualità della relazione, della relazione terapeutica in quanto strumento per il raggiungimento degli obiettivi di cura, e della qualità delle relazioni di chi è destinatario dell’intervento terapeutico[8]. Occorre, a questo scopo, gettare uno sguardo al di fuori della stanza di terapia e favorire il bilanciamento delle istanze di appartenenza e differenziazione, aiutando individui, famiglie e gruppi a coltivare legami supportivi, reciproci e al contempo flessibili di fronte agli sviluppi del ciclo vitale e delle istanze socio-culturali, con le quali, come suggerito da Whitaker e Malone (1953) in un testo di molti anni fa, la psicoterapia deve mantenere un rapporto dialettico di comprensione e conoscenza, ma anche di adeguato distanziamento, onde scongiurare un’adesione incondizionata ed acritica a modelli, tendenze e impulsi che talvolta possono essere nocivi in termini di salute mentale.

Questo è oggi un tema di particolare pregnanza, giacché le derive individualistiche di molte società moderne, e il concomitante deprezzamento del legame, pongono la psicoterapia di fronte al concreto e forte rischio di colludere con aspettative informate dalla ricerca spasmodica di un appagamento egoistico di bisogni personali, o presunti tali, che di fatto allontanano dal benessere psicologico e contribuiscono al disfacimento del tessuto sociale e del senso di comunità, nonché al proliferare di cicliche e continue insoddisfazioni e frustrazioni (Doherty, 1996). In questo frangente la psicoterapia deve perciò riconoscere, più che mai, il suo ruolo nell’ambito del vivere collettivo, promuovendo le competenze relazionali, quella “prontezza ad essere relazionali” (readiness to be relational) per dirla con Mona Fishbane (2001), e un senso etico che, fondato sul riconoscimento della centralità della relazione nella definizione del benessere psicologico, è ben lungi dall’essere moralistico. È semmai qualcosa che si avvicina all’estetica, come sottolineato dallo stesso Bateson, per il quale l’etica e l’estetica, non a caso, tendevano a sovrapporsi[9].

Di quanto, infine, alcuni concetti specifici delle teorie di Bateson siano utili nella pratica terapeutica si è scritto molto (Boscolo e Bertrando, 1996; Madonna, 2003; Selvini Palazzoli et al., 1980; Tramonti e Fanali, 2013), e non è il caso di ritornarvi in questa sede. Su un piano più generale, basterà ricordare che il richiamo alle opere di Bateson, così come di altri autori che hanno studiato a fondo i presupposti epistemologici dell’agire e del pensiero umano, è quanto mai salutare e necessario, poiché come sottolineato dallo stesso Bateson (1977) è impossibile non avere un’epistemologia: chi sostiene di non averne ha soltanto una cattiva epistemologia.

 

 

 

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[1]              Il costrutto di doppio legame venne presentato da Bateson, Jackson, Haley e Weakland nel su citato articolo come possibile fattore eziologico nella genesi della schizofrenia e fu il frutto di ricerche sulla comunicazione svolte a Palo Alto dagli autori. Esso consisterebbe in una contraddizione tra un messaggio ed un relativo metamessaggio che lo contestualizza, contraddizione che si ripete nel tempo e nell’ambito di un rapporto interpersonale intenso ed irrinunciabile, quale ad esempio la relazione tra genitore e figlio. Bateson giudicò prematura la pubblicazione del testo e successivamente, assieme a Jackson e Weakland, scrisse un nuovo breve articolo in risposta ai commenti critici apparsi in letteratura, precisando che il precedente, discusso lavoro, non pretendeva di proporre il doppio legame come spiegazione ultima, e unica, della genesi delle psicosi (Bateson, Jackson, e Weakland, 1963). Da possibile fattore eziologico nella genesi della schizofrenia, nonché da modello per la comprensione di fenomeni quali l’arte, la poesia e l’umorismo, il concetto è stato poi da Bateson ampliato a forma di comunicazione ben più estesa ed universale, non esclusiva del linguaggio umano, e a condizione riscontrabile nei più vasti processi biologici dell’adattamento e dell’evoluzione (Bateson, 1978). A Sluzki e Verón (1971) si deve invece un successivo e rilevante approfondimento sulle differenti declinazioni semantiche del doppio legame in rapporto a differenti disturbi psichici.

[2]              Il riferimento è ad un noto brano degli ABBA.

