EXAGERE RIVISTA - Gennaio-Febbraio 2025, n. 1-2 anno X - ISSN 2531-7334

Via le etichette: il bambino come risorsa in terapia familiare

di Francesca Rifiuti

A Luglio 2023, nella suggestiva cornice di Assisi, mille terapeuti familiari si sono incontrati per un evento internazionale organizzato dall’Accademia di psicoterapia della famiglia. La conferenza aveva come scopo quello di lavorare in modo congiunto a un rinascimento della terapia familiare, prendendo avvio dagli approcci e dalle ricerche teoriche del passato per poter guardare alle complessità e alle sfide del presente e degli anni a venire. 

Il volume “La famiglia che cura: prospettive e pratiche sistemiche dal mondo”, una guida completa e ricca di spunti clinici di grande spessore, affronta molte delle aree di intervento della terapia familiare: dal lavoro con i bambini e gli adolescenti alle famiglie adottive, passando per l’intercultura, la coppia e il lutto. Ogni area tematica è ben sviluppata e si avvale della collaborazione di vari esperti del settore provenienti da diverse aree del mondo, che contribuiscono a intessere un interessante mosaico di esperienze culturali e cliniche accomunate dall’applicazione del medesimo approccio terapeutico.  

Questo articolo si focalizza sulla prima parte del volume, quella dedicata alle risorse dei bambini e alla necessità di andare oltre l’etichetta diagnostica. Nei vari capitoli in cui si suddivide, essa cerca di focalizzarsi sull’importanza di un lavoro terapeutico che non si lasci influenzare troppo dalle etichette e dalle diagnosi e che guardi al sintomo e alle caratteristiche dei bambini e delle bambine come a risorse importanti e valide al fine di poter entrare nella famiglia, poterne capire le dinamiche e le modalità relazionali ma anche di poter comprendere meglio quel bambino, conoscerlo e valorizzarlo nella sua unicità. 

La prima parte del volume ripercorre le tappe teoriche che hanno contribuito allo sviluppo della tecnica di ridefinizione del sintomo. Ridefinire i sintomi in chiave relazionale permette di spostare l’attenzione dall’individuo alla relazione in cui è immerso e, nel caso in cui il portatore di sintomo sia un bambino, aiuta a liberarlo da tutto ciò che di negativo comporta il sentirsi “etichettato” e supporta il clinico nella costruzione di una buona alleanza terapeutica. 

Se come terapeuti ci limitiamo a osservare i bambini, spesso ciò che si rende evidente è esclusivamente il loro disagio, il loro sintomo, la loro difficoltà. Ne deriva per ovvi motivi un approccio esclusivamente “diagnostico” e una tendenza ad attribuire al bambino che abbiamo davanti un’etichetta che spiega e definisce in modo sintetico il suo disagio ma che certamente non descrive la persona nella sua interezza e complessità. 

Ciò che deve muovere il terapeuta è invece la curiosità di capire il sintomo e la sua funzione all’interno del sistema familiare, iniziando con il restituire al bambino valore e competenza in quanto conoscitore della propria famiglia e delle dinamiche che si delineano. In fondo è spesso vero che la famiglia arriva in terapia quando il bambino manifesta una problematica e che non diciamo niente di sbagliato quando rimandiamo ai figli che sono proprio loro ad aver portato la famiglia in terapia. 

I bambini e le bambine sono solitamente disponibili a diventare guide per i terapeuti, ad aiutarli a conoscere meglio la situazione e a essere i loro principali interlocutori. 

Ogni domanda che il terapeuta pone ai genitori potrebbe essere fatta, con una modalità adeguata, direttamente ai bambini, invitandoli a essere protagonisti attivi del processo terapeutico ed elementi chiave per la comprensione e la risoluzione dei problemi. 

Per poter fare questo è necessario prepararsi a entrare in un altro pianeta, quello dei bambini appunto, facendoli sentire accolti e abbassandosi alla loro altezza, così anche da poter vedere tutto con i propri occhi, attraverso una prospettiva del tutto diversa da quella che possono avere gli adulti “dall’alto”. 

Prepararsi ad accogliere i bambini in terapia può essere un vero e proprio rituale, perché, come afferma Michele Zappella nel capitolo da lui curato, è importante che i piccoli si sentano accolti nel nuovo ambiente, che abbiano la sensazione che noi li stavamo aspettando. Sarà quindi opportuno costruire un setting adeguato, con alcuni giochi ben selezionati che possano far da stimolo alla creatività e possano far sentire al sicuro. 

Una terapia familiare impostata seguendo la prospettiva teorico-pratica di alcuni dei suoi pionieri, come Virginia Satir e Carl Whitaker, prevede proprio un approccio di tipo esperienziale che parte dall’attività ludica, finalizzata a coinvolgere e stringere un’alleanza con i bambini ma anche a tirare dentro tutti gli altri membri, proprio attraverso una forma di espressione libera e meno strutturata, pur sempre guidata dal terapeuta con accuratezza e riflessione clinica. 

Il gioco permette di entrare in contatto con la fantasia, l’emotività e l’esperienza dei bambini ed è proprio da questo incontro che ha inizio l’alleanza terapeutica, da una condivisione emotiva tra famiglia e clinico che può essere innescata soltanto attraverso attività che partono dal linguaggio corporeo, non verbale, emotivo. 

Le interazioni di gioco promuovono il cambiamento all’interno della famiglia dal momento che, anche grazie alla guida e alle riflessioni suggerite dal terapeuta, generano una consapevolezza rispetto a come ogni membro si è sentito all’interno di quell’esperienza: la famiglia si porta a casa questo e può, nel contesto più ecologico della vita quotidiana, ripetere ciò che è stato sperimentato nella stanza di terapia. 

La terapia con i bambini ha quindi come primo obiettivo quello di amplificare la loro voce, di valorizzarla e trasformare le loro difficoltà, i loro sintomi, in una risorsa relazionale che possa servire per generare trasformazione ed entrare dentro alla famiglia, evitando dinamiche di triangolazione dannose nei conflitti tra adulti legati alla coniugalità e alla genitorialità. 

Coinvolgere i bambini all’interno del processo terapeutico e renderli protagonisti permette non tanto di evitare l’inquadramento diagnostico che in alcuni casi è fondamentale per impostare un buon lavoro di rete tra specialista, famiglia e scuola, ma di guardare anche oltre l’etichetta. 

Si tratta, come afferma Maurizio Andolfi, di praticare una trasformazione da una terapia come intervento riparativo a una terapia che è un vero e proprio viaggio terapeutico attraverso i processi di sviluppo della famiglia, attraverso la sua storia, le sue difficoltà, le sue risorse. E il co-pilota di questo viaggio, ad affiancare il terapeuta, non può che essere il bambino.


 La famiglia che cura

prospettive e pratiche sistemiche dal mondo

a cura di Maurizio Andolfi, Antonello Elia

2024, Raffaello Cortina Editore

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