[3]              Ben più popolari sono oggi le teorie che originano dagli studi sull’attaccamento (Bowlby, 1988), teorie che peraltro non paiono in contraddizione con quelle sui sistemi familiari che hanno preso ispirazione dal lavoro di Bateson. Si pensi, ad esempio, ai possibili paralleli tra il concetto di doppio legame e determinati contesti di sviluppo da cui possono originare quadri di attaccamento insicuro o disorganizzato (Blizard, 2003), ossia dove si rileva un significativo squilibrio tra percezione di protezione da parte delle figure di accudimento e sicurezza nell’esplorazione, nonché ai più recenti sviluppi di prospettive teorico-cliniche che pongono di nuovo in primo piano la studio della comunicazione nella comprensione dei numerosi fattori che contribuiscono allo sviluppo di condizioni psicopatologiche (Fonagy e Allison, 2014). A questo proposito appare particolarmente degno di nota il concetto di epistemic trust, mutuato dalla teoria della pedagogia naturale di Csibra e Gergely (2011), secondo la quale la trasmissione di conoscenze attraverso la comunicazione rappresenta un aspetto cruciale dello sviluppo cognitivo umano, e che sul versante clinico può trovare una significativa declinazione negli effetti che possono avere l’inattendibilità o l’incoerenza dell’informazione, e di quegli stimoli che, in anni critici, sono cruciali per lo sviluppo di adeguate capacità di comprensione dei propri vissuti interiori e del mondo circostante  (Hill et al., 2003).

[4]              Gli studi del gruppo di Bateson a Palo Alto presero in esame le interazioni all’interno dei contesti familiari, comprensibilmente identificati come i principali ambiti di sviluppo in seno ai quali osservare gli effetti pragmatici degli scambi comunicativi. Da queste indagini, nonché dal lavoro di clinici impegnati nell’analisi e nel trattamento delle famiglie di pazienti con disturbi psichici, nacque il movimento di terapia familiare, e con esso l’approccio sistemico-relazionale alla psicoterapia (Goldenberg e Goldenberg, 2009). Benché, come detto, la teoria del doppio legame goda oggi di scarso credito, lo studio delle relazioni familiari in rapporto alla patologia psichica rivela ancora indizi di associazioni significative, incoraggiando approfondimenti che includano lo studio delle relazioni familiari in una più vasta cornice di riferimento in cui le altre variabili in gioco, e le loro mutue influenze, possano essere contemplate, come dimostrano gli studi di Lyman Wynne e colleghi (Sluzky, 2007a; Wynne et al., 2006), nonché solide prospettive di ricerca nel campo della psicopatologia dello sviluppo (Davies e Cicchetti, 2004). Si tratta in altre parole di adottare pienamente ed autenticamente un approccio biopsicosociale, indagando soprattutto le interazioni tra le suddette variabili e le interfacce tra i differenti livelli di analisi, senza dimenticare che i medesimi livelli di analisi non sono che utili metafore da noi utilizzate per descrivere reti e gerarchie di fenomeni interconnessi di una realtà complessa (Alessi, 1992; Kendler, 2012; Miller, 2010; Onnis, 1993; Sluzki, 2007b). Al contempo, quanto oggi noto sull’importanza dei modelli di attaccamento nel plasmare le competenze relazionali e le capacità di regolazione affettiva – variabili fondamentali nel definire la qualità del benessere psicologico – merita di essere approfondito nel contesto delle relazioni familiari (Crittenden e Dallos, 2009; Hill et al., 2003), giacché è in tale ambito che solitamente le relazioni di accudimento hanno luogo. Laddove questo non accade, o per motivi di istituzionalizzazione o perchè la crescita avviene all’interno di società in cui le relazioni di attaccamento si esplicano in reti di sostegno più estese, permane la necessità di contestualizzare tali relazioni, in piena sintonia con un approccio sistemico che ha sempre avuto a proprio fondamento la massima di Bateson secondo cui “è il contesto che fissa il significato” (Bateson, 1979).

[5]              Per spiegare questo concetto, in un celebre articolo sull’alcolismo Bateson (1971) ha utilizzato la metafora del taglialegna, in cui la descrizione di un uomo che con un’ascia taglia un albero serve a mostrare quanto ogni singolo passaggio dell’azione svolta coinvolga processi di calibrazione che legano la mente dell’uomo alle retroazioni degli altri elementi, definendo un sistema di interazione uomo-ascia-albero in ultima analisi inscindibile. Alla base di tali processi si collocano quei meccanismi di feedback, ossia di retroazione tra elementi connessi all’interno di un sistema, studiati dalla Teoria Generale dei Sistemi e dalla cibernetica (von Bertalanffy, 1967; Wiener, 1965) e dai quali origina il concetto di causalità circolare, ossia di retroazione tra cause e conseguenze di un fenomeno (Watzlawick, Beavin, e Jackson, 1967). Bateson fu assiduo frequentatore delle celebri Macy Conferences, in occasione delle quali autorevoli esponenti di varie discipline si incontrarono per studiare tali meccanismi di regolazione negli esseri viventi, nelle macchine e nelle interazioni sociali (Heims, 1991). Di formazione antropologo, Bateson si avvicinò originariamente a questi fenomeni grazie alla sua esperienza sul campo in Nuova Guinea, dove studiò i rituali della popolazione Iatmul (Bateson, 1958). Queste prime intuizioni e formulazioni furono cruciali nell’indirizzare l’autore verso la ricerca di isomorfismi e paralleli ad altri livelli di analisi, e quindi verso la cibernetica e lo sviluppo della sua ecologia della mente (Lipset, 1980).

[6]              Tracce dell’ecologia della mente di Bateson possono essere reperite in alcuni modelli delle scienze cognitive (Hutchins, 2010) e, benché spesso in assenza di riferimenti e citazioni esplicite, della filosofia della mente (Clark e Chalmers, 1998).

[7]              Sul tema del controllo Bateson ha scritto pagine significative e piuttosto note nel già citato articolo sull’alcolismo (Bateson, 1971). In piena sintonia con le su citate teorie sistemiche e cibernetiche, Bateson rigettava l’idea che un elemento potesse controllare unilateralmente il sistema in cui è incluso, tanto quanto non è dato ad un organo controllare l’intero organismo, pur potendone influenzare il funzionamento. A questo proposito si ricordino le discordanze tra Bateson e Haley proprio sul tema del controllo, nonché sul significato medesimo di doppio legame, che portarono lo stesso Bateson ad abbandonare il gruppo e le ricerche sulla comunicazione a Palo Alto. Haley e Jackson si proposero infatti di ricavare un modello di terapia dalle teorie elaborate, enfatizzando tuttavia il peso del controllo e l’utilizzo del potere insito nella relazione terapeutica. Da tutto questo Bateson prese fermamente le distanze, per motivi che non è difficile comprendere alla luce di quanto esposto rispetto alla sua concezione dell’informazione e della differenza. Se Haley era interessato soprattutto alla traduzione in tecnica di quanto studiato, Bateson da parte sua tendeva a diffidare di ogni applicazione del suo medesimo pensiero, così come dell’idea che i doppi legami fossero cose e che come tali potessero essere contati (Bateson e Bateson, 1987).

[8]              A questo proposito può essere significativo segnalare una tradizione di esperienze cliniche che, in particolare nell’ambito dell’approccio sistemico-relazionale alla psicoterapia, pone al centro del proprio intervento contesti allargati di relazione sociale, anche al di fuori della famiglia. Possiamo idealmente – e forse al prezzo di un’eccessiva sintesi – identificare una linea di sviluppo che, dalle prime esperienze di terapie di rete (Foulks, 1981), giunge alle attuali terapie multi-sistemiche (Henggeler e Schaeffer, 2016) e alle esperienze ascrivibili al metodo dell’open dialogue (Seikkula e Olson, 2003). Si tratta di approcci che condividono una prospettiva centrata sull’intervento nei contesti relazionali allargati, istituzionali e non, che muove dallo scopo di coinvolgere le reti di relazioni significative nella cura del disagio o del disturbo psichico. L’importanza del contesto e delle relazioni significative nel definire il benessere psicologico non è ormai tema di esclusivo appannaggio dell’approccio sistemico-relazionale, e difatti si osservano da tempo contributi orientati al riconoscimento di tale importanza anche nell’ambito delle teorie e terapie psicodinamiche (Stolorow e Atwood, 1992) e cognitiviste (Hayes et al., 2006). Nondimeno, questa riflessione sui contesti porta in ultima analisi a riconoscere i limiti della psicoterapia, ossia alla consapevolezza che qualsiasi intervento clinico ha scarse o nulle probabilità di efficacia se persistono le condizioni di vita che alimentano o rafforzano il disagio o la patologia.

[9]              Per Bateson la sensibilità estetica è proprio la capacità di cogliere le connessioni nei e tra i sistemi viventi, nonché l’agire di conseguenza. Pur dubbioso nei confronti della psicoterapia, così come di ogni azione finalizzata o altro intervento riparativo, Bateson riteneva che proprio la psicoterapia potesse rappresentare uno di quei contesti in cui avvengono gli apprendimenti di grado più elevato (Bateson, 1991).

